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La pittura

Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi
Palazzo Reale – Milano
A cura di Anna Baldassari
Sino al 27 gennaio 2013

Quasi un intero secolo (1881-1973) attraversato e vissuto nell’inventare forme, stili, colori, drammi e sogni. Ventenne, Pablo Picasso (il cui nome completo è un fluviale Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz Picasso) visita Parigi e scopre l’arte del secolo appena cominciato. Scopre se stesso. A formarlo sono Impressionismo, Espressionismo, Gauguin ma anche El Greco e soprattutto l’arte tribale africana e oceanica. È così che inizia una concezione panica e panteistica dell’essere, dell’umano e dell’arte. Concezione che Picasso conservò sempre ed è già assai chiara in un Paesaggio con due figure (1908) nel quale gli umani sono del tutto immersi nella physis vegetale, in una serena e potente unione con le forze ctonie del mondo [cliccando sull’immagine si noteranno meglio le due figure].
Ma per Picasso tutto -natura, umanità, oggetti, storia- è pronto a farsi tratto, colore, segno. Una volta disse che «la natura non si può tradurre in pittura se non attraverso dei segni». L’arte contemporanea è caratterizzata anche dalla capacità di trasformare in segno qualunque cosa sia a portata di mano. Manubrio e sellino di una bici diventano, per esempio, una magnifica Testa di toro (1942).

La pittura di Picasso si fa spesso scultura, come in Michelangelo, e le sculture assumono la lievità di un dipinto. Dopo i colori vivacissimi degli anni Sessanta, uno degli ultimi dipinti è il grigionero di Le jeune peintre (1972). Questo giovane artista è in realtà uno spettro, è la morte/pittura che viene a prenderlo.
Dopo la leggendaria mostra del 1953, l’artista andaluso è tornato a Milano con circa 250 opere del Musée National Picasso di Parigi. Stavolta non c’è Guernica, che comunque viene proiettata e indagata nella stessa Sala delle Cariatidi che la ospitò sessant’anni fa. Il percorso della mostra è lineare e arioso; ogni sala è presentata in modo discreto, con i suggerimenti essenziali per comprendere le opere esposte.
Attraversando cubismo, classicismo, surrealismo e tutti gli altri momenti poco classificabili di questo artista senza dogmi, se dovessimo chiedere “Qual è lo stile di Picasso?” la risposta sarebbe “Nessuno”. Lo stile di Picasso è la pittura.

Sul tempo. Una prospettiva teatrale

Teatro Strehler – Milano
La grande magia
di Eduardo De Filippo
con: Luca De Filippo (Otto Marvuglia), Massimo De Matteo (Calogero Di Spelta), Carolina Rosi (Zaira), Nicola Di Pinto (Arturo Recchia e Gennarino Fucecchia), Giovanni Allocca (il brigadiere di polizia e Oreste Intrugli), Gianni Cannavacciuolo (Gervasio Penna e Matilde)
Scene e costumi Raimonda Gaetani
Regia di  Luca De Filippo
Produzione Compagnia di Teatro Luca De Filippo
Sino al 6 dicembre 2012
Video di presentazione

 

Calogero Di Spelta è assai geloso della moglie Marta. In vacanza all’Hotel Metropole, questo suo sentimento diventa l’oggetto dei pettegolezzi dell’intero albergo. In effetti Marta ha un amante, che però non riesce mai a incontrare proprio a causa dell’attenta gelosia del marito. Ma arriva l’occasione, incarnata dal mago di provincia Otto Marvuglia, con il quale la donna si mette d’accordo in modo che durante un suo spettacolo «la faccia sparire per un quarto d’ora». Ma l’amante Mariano la porta via con sé a Venezia e Marta quindi sparisce per davvero. A Calogero che chiede al mago di restituirgli la moglie, Marvuglia risponde che in realtà è stato proprio lui a farla sparire e che Marta si trova in una cassettina che gli consegna. Se il marito la aprirà credendo fermamente nella fedeltà della donna ella riapparirà, in caso contrario la magia non avrà più fine. Calogero crede a tutto pur di non ammettere a se stesso il tradimento di Marta. Quando la donna tornerà da lui, dopo quattro anni, rifiuterà di riconoscerla, convinto ormai che nessuno potrà separarlo da quella cassettina che non ha ancora aperto e dentro la quale è racchiusa tutta la sua passione.
Il paradosso e la tristezza dei sentimenti umani si esprimono qui al di là del dramma e della commedia. La gelosia è l’occasione per una complessa meditazione sul mondo interiore nel quale ciascuno vive, pensa, ama, soffre. Tutto è possibile all’immaginazione. Ciascuno si rinchiude nelle stanze della propria solitudine e da questo castello alto e desolato cerca di amministrare i feudi della disperazione. L’ipotesi che Otto Marvuglia presenta a Calogero Di Spelta è la stessa del film Matrix. Che cos’è realtà, che cosa è illusione? Apri la cassetta, prendi la pillola rossa, e ti troverai nel mondo vero. Tieni chiusa la cassetta, prendi la pillola azzurra, e continuerai a vivere in quell’illusione che tu chiami la verità del mondo.
Ma la svolta dentro questa vicenda tragica e grottesca è data dal tempo. Il mago, infatti, convince Calogero che il fluire degli istanti, delle ore, degli anni è soltanto «la traccia mnemonica di immagini ataviche»; che la sensazione dello scorrere dei giorni, l’imbiancare dei capelli, il raggrinzirsi della pelle è un inganno; che si trovano tutti sempre là, in quella serata all’hotel Metropole nella quale è cominciato il gioco dell’illusione, ha avuto inizio la grande magia.

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Sul tempo. Una prospettiva cinematografica

Amour
di Michael Haneke
Con: Jean-Louis Trintignant (Georges), Emmanuelle Riva (Anne), Isabelle Huppert (Eva)
Francia – Germania – Austria, 2012
Trailer del film

L’immobilità di un appartamento parigino abitato da Georges e Anne. Ottantenni. Hanno vissuto insieme un’esistenza dedicata alla musica, all’arte, al reciproco comprendersi. Tornano dal concerto di un loro brillante allievo. Durante la notte Anne veglia guardando fisso davanti a sé. Il mattino successivo, durante la colazione, per qualche minuto la donna non risponde alle parole e alle domande del marito. Il suo sguardo è fisso e perduto. Georges le prende il viso tra le mani, stupito e preoccupato. Quando Anne rientra in sé, non ricorda ciò che è accaduto.
Sono i segnali di un ictus che le paralizza il lato destro del corpo. Seduta sulla sedia a rotelle. Messa a letto da Georges. Aiutata da lui a lavarsi i capelli e a tagliare il cibo nel piatto. Urina a letto senza accorgersene. Esercizi con la gamba destra. Un faticoso camminare abbracciata a Georges per le stanze di casa. La doccia immobile. Le parole proferite a fatica. Parole in parte prive di senso. La bocca contratta in una smorfia, nella piega. Bocca chiusa a rifiutare il cibo, a respingere via l’acqua che Georges cerca di farle bere.
È il piano inclinato del corpomente che decade, si sfalda, si spegne. Georges ha un incubo nel quale qualcuno bussa alla porta ma dietro la porta non c’è nessuno. Apre. L’ascensore è sparito. Non sarà più possibile muoversi da un piano all’altro. I corridoi del palazzo sono pieni di acqua. Una mano lo afferra alla bocca per soffocarlo. Si sveglia. Ha sognato l’immobilità del corpo, l’acqua/urina, la mano paralizzata della moglie.
Un supremo gesto d’amore, anticipato nella scena iniziale con la quale il film irrompe sullo schermo per chiudersi infine con il pianissimo della figlia Eva che torna nella casa ormai vuota, dove qualcosa è accaduto, è accaduta la vita, è accaduto il dolore.
L’immobilità di un’opera tutta girata in un interno è soltanto apparente. Amour è il puro dinamismo di un far vedere il tempo nelle sue trasformazioni inesorabili, nella dissoluzione alla quale tutti siamo destinati. Il Körper –l’organismo– all’inizio emerge dalle stanze sigillate a impedire che si diffonda l’acre odore della morte. Il Leib -il corpo– è altra cosa, è l’inesorabile esserci come tempo, anche quando il ricordo del proprio bene e della propria bellezza induce a respingere da sé lo specchio che testimonia -oggettivo- l’avanzare del tempo. Il cinema è immagine/movimento, il corpo è tempo/movimento. Entrambi sono temporalità in atto che racconta di se stessa e del mondo. A metà del film la macchina da presa  si sofferma su una serie di dipinti che descrivono l’andare delle stagioni e della natura. Film intessuto di raffinate e discrete citazioni da Bergman, da Vermeer, da Kubrick.
Il movimento lento, anziano e scandito di un meraviglioso Jean-Louis Trintignant è quello di un dio della vita e della morte che si inchina alla potenza suprema, superiore a quella di ogni divinità. La potenza della necessità e del tempo, di Ananke e di Chronos. Frammenti di un tempo cinematografico in un’opera  crudele e radicalmente impudica, che mette a nudo la struttura interna, temporale, dei corpi viventi. Destinati a morire.

Bella addormentata

di Marco Bellocchio
Con: Toni Servillo (Uliano Beffardi), Alba Rohrwacher (Maria), Isabelle Huppert (Divina Madre), Maya Sansa (Rossa), Pier Giorgio Bellocchio (Pallido), Fabrizio Falco (Pipino), Michele Riondino (Roberto), Brenno Placido (Federico), Gian Marco Tognazzi (marito della Divina Madre), Roberto Herlitzka (psichiatra)
Italia, 2012
Trailer del film

Cinema. E basta. L’immagine iniziale è di una donna con la testa e il braccio reclinati sulle panche di una chiesa. Questa donna è una tossica che cerca di rubare per procurarsi la dose, che si ferisce di continuo con un coltello, che tenta più volte il suicidio. E che un medico, il dottor Pallido, si intestardisce ogni volta a salvare.
Un’altra donna è Divina Madre, attrice di grande bravura e successo che ha rinunciato al teatro, alla famiglia, all’amore, per stare accanto alla figlia Rosa che continua a respirare solo perché aiutata da una macchina. Divina Madre si è circondata di statue della Madonna, di sacerdoti, di suore e infermiere con le quali recita furiosamente i suoi rosari lungo i corridoi del palazzo dove abita. Rosa è truccata e vestita di tutto punto nel suo letto. Spenta come una bambola. Il tormento della Madre è di non avere fede sufficiente, di non credere davvero e totalmente alle parole evangeliche che ascolta in chiesa: «La bambina non è morta ma dorme».
Due fratelli. Pipino è bipolare, estremo. Sta andando a Udine per esprimere solidarietà a Peppino Englaro, che ha ottenuto di far trasferire la figlia da Lecco a una clinica dove la restituiranno alla naturalità del suo corpo malato. Roberto lo accompagna, lo accudisce, lo protegge. Ma non riesce a evitare che in un bar il fratello incontri delle ragazze che si stanno recando anch’esse a Udine ma per il motivo opposto, per protestare contro quello che definiscono l’assassinio di Eluana Englaro. Pipino lancia un bicchiere d’acqua contro il viso di una delle ragazze. Roberto evita che faccia di peggio, chiede scusa, dà il proprio numero di cellulare a Maria.
Maria. È la figlia del senatore Uliano Beffardi (un Toni Servillo straordinario, ormai al vertice della sua bravura), il quale cerca di non rispondere alle chiamate del presidente dei senatori del PDL che dovranno votare in fretta e furia una legge che imponga di intubare nuovamente Eluana. Non risponde perché ha deciso di non votare per questa legge, di disobbedire agli ordini di Berlusconi e del partito. La moglie di Beffardi e madre di Maria era morta dopo una lunga agonia. Agonia che la donna chiese proprio a lui di abbreviare spegnendo la macchina che la teneva in vita. Ora il senatore non può, non può proprio, rinnegare le proprie convinzioni. E si pone così non soltanto contro il partito ma anche contro la figlia che continua a recitare preghiere a Udine.
Nel proprio studio Beffardi sta preparando il discorso con il quale motiverà il proprio voto e subito dopo si dimetterà da senatore. Dirà che lui, ateo, avrebbe voluto tenere ancora in vita la moglie anche soltanto per un giorno, per una settimana. E che invece la moglie, convinta cristiana, non sopportava più di vivere e gli chiese ancora un atto d’amore, l’ultimo. Per amore di lei e della sua libertà Beffardi l’aveva accontentata, in uno struggente abbraccio.

Dappertutto, nella casa di Divina Madre e di Rosa, nell’ospedale dove Pallido non lascia un momento Rossa la tossica, negli alberghi di Udine, nelle stanze del Senato, dominano i televisori che raccontano ora per ora  quanto sta accadendo a Eluana, la bella addormentata. Un flusso di immagini senza interruzione, una presenza ossessiva. Televisori anche nella sauna del Senato dove Beffardi incontra un disincantato psichiatra che gli riferisce come molti onorevoli cadano in depressione allorché non vengono più invitati in televisione, o vengono invitati di meno. I senatori immersi nella sauna con gli sguardi rivolti verso i televisori formano una magnifica scena quasi felliniana, surreale e drammatica.
Quegli stessi politici si riuniscono in una delle grandi sale per una foto di gruppo sullo sfondo dei filmati che mostrano lo sventolio delle bandiere del Partito della libertà. Sui loro volti sono stampati indifferenza e menzogna. Ma anche paura.
I nomi reali si alternano a quelli simbolici: Beffardi, Rossa, Divina Madre, Pallido. Il flusso della vicenda accaduta si mescola a immagini oniriche. Il vivere e il morire si intrecciano, inseparabili. E a emergere è la Grande Paura che intesse la contemporaneità occidentale rispetto ad altre epoche e ad altre culture, la paura della morte, il suo rifiuto disperato, fanatico e perdente. Prima infatti che il senato possa votare una legge che impone il totalitarismo etico dello Stato, bella addormentata si addormenta per sempre.
Un mondo che della morte sa vedere soltanto l’orrore, e che fa di tutto per nasconderlo e differirlo, è un mondo senza dignità. Quella dignità che si vorrebbe togliere al Leib, ai corpi vissuti, per immobilizzarli nel Körper, nel puro organismo.
Ma questo sta sullo sfondo. Bella addormentata è cinema, grande cinema. E basta.

Mente & cervello 93 – Settembre 2012

L’esperienza che più di ogni altra plasma di sé l’esistere è apparentemente una non esperienza. È il morire. Morire, appunto, e non morte. Se la propria morte non è per definizione esperibile, la consapevolezza di dover morire ci accompagna quasi sin dall’inizio del vivere. Non pensarci non serve a nulla, anzi peggiora la situazione, come mostra M. Weiderman. Intendendo per “motivi estrinseci” degli obiettivi puramente economici ed esteriori e per “motivi intrinseci” stili di vita che si soffermano sugli elementi gratuiti e immateriali della vita, si è scoperto che «le persone che perseguono obiettivi intrinseci riescono meglio di chi persegue cose materiali a tenere a bada l’ansia associata alla morte. […] Obiettivi di vita intrinseci e creazione di significato appaiono centrali nel venire a patti con la nostra mortalità» (p. 74).

Non temiamo solo la morte. Tra le altre numerose ragioni di inquietudine c’è l’insicurezza costante sull’integrità del corpo che siamo. Insieme alla propriocezione -la percezione della condizione del corpo a ogni istante- è sempre attivo anche lo spazio peripersonale, i circa dieci centimetri intorno a noi nei quali non deve entrare nessuno senza il nostro permesso, né persone né altri animali né oggetti. «È come una bolla di sicurezza, che espande i bordi del corpo percepito oltre i suoi limiti fisici, in modo non cosciente» (G. Sabato, 51). Lo spazio peripersonale è una delle strutture fondamentali del Leib, del corpo proprio, vivente e vissuto. È una condizione che discende direttamente dal meno valorizzato dei sensi ma che forse è il più importante di tutti, il tatto. Aristotele ne aveva ben compreso la rilevanza. Nel II libro del De Anima scrive infatti che «in tutti gli animali la prima facoltà sensitiva è il tatto»; «anche a proposito dei sensi accade qualcosa di simile, perché alcuni animali li possiedono tutti, altri ne possiedono alcuni, e altri infine solo uno, quello cioè che è il più necessario, il tatto» (413b); «senza la facoltà tattile non esiste alcun altro senso, mentre il tatto può esistere senza gli altri sensi, perché molti animali non possiedono né vista né udito né il senso dell’odorato» (415a); «l’uomo ha quest’ultimo senso, cioè il tatto, in forma assolutamente acuta; negli altri sensi, infatti, l’uomo è inferiore a gran parte degli altri animali, ma per il tatto è particolarmente più acuto rispetto agli altri animali; perciò è anche l’animale più saggio» (421a) [traduzioni di Giovanna R. Giardina].
Un ampio articolo dà ragione ad Aristotele mostrando come il tatto «non solo ci procura una varietà di informazioni vitali sull’ambiente, ma è anche alla base della rappresentazione che costruiamo del nostro corpo, dell’autocoscienza fisica»; «la pelle è il confine del corpo, e ogni contatto con un oggetto circostante non ci informa solo sull’ambiente esterno ma anche sul corpo stesso» (G. Sabato, 48 e 50).
In generale tutti i sensi sono tra di loro profondamente intrecciati e su tale unione si fonda la percezione dell’esistere e la possibilità di pensare. La “memoria involontaria” di Bergson e di Proust scaturisce da tale intrico di sensibilità e ricordo, come numerose ricerche neurobiologiche vanno confermando. Siamo tutti un po’ sinestetici, tutti intrecciamo in forme blande e inconsapevoli le differenti percezioni. Anche per questo le intelligenze artificiali rimangono così stupide, perché sono incapaci di vedere suoni o toccare odori: «È proprio ai sensi, prima che alla velocità di elaborazione, che dovranno guardare gli esperti di intelligenza artificiale per riuscire a costruire una macchina pensante» (M. Cattaneo, 3).

Un altro importante tema discusso in questo numero di Mente & cervello è il rapporto tra empatia e violenza. Rispondendo alle domande di P.E. Cicerone il ricercatore britannico S. Baron Cohen spiega che «ci sono tre disturbi psichiatrici che possiamo definire a empatia zero, un termine che uso per indicare un livello negativo per gli individui stessi e per la società. Il disturbo borderline di personalità, che porta chi ne soffre a frequenti sbalzi di umore e ricatti affettivi. Poi la personalità psicopatica o antisociale: chi ne soffre è una persona apparentemente attraente, che però usa il proprio fascino per ottenere dagli altri ciò che vuole. E una patologia meno nota, il disturbo narcisistico di personalità, che spinge gli individui a preoccuparsi solo di se stessi. Queste sono le classificazioni ufficiali, ma potremmo definire questi disturbi anche in relazione alla mancanza di empatia» (69). Dato che il grado di empatia di un soggetto è un fattore sia ambientale sia genetico, ritorna -inesorabile come il convitato di pietra presente in tutte le discussioni etiche- la questione del libero arbitrio: «Se qualcuno commette un crimine a causa dello sviluppo o del funzionamento del suo cervello, fino a che punto possiamo considerarlo responsabile?» si chiede Baron Cohen (71). La risposta, come più volte ho ripetuto anche su questo sito, consiste nel separare la colpa dal danno. Non è necessario che un soggetto sia responsabile di ciò che fa perché se ne limiti l’eventuale azione dannosa. Come anche Spinoza ha chiarito assai bene, la confusione tra questi due concetti -danno e colpa- è grave e ingiustificata.

Vedere la crudeltà, vedere le illusioni (come il libero arbitrio). Vedere è la capacità prima dell’umano. E anche questo i Greci sapevano. Theorein vuol dire insieme osservare e pensare. E «ora si sta scoprendo che alcuni dati visivi sono sfruttati per usi differenti dalla vista, magari per scandire interiormente il tempo e per controllare inconsciamente il movimento. In effetti, i meccanismi sensoriali potrebbero essere del tutto differenti, e avere inizio da minuscoli sensori luminosi della retina» (A. Bleicher, 28).
Luce e tempo sono forme diverse della stessa realtà, come tutti i saggi hanno sempre saputo.

«Questo stato della mente si chiama intelligenza»

Fra le tante ragioni che rendono straordinari i dialoghi di Platone, una delle più significative è che in ciascuno di essi il platonismo si rispecchia ogni volta per intero. Il Fedone risulta anch’esso paradigmatico. «Indagare con la ragione e discorrere con miti» è il suo metodo (61 E; trad. di G. Reale). Entrambi convergono a dimostrare che non tutto muore in quel composto che chiamiamo uomo ma c’è una parte che partecipa soltanto della vita. Il filosofo impara progressivamente a morire fino a non temere più, anzi a desiderare di ricongiungersi finalmente con il divino di cui è parte.
Il giorno stesso in cui viene eseguita la sua condanna, Socrate insegna che la filosofia è esercizio della morte, amicizia con essa. Egli sa ed è certo che l’essere si articola in due forme «una visibile e l’altra invisibile» (79 A) e a esse corrispondono due livelli del comprendere, quello dei sensi che confondono l’essere con il sussistere e quello della mente che invece

restando in sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale, immutabile, e, in quanto è ad esso congenere, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose alle quali si attacca. E questo stato della mente si chiama intelligenza. (79 D)

L’intelligenza rivolge la sua indagine a quei paradigmi di cui ogni cosa che è partecipa poiché senza di esse nemmeno sarebbe. Ecco fondata la metafisica, la ricerca del necessario nel contingente, del modello nella copia, dell’eterno nel tempo. Di questo sapere Platone è l’inventore, l’espositore più chiaro, il più formidabile ragionatore, con il quale la cultura europea ha dovuto fare i conti momento per momento, in un confronto che segna la storia del pensiero. Sulle ultime parole di Socrate -«Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo, non dimenticatevene!» (118 A)- Nietzsche formula un giudizio ironico e demistificante, scorgendo in esse il nascosto cuore nichilista di chi nell’esistere vede la suprema delle malattie. E tuttavia per Zarathustra come per Platone il sapere del corpo è la danzante armonia dell’essere: «la filosofia è la musica più grande» (61 A). Splendida, folgorante formula della vita.

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