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Dormire

Mente & cervello 112  – aprile 2014 

M&C_112_aprile_2014«Contrariamente all’opinione comune, non percepiamo il mondo con gli occhi, con le orecchie o con la pelle. Piuttosto vediamo, udiamo e proviamo sensazioni tattili essenzialmente con il cervello» (E. Kühn, p. 54). Anche perché se alla retina -ad esempio- arrivano circa dieci miliardi di bit di informazioni al secondo, i vari e complessi passaggi del sistema visivo ne riducono drasticamente il numero a circa 100 bit al secondo. Massa decisamente insufficiente a generare una visione sensata e cosciente del mondo «se non intervenisse una certa quantità di informazione dall’interno stesso del cervello e, per l’esattezza, proprio dal DMN» (D. Ovadia, p. 89), vale a dire dal Default Mode Network, l’incessante attività dell’encefalo che non si interrompe mai, neppure quando stiamo fermi a non pensar nulla, quando rimaniamo passivi rispetto a ogni stimolo e percezione, quando dormiamo.
Quest’ultima attività è assolutamente necessaria per non morire. Ma perché? A che cosa serve cadere nel sonno? Le risposte sono diverse. Quella classica ipotizza che il sonno sia uno strumento con il quale il cervello consolida le connessioni elaborate durante la veglia, in questo modo rafforzando memoria e apprendimento. Un’ipotesi più recente, al contrario, vede nel sonno una sorta di reset, di azzeramento delle connessioni superflue e quindi la predisposizione a crearne di nuove. In ogni caso, al risveglio siamo davvero persone un poco diverse rispetto a quelle che sono andate a dormire. Anche nell’ambito degli studi sul sonno negli altri animali -tutti i viventi consapevoli dormono, anche se in maniere differenti- si verificano degli autentici orrori metodologici e comportamentali. Una vera e propria vivisezione psicologica è costituita, ad esempio, da metodi che impediscono a dei topi di dormire, con il risultato che questi animali muoiono dopo pochi giorni. Se ne conclude che il dormire è indispensabile alla sopravvivenza. Sono necessari «esperimenti» così sadici e del tutto inutili per confermare tale banalità, più volte ormai provata? Se la risposta è «sì», propongo di sottoporre gli ideatori a un protocollo altrettanto illuminante: proviamo a non fare più dormire lo sperimentatore e vediamo se agli umani accade oppure no la stessa cosa che agli altri animali. In fondo se non verifichiamo non possiamo ancora saperlo, vero?
A proposito di morte e immortalità, sembra che la presenza nella specie umana di quest’ultima idea sia dovuta anche alle nostre capacità empatiche, di immedesimazione con gli altri. Secondo Natalie Emmons, infatti, «siamo così bravi a immaginare che cosa provino o desiderino gli altri, per capirne le intenzioni, che questa abilità invade altre parti del nostro pensiero, portandoci ad attribuire emozioni e bisogni a un ‘noi’ non ancora, o non più, esistente» (p. 22). La radice è la stessa delle fantasie, delle allucinazioni, dei sogni, vale a dire è la potenza semantica del corpomente che istante per istante costruisce «una narrativa che dia senso alle nostre esperienze» (V. Daelli, p. 22).
Meraviglioso, potente e fragile è questo nostro cervello. Progettato dall’evoluzione per una durata che non può ampliarsi al di là di alcuni limiti. Lo dimostra anche la tragedia dell’Alzheimer, sindrome che secondo vari esperti non è neppure una malattia ma è il destino naturale di un corpo che continua a esistere anche quando questa vita non è più finalizzata agli obiettivi della specie, anche quando -in altre parole- si invecchia. Leonardo Tondo ricorda, a questo proposito, che una specialista ha sostenuto «che la malattia di Alzheimer è una degenerazione del nostro cervello quasi fisiologica e che, se vivessimo fino a 120 anni, probabilmente tutti potremmo esserne affetti. Infatti l’incidenza aumenta del 2-3 per cento nelle persone di 60 anni fino a circa il 50 per cento nella fascia tra gli 80 e i 90 anni» (p. 8).
I bastioni del tempo sono incrollabili, ogni hybris viene punita.

 

Fica / Fibonacci

Nymphomaniac – Volume 1
di Lars von Trier
Danimarca, 2013
Con: Charlotte Gainsbourg (Joe), Stellan Skarsgård (Seligman), Stacy Martin (Joe da ragazza), Shia LaBeouf (Jerome), Christian Slater (il padre di Joe), Uma Thurman (la signora H), Sophie Kennedy Clark (B)
Trailer del film

Una donna dal volto tumefatto e ferito racconta la propria vita all’uomo che l’ha raccolta e soccorsa. Joe dice di se stessa che è persona spregevole, colma di egoismo e di peccati. Tra questi «l’aver chiesto di più al tramonto, i più spettacolari colori». Il padre le aveva insegnato, bambina, a godere della bellezza del faggio, «l’albero più bello e più invidiato del bosco». Il ricordo più intenso di Joe è la lunga agonia di questo giovane padre in ospedale, della quale il film nulla risparmia, mostrando i deliri e la cacca ma anche la dolcezza dell’essere stati e del commiato.
Tanti uomini. Sfidati, sfruttati, derisi, abbandonati, posseduti, distrutti. In una scena estrema uno di tali maschi, che nulla sono per lei, le si presenta con le valigie dopo aver lasciato la moglie e i tre bambini. La moglie lo segue, portando appresso la prole. E parla parla nello strazio dell’essere stata lasciata. Ma Joe dichiara, gelida, «è soltanto un grande malinteso, io non amo vostro padre».
Le sfide in treno con un’amica d’avventure: un sacchetto di cioccolattini sarà il premio per chi delle due si accoppierà con più maschi lungo il viaggiare. Soprattutto evitare l’amore, che è la suprema debolezza del desiderio. Ma un uomo, almeno uno, Joe sembra averlo amato. Jerôme, al quale ragazzina chiese di prendersi la sua verginità -e lui lo fece nel modo più sbrigativo e brutale-, che incontra dopo alcuni anni come datore di lavoro, del quale sembra innamorarsi ma che all’improvviso si sposa e scompare. «L’amore non è cieco, è peggio. L’amore distorce la realtà». Verissimo, naturalmente.
Eventi, piaceri, morte, solitudine. Tutto immerso nella piena, feroce e trionfante naturalità della nostra specie. Insetti, galassie, felini. Natura che accompagna altra natura e la sostanzia di assurdità e di senso. Sullo sfondo e nella trama concettuale il pensiero di Spinoza e quello di Sade. Due modi diversi di dire che «per bonum id intelligam quod certo scimus nobis esse utile» (Ethica IV, Definizione 1), che «humanas actiones atque appetitus considerabo perinde ac si quæstio de lineis, planis aut de corporibus esset» (Ethica III, Prefazione)1, Anche de Sade invita a «ne soupçonner de mal à rien, de voir avec la plus tranquille indifférence toutes les actions humaines, de les considérer toutes comme des résultats nécessaires d’une puissance, telle qu’elle soit, qui tantôt bonne et tantôt perverse, mais toujours impérieuse»2.
Un gelo geometrico percorre Nymphomaniac, un ritmo matematico che vibra nelle musiche di Bach e nella sin dall’inizio ripetuta serie di Fibonacci, quella per la quale il numero successivo è la somma dei due precedenti. 1+1=2, 1+2=3, 2+3=5, 3+5=8, 5+8=13, 8+13=21, 13+21=34, 21+34=55 e così via . Lo stesso rapporto tende alla sezione aurea, fondamento del Partenone, e sta inscritto nell’ordine delle lettere che compongono il nome di Bach. 2-1-3-8, numeri della serie di Fibonacci la cui somma è 14, cifra che ricorre spesso nell’opera del compositore. Come se la bellezza estrema, il supremo ordine e l’armonia nascessero dalla serie disordinata delle passioni di cui siamo fatti.
Un film cupo e magnifico.

 

Note

1.«Bene è ciò che sappiamo con certezza che ci è utile»; «Le azioni e gli appetiti devono essere osservati come se fosse questione di linee, superfici o corpi».

2. «Non supporre nulla di male nelle cose, considerare con la più tranquilla indifferenza tutte le azioni umane, ritenerle tutte come prodotti necessari di una potenza, qualunque essa sia, a volte buona a volte perversa ma sempre imperiosa» (Eugénie de Franval). 

 

Sesso / Denaro / Morte

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Celestina laggiù vicino alle concerie in riva al fiume
di Michel Garneau, da Fernando de Rojas
Traduzione di Davide Verga
Con: Giovanni Crippa, Paolo Pierobon, Lucrezia Guidone, Fausto Russo Alesi, Maria Paiato, Licia Lanera, Fabrizio Falco, Lucia Marinsalta, Bruna Rossi, Lucia Lavia, Gabriele Falsetta, Riccardo Bini, Pierluigi Corallo, Angelo De Maco
Scene: Marco Rossi
Costumi: Gianluca Sbicca
Regia di Luca Ronconi
Produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 1 marzo 2014

celestinaTra il 1484 e il 1492 Fernando de Rojas compose il Libro de Calisto y Melibea y de la puta vieja Celestina, un lungo romanzo che il canadese Michel Garneau ha sfrondato e ha tradotto in francese dandogli come titolo Celestina laggiù vicino alle concerie in riva al fiume. Davide Verga ha tradotto in italiano la tragedia/commedia di Garneau. Luca Ronconi l’ha messa in scena.
Testi dentro altri testi, linguaggi dentro altri linguaggi. Da questo libro nacquero -ancor prima del Quijote– il romanzo e il teatro moderni. I tanti riferimenti alla classicità -Plauto in particolare-; alla morale del Medioevo -il peccato e la sua punizione-; al disincanto dal quale attinse anche Machiavelli; all’amore e al sesso; tutto questo si mescola, si altera, si trasforma in un trionfo del linguaggio ora raffinato e retorico ora immediato e plebeo. Allora come ora il denaro si mescola all’amore, dando prezzo a ogni desiderio. «I poveri non sono quelli che hanno poco ma quelli che desiderano molto», afferma uno dei personaggi. E un altro, riferendosi all’amore, esclama: «Che fatica, che seccatura, che piaga!». Da parte sua la puta vieja, la vecchia prostituta e mezzana Celestina pronta a servire gli ardori di ogni maschio o femmina e del diavolo stesso se necessario, dichiara che «può tutto il denaro, non c’è luogo così elevato che un asino carico d’oro non riesca a salirvi».
Ora Celestina è chiamata da Sempronio a guarire il suo padrone Calisto da un mortale fuoco che lo spinge verso Melibea, intravista per caso nuda in un giardino e da allora inchiodata nella mente e nei genitali di colui. La ragazza lo respinge inorridita, non ne vuol sapere. Ma le arti magiche e linguistiche di Celestina la gettano tra le braccia di Calisto. Dopo averla avuta, il giovane chiede a se stesso sconsolato «Sono felice?» e risponde «No». Torna certo più volte dalla sua dea, angelo e pollastra (così la chiama nell’ordine cronologico del dire) e addirittura muore per lei ma la felicità che cercava e della quale era sicuro, quella non l’ha avuta no.
Nella ricca e geometrica messa in scena di Ronconi gli innumerevoli incontri dei quali la commedia/tragedia è fatta -e che spingevano Gadda a chiedersi come sarebbe stato mai possibile «ridurre nella unità scenica le concomitanze multiple dell’azione, e le dislocazioni divergenti? la torre, le scale, il padre in giardino, lei in camera, il volo dalla finestra?» (Programma di sala, p. 18)-, gli ambienti così diversi in cui la vicenda si svolge, le strade, le scale, le siepi, i muri e tutto il resto, sono restituiti con porte che si innalzano d’improvviso sulla scena, botole da cui emergono letti e personaggi, distanze dalle quali precipitano i morti.
Le passioni, dunque, degli umani. Passioni per i soldi, passioni per la fessura, passioni per il membro verticale. Questo infinito sciabordare e la risacca che ne segue, la quale tutto con sé trascina sino alla successiva ondata di maroso, è ulteriore ragione di compatimento per l’umano. Mentre altri animali si piegano alla necessità della copula e della riproduzione della specie -e lì sembra finire- la nostra ha bisogno di condire con l’olio del sentimento la meccanica dell’accoppiamento per farla meglio scorrere. E scorre scorre infatti la morte dentro il nucleo stesso della vita appassionata.

 

«Quello della pietra e della fionda»

Gervasio Sánchez. Antología
Centro Português de Fotografia– Porto
Sino al 2 marzo 2014

Gervasio Sánchez5 sezioni, 139 fotografie, 72 ritratti. Numeri dentro i quali abita l’orrore. Le immagini di questo fotografo spagnolo non solo documentano la guerra contemporanea ma la fanno sentire come se in essa si fosse immersi. Robert Capa diceva ai suoi emuli: «Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino». Gervasio Sánchez si trova sempre vicinissimo alla ferocia indicibile dei massacri africani, al fanatismo delle dittature nell’America Latina, alle città balcaniche distrutte con dentro i loro abitanