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Straniero/estraneo

Albert Camus
L’étranger [1942]
Gallimard, Paris 2011
Pagine 184

Un sole accecante intesse lo spazio, il cielo, i corpi. Un sole disumano e insostenibile. È anche a causa sua che Meursault -un impiegato che vive e lavora nell’Algeria francese, che si sente ed è come tutti gli altri- si ritrova quasi per caso a uccidere un arabo che lui nemmeno conosce e che era in lite con un suo vicino di casa. «Il y avait déjà deux heures que la journée n’avançait plus, deux heures qu’elle avait jeté l’ancre dans un océan de métal bouillant. […] J’ai pensé que je n’avais qu’un demi-tour à faire et ce serait fini. Mais toute une plage vibrante de soleil se pressait derrière moi» (“Già da due ore il giorno si era fermato, da due ore aveva gettato l’ancora in un oceano di metallo bollente […] Ho pensato che avessi da fare solo mezzo giro su me stesso e sarebbe finita. Ma tutta una spiaggia vibrante di sole premeva dietro di me”; p. 91), spingendolo a non fermarsi, ad avanzare, a suscitare la reazione spaventata dell’uomo che estrae un coltello luccicante al sole. «C’est alors que tout a vacillé. […] Il m’a semblé que le ciel s’ouvrait sur toute son étendue pour laisser pleuvoir du feu. […] J’ai secoué la sueur et le soleil. J’ai compris que j’avais détruit l’équilibre du jour, le silence exceptionnel d’une plage où j’avais été heureux» (“È stato allora che tutto ha vacillato. […] Mi è sembrato che il cielo s’aprisse in tutta la sua estensione per lasciar piovere del fuoco. […] Ho scosso il sudore e il sole. Compresi che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, l’eccezionale silenzio di una spiaggia dove ero stato felice”; 92-93).
Al presidente del tribunale che gli chiede se ha qualcosa da dire dopo la feroce requisitoria con la quale il pubblico ministero ha chiesto la sua condanna a morte, Meursault risponde che lui non aveva alcuna intenzione di uccidere l’arabo e che questo è accaduto «à cause du soleil» (156). Ma un’altra corte lo aveva già osservato e giudicato. Una corte composta dai compagni d’ospizio della madre, con i quali aveva trascorso la notte di veglia funebre senza versare una lacrima: «j’ai eu un moment l’impression ridicule qu’ils étaient là pour me juger» (“ho avuto per un momento la ridicola sensazione che fossero là per giudicarmi”; 19).
Quest’uomo solitario ed estraneo a ogni evento viene giudicato e condannato non per aver ucciso un altro uomo a revolverate ma per non aver pianto al funerale della madre, per non aver pregato sulla sua tomba, per essersi fidanzato il giorno successivo, per essere andato con la ragazza prima al mare e poi al cinema a vedere un film comico e aver  infine fatto l’amore con lei. Viene condannato per essere stato vivo, per avere vissuto e per volere ancora rivivere «cette vie absurde que j’avais menée» (181). È anche per questo che non aveva pianto davanti alla madre morta, poiché «si près de la mort, maman devait s’y sentir libérée et prêtre à tout revivre. Personne, personne n’avait le droit de pleurer sur elle. Et moi aussi, je me suis senti prêt à tout revivre» (“per quanto vicina alla morte, maman doveva essersi sentita liberata e pronta a rivivere ogni cosa. Nessuno, nessuno aveva il diritto di piangere su di lei. E anch’io mi sentivo pronto a rivivere tutto”; 183). Tale volontà di eterno ritorno merita la condanna, poiché «tout le monde sait que la vie ne vaut pas la peine d’être vécue» (“tutti sanno che la vita non vale la pena d’essere vissuta”; 171).
Una vita che anche nel protagonista di questo libro è fatta di abitudine -«on finissait par s’habituer à tout» (118)-, è fatta di noia -«je n’avais rien à faire» (71)-, è fatta di indifferenza -«cela m’était égal» risponde Meursault sia al capoufficio che gli propone una promozione a Parigi sia a Marie che gli chiede di sposarlo (66 e 67)-, è fatta del bisogno d’ammazzare il tempo -«toute la question, encore une fois, était de tuer le temps» (120). Una vita che però è intrisa anche di libertà anarchica, è intrisa di poesia -«par la porte ouverte entrait une odeur de nuit et de fleurs» dice da libero (18); «des odeurs de nuit, de terre et de sel rafraîchissaient mes tempes. La merveilleuse paix de cet été endormi entrait en moi comme une marée» ripete ancora in carcere (“odori di notte, di terra e di sale rinfrescavano le mie tempie. La meravigliosa pace di questa lenta estate entrava in me come una marea”; 183), una vita che è intrisa del sempre uguale della perfezione, tanto che qualunque cosa accada «il n’y avait rien de changé» (39).
Una vita senza dio. L’ateismo di Camus è radicale, argomentato, compiuto. La morte di Dio è nelle sue pagine consumata sino in fondo e sino alla fine. Al pubblico ministero che durante un interrogatorio lo invita brandendo un crocifisso d’argento a chiedere il perdono di Dio, Meursault risponde di no e lo fa distrattamente, anche perché il caldo della stanza non gli aveva permesso di seguire con attenzione il ragionamento dell’inquirente. Al cappellano che vorrebbe redimerlo prima dell’esecuzione, risponde «qu’il me restait peu de temps. Je ne voulais pas le perdre avec Dieu» (“mi restava poco tempo. Non volevo perderlo con Dio”; 180). Al di là della disperazione, della morte e del nulla, al di là dunque dei modi nei quali l’esistenza è gettata nel mondo, il monologo di Camus si consuma e si chiude con un grido di poesia, di rivolta, di tenerezza e di gioia, nel quale l’ultima parola –odio– disegna in modo geometrico che cosa la vita sia, che cosa la vita meriti. È  uno dei finali più potenti che conosca:

Comme si cette grande colère m’avait purgé du mal, vidé d’espoir, devant cette nuite chargée de signes et d’étoiles, je m’ouvrais pour la première fois à la tendre indifférence du monde. De l’éprouver si pareil à moi, si fraternel enfin, j’ai senti que j’avais été heureux, et qui je l’étais encore. Pour que tout soit consommé, pour que je me sente moins seul, il me restait à souhaiter qu’il y ait beaucoup de spectateurs le jour de mon exécution et qu’ils m’accueillent avec des cris de haine. (184)

[Come se questa grande ira mi avesse purificato dal male, svuotato di speranza, davanti a questa notte carica di segni e di stelle, per la prima volta mi aprivo alla tenera indifferenza del mondo. Percependolo così simile a me, così fraterno infine, sentivo che ero stato felice, e che ancora lo ero. Affinché tutto fosse compiuto, affinché mi sentissi meno solo, mi rimaneva da desiderare che ci fossero molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che essi mi accogliessero con delle grida di odio]

 

Oltre

Faust
di Aleksandr Sokurov
Con: Johannes Zeiler (Faust), Anton Adasinskiy (l’usuraio), Isolda Dychauk (Margherita), Georg Friedrich (Wagner), Hanna Schygulla (la moglie dell’usuraio)
Russia, 2011
Trailer del film

L’azione. Fame. Disordine. Sporcizia. Denaro. Conoscenza. Lo schifo. Acqua. Il desiderio. Incubi. Homunculus. La storia come illusione. Topi. Guerra. Sesso. Immagini distorte. Espressionismo. Odio. Chiese. Simulacri. Funerali. Ghiacci. Artificio. Corpi. Rancore. Il potere. Medicina. Escrementi. Verità. Alchimia. Dettagli. Cadaveri. Vino. Fango. Grottesco. Simboli. Primissimi piani. Disperazione. Rabbia. Il sogno della ragione. Notte. Puro cinema, che splende d’intelligenza. La luce. Morte. La materia. Il male. Oltre, sempre oltre.

Melancholia

di Lars Von Trier
Con: Kirsten Dunst (Justine), Charlotte Gainsbourg (Claire), Kiefer Sutherland (John), Charlotte Rampling (Gaby), Alexander Skarsgård (Michael), Stellan Skarsgård (Jack), John Hurt (Dexter)
Danimarca, Svezia, Francia, Germania 2011
Trailer del film

La Melencolia I di Albrecht Dürer è una figura circondata dagli strumenti e dai segni della conoscenza e tuttavia intensamente perduta nella contemplazione di un doloroso pensiero. «C’è falsità nel nostro sapere, e l’oscurità è così saldamente radicata in noi che perfino il nostro cercare a tentoni fallisce» scrisse Dürer1 nella lucida e disincantata consapevolezza che la nostra ignoranza delle cose rimane, per quanto si estenda la nostra conoscenza, inoltrepassabile. Ignoranza del senso delle cose e anche, con più modestia, del destino del nostro pianeta. Al quale sempre più si sta avvicinando un corpo celeste molto più grande, il suo nome è Melancholia, pronto ad assorbire dentro la propria energia tutto ciò che la Terra è stata.

Il preludio dal Tristano e Isotta di Richard Wagner è la malinconia fatta musica. Possiede tutta la forza paradossale e struggente di questo sentimento. Le sue note intessono il Prologo del film. Una sequenza onirica nella quale una sposa emerge dalla terra e non riesce a liberarsi dal suo viluppo, i pianeti danzano l‘uno intorno all’altro, dal cielo piovono grandine e uccelli, una madre con il figlio in braccio affonda in prati troppo morbidi, dalle dita di una donna si espandono lampi.
E poi Justine, la sposa. Che insieme al marito arriva in ritardo alla festa preparata per loro dalla sorella Claire e dal cognato John nel bellissimo castello in riva al mare che è la loro dimora. Eleganza, misura, fasto e sorrisi si sbriciolano poco a poco di fronte alla profonda ferocia sociale che riposa dietro i riti e le convenzioni, pronta a svegliarsi, a sbranare, a distruggere. La madre di Justine e Claire esprime con pubblico sarcasmo il proprio disprezzo verso la farsa che tutti in quel momento vede protagonisti, verso la finzione collettiva. La sposa si allontana lungamente lasciando nell’imbarazzo gli invitati. Con l’inevitabilità di un piano inclinato, è la catastrofe.
Infine Claire, che ospita di nuovo la sorella, la sua malattia -tristezza la chiamavano gli antichi, depressione è il suo nome attuale-, la sua distanza da ogni evento, emozione, paura. Invece Claire è terrorizzata da Melancholia, che sempre più si avvicina inesorabile a noi. Il marito cerca di tranquillizzarla, prepara l’emergenza, scruta continuamente il cielo. Ma infine non reggerà. Le due sorelle e il bambino di Claire costruiscono una capanna trasparente nel prato. E attendono. Dopo l’ultima scena è il silenzio. Non più una parola né un’immagine. E neppure una nota.

Risuona invece in chi ha guardato questo film qualcosa di antico che si chiama catarsi. Lars von Trier è riuscito a trasformare in immagini ciò che probabilmente prova chi sta sentendo avvicinarsi la fine. Quel pianeta è infatti come il monolito di 2001. Odissea nello spazio. È figura di Ananke, della Necessità che ci supera infinitamente e tutto avvolge. È figura della morte e della vita intrecciate e dominatrici del cosmo. Anche tra i minerali, tra i pianeti, tra le stelle. Anch’essi nascono, durano e si dissolvono. Ma nel volgersi della materia e della sua energia, «la vita è qualcosa di negativo» -questo sostiene von Trier-, una breve parentesi di sofferenza destinata a tornare nel grande fuoco.
«Perittoì mén eisi pántes oi melacholikoí ou dià nóson, allà dià physin; i “melanconici” sono persone eccezionali non per malattia ma per natura» è l’affermazione conclusiva dell’aristotelico Problemata 30,12. Il genio malinconico e gnostico di questo regista ha costruito un capolavoro che offre all’arte cinematografica l’estrema tensione della totalità e della verità ultima delle cose -la verità del mondo è la morte– e a chi guarda dona lo stupore di aver visto millenni di pensiero sull’umano e sul cosmo diventare una sola immagine.

1. Cit. in R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi 1983, p. 341
2. Trad. di C. Angelino e E. Salvaneschi, il melangolo 1981, p. 27

Il sangue / la luce

Architetture, sculture -e non soltanto parole- sono i versi di Eschilo. Nell’Orestea essi delineano un’ipotesi mitica, e quindi reale, sull’origine della città umana. Origine dal sangue, nel duplice senso del legame e del delitto. Le forze indicibili protagoniste della trilogia -le Erinni- perseguitano infatti non coloro che hanno ucciso e basta ma coloro che hanno ucciso i consanguinei. Per questo non toccano Clitennestra -Agamennone era soltanto suo marito- e perseguitano invece Oreste, il figlio che vendicando il padre l’ha uccisa.
Le Erinni sono «mákares chtónioi», potenze ctonie, figlie della Notte e germinate dalla terra (Coefore, v. 476; le opere sono citate nella traduzione di Ezio Savino, Orestea, Garzanti 2009). Sono le antichissime, che dominavano il mondo già prima di Zeus. Sono le stanghe del fato alle quali gli umani sono aggiogati e che Cassandra -unita ad Agamennone dallo stesso destino di morte- può vedere ma non distogliere da sé. A questa impresa, deviare e trasformare la volontà della Notte che avvolge gli umani, possono aspirare soltanto Apollo e Atena, giovani divinità della luce. L’occasione per farlo è il destino di Oreste, la sua azione di matricida voluta da Apollo e difesa da Atena. Le due divinità sono ben consapevoli delle entità che hanno sfidato. Così, infatti, le descrive Apollo rivolto a Oreste: «Guarda le creature rabbiose: eccole vinte! Crollate nel sonno: vergini -sputi, nient’altro per loro- decrepite figlie dei secoli. Nessuno ama toccarle in eterno: né celeste, né umano, né bestia selvaggia. Tormento, ecco la radice del loro esistere, per questo la dimora assegnata è il tormento del buio, il Tartaro fondo d’abisso. Incarnano il disgusto del mondo e dei numi, su nell’Olimpo» (Eumenidi, 64-73).
Esse, per loro stessa ammissione, perseguitano l’assassino sino a condurlo «dove non c’è neppure parola per dire: sono felice» (Ivi, 423). E che cosa questo significhi è ben spiegato nelle parole con le quali angosciano Oreste: «Così ti macero vivo, ti strascino sotterra / dove ripaghi soffrendo / lo strazio della madre sgozzata» (Ivi, 267-268).
Atena sa che enorme è la loro influenza sulle cose e sugli eventi, che esse sono e rimangono sovrane, qualunque cosa accada: «nel mondo umano esse destinano tutto, con chiara esattezza. Assegnano a uno canti di gioia, a un altro una vita opaca di pianto» (Ivi, 952-955). E dopo averle finalmente persuase a trasformare in benedizione la loro funesta e implacabile furia, la dea giustamente si gloria.
I Greci, che tutto questo hanno pensato, sanno che nell’uomo -nel suo sangue- dorme e parla una «fame implacabile di felicità» (Agamennone, 1331-1332), la quale si scontra istante dopo istante non soltanto con la follia umana ma anche e soprattutto con l’angoscia che ai mortali sembra essere stata fornita quale dote alla nascita. Essa rende instabile ogni serenità e offre, senza che nessuno la assoldi, come scorta lo strazio. Perché? Per quale colpa o caduta? Per quale decisione? Molto più a fondo rispetto al mito monoteistico, per i Greci la colpa ha poco a che fare con i comportamenti; non riguarda l’agire ma l’essere. È colpa ontologica, non etica. «Quale uomo, che sappia la storia, / può dire di essere nato / all’ombra di un destino innocente?» (Ivi, 1341-1342).
È per infrangere, per tentare di farlo, l’ancestrale catena di colpa e di pena che le divinità del pensiero e della luce diventano divinità politiche fondanti il diritto e con esso la città. Il carattere anche e totalmente politico dell’Orestea intesse l’intera vicenda della casa d’Argo. Nel passaggio da Delfi ad Atene, dalle Erinni alle Eumenidi, non viene dunque smarrito uno dei fondamenti antropologici del mondo greco: la miseria dell’umano di fronte alle potenze del mondo e alla potenza che esso stesso è.
Infine, alla fine e all’inizio di tutto, l’elemento pagano scorre puro in questi versi. Scorre nella molteplicità degli dèi, la quale fa sì che nessuno di essi sia onnipotente, che tutti siano costretti a dialogare tra loro e a sottoporsi a giudizio. Persino Apollo. E scorre nel dialogo fra Elettra e il suo coro. All’interrogativo della ragazza se sia azione degna supplicare gli dèi affinché arrivi qualcuno a dare la morte -«Che preghiera, la mia, agli dèi! Sarà religiosa?»-, il coro risponde, sicuro: «Di compensare chi ti odia col male? Dubiti?» (Coe., 122-123).
«Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo” e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori […] E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt., 5, 43-47). I pagani, appunto.

Bronzo sacro

Nag Arnoldi
Sculture 1980 – 2010
A cura di Rudy Chiappini
Milano – Palazzo Reale
Sino all’11 settembre 2011

La scultura rappresenta probabilmente il culmine dell’arte contemporanea. Più delle tele o delle installazioni, infatti, essa stringe la materia a farsi pensiero, memoria, slancio. Moore, Mitoraj, Theimer -per quanto tra loro assai diversi- hanno fatto dell’arte plastica uno strumento privilegiato di indagine sull’enigma dell’umano e del tempo. Enigma al quale l’arte di Nag Arnoldi si avvicina con il coraggio di toccare la materia per trasformarla in forma dell’arcano, del sacro, della morte, della guerra, dell’animalità. Temi immensi, che vibrano in opere come Grande madre, un orrore che si spalanca al mondo dandogli vita e quindi preparandolo alla morte; Carapace, guerrieri corazzati dentro se stessi, segno di una solitudine estrema sino alla follia; Requiem per Gilles de Rais, dove la figura dell’aristocratico sadico e assassino diventa una ferita verticale che emerge come da una lapide.
Ma tutto in quest’arte è rivolto verso l’alto, in un tentativo pacato e insieme estremo di chiedere perdono per il fatto di esistere. Forse per questo -e non soltanto per i chiari riferimenti a Giacometti e per la tensione espressionistica dello stile- le opere di Arnoldi appaiono ascetiche sino a essere scarnificate, come se tutto sia sin da ora ostaggio della morte. E tuttavia, tuttavia una luce sembra percorrere questo bronzo riarso e frammentato. La luce del mito, l’animalità che salva nella sua stessa potenza e ruggito, la sintesi di ogni cosa nel Minotauro. Questa figura ancestrale è l’oggetto di molte opere dello scultore ticinese, fra le sue più belle. In una, Oltre il muro, il Minotauro tenta un’impossibile uscita dal labirinto. Per poi diventare, in Solitudine, una potente figura posta in piedi, sprangata dentro un carcere che entra nelle sue stesse carni sino a farsi un grande urlo. «Cercò di fuggire ma ovunque si volgesse si trovava sempre di fronte a se stesso, era murato da se stesso, era ovunque se stesso, ininterrottamente se stesso, rispecchiato all’infinito nel labirinto. Capì che non esistevano altri minotauri, ma un minotauro solo, esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima, né un altro dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e il rinchiuso insieme, che il labirinto c’era per causa sua, solo perché era stato messo al mondo, perché l’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto tra animali e uomini e fra uomini e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito; e quando l’avvertì come percezione senza comprensione, un’illuminazione senza conoscenza, non come una nozione umana fatta di concetti ma come nozione di minotauro fatta d’immagini e di sensazioni, crollò a terra, e allorché giacque raggomitolato com’era stato raggomitolato nel corpo di Pasifae, il minotauro sognò di essere un uomo».
(Friedrich Dürrenmatt, Minotauro. Una ballata [1985], in «Racconti», trad. di U.Gandini, Feltrinelli 1996, p. 367)

Heidegger, il presente

Conferenze di Brema e Friburgo
di Martin Heidegger
Edizione italiana a cura di Franco Volpi
Traduzione di Giovanni Gurisatti
Adelphi, 2002
Pagine 226

La prima apparizione pubblica di Martin Heidegger dopo la Seconda guerra mondiale fu a Brema, dove il filosofo tenne un ciclo di conferenze dal titolo Einblick in das was ist (Sguardo in ciò che è). Otto anni dopo, a Friburgo, Heidegger condusse un altro ciclo di conferenze intitolato Grundsätze des Denkens (Princìpi del pensiero). Le due conferenze mostrano che di Heidegger è straordinario anche questo: come dalle tesi apparentemente più astratte ed enigmatiche derivi per il lettore una comprensione precisa, efficace e disvelante della vita quotidiana nel presente, degli aspetti fondamentali dell’esistenza individuale e collettiva. Il tempo in cui siamo immersi è spaesato, massificato, uniforme, omologante, desacralizzato, calcolante. Heidegger descrive con precisione queste forme e ne individua le cause e i possibili sviluppi.
La vicinanza non consiste nella diminuzione della distanza. Essa, anzi, implica la percezione di una differenza, senza la quale domina solo l’uniformità dei luoghi privi di qualsiasi identità. Già nel 1949 Heidegger intuisce che «il culmine dell’eliminazione di qualsiasi distanza è raggiunto dalla televisione, che presto attraverserà e dominerà tutta la rete e la ressa del traffico» (p. 19).
Il filosofo ribadisce l’intuizione secondo cui «l’essenza stessa della tecnica non è niente di tecnico» (57). Da qui la necessità di pensare la tecnica in un modo che non sia riduttivo e affrettato, apologetico o demonizzante, moralistico o deterministico, e neppure antropocentrico, neutralizzante, puramente strumentale. Quest’ultima posizione, in particolare, appare tautologica e nello stesso tempo funzionale al dominio: «infatti chi spaccia la tecnica per qualcosa di neutrale la rappresenta, a maggior ragione, soltanto come uno strumento mediante il quale qualcosa è prodotto e ordinato. Chi prende la tecnica per qualcosa di neutrale torna a rappresentarla in termini solo strumentali, cioè tecnici» (87). Per Heidegger la tecnica non è soltanto un mezzo per conseguire degli scopi ma è anche la forma in cui l’essere stesso si dà nell’Occidente moderno, pur avendo le sue radici nella concezione greca della verità come disvelamento, come mostrarsi del mondo agli occhi della mente.
La tecnica moderna è Ge-Stell, termine che si può tradurre con Impianto, nel senso della riduzione di ogni ente, esperienza, avvenimento, luogo, alla sua utilizzabilità da parte di chi, pur rappresentando solo una parte del tutto, crede di costituirne il vertice, l’obiettivo, l’intero, venendo meno in tal modo a quella relazione fra Cielo e Terra, Divini e Mortali che Heidegger definisce Geviert, Quadratura e con la quale indica il Mondo stesso. Il legame fra i quattro elementi viene messo in pericolo dal Gestell come «riunione da sé raccolta dello stellen, in cui tutto ciò che è ordinabile è essenzialmente nel suo essere risorsa sussistente» (55).
Il mondo trasformato in impianto, le persone ridotte a “risorse umane” funzionali alla produzione e sostituibili a ogni istante; è anche questo che il pensiero heideggeriano ha intravisto come dominio del presente. La pretesa di porre l’umano al centro dell’essere, di fare di ogni ente uno strumento ai nostri fini, sembra avere l’esito apparentemente paradossale di trasformare l’uomo stesso in macchina, risorsa ed energia. Ma qui Heidegger mostra una fiducia radicale –e nello stesso tempo ambigua- non tanto nell’uomo quanto nella più ampia struttura della quale l’umano è parte: «Tuttavia l’inumano (das Unmenschliche) è pur sempre l’inumano (unmenschliche). L’uomo non si trasformerà mai in macchina. Certo, questo inumano che mantiene ancora il carattere dell’umanità è più inquietante, poiché più malvagio e funesto di un uomo che fosse soltanto macchina» (60-61). La ragione più profonda della impossibilità di ridurre l’umano al macchinico risiede nella stessa finitudine che ci costituisce. Soltanto l’uomo muore poiché egli non si limita a decedere o a esaurirsi ma vive costantemente nell’orizzonte della propria fine. È la morte che ci mantiene «nel riparo nascosto dell’essere» (36 e 83). Una delle parole conclusive delle Conferenze di Friburgo è che «su questa terra noi rimaniamo insediati nel relativo» (218).
Se «ciò che vuole soltanto rilucere non illumina» (125), è a partire da un’altra luce –da Heidegger chiamata Lichtung, radura che si apre nell’oscuro di un bosco- che il filosofo osserva il dispiegarsi degli eventi e cerca di capirlo. Un grande pensare è capace, al di là delle contingenze, di comprendere il terreno nel quale affondano le radici invisibili del presente e di offrirne una lettura che fa di queste pagine un esempio di teoresi fenomenologica in atto e nello stesso tempo di analisi metapolitica della storia.

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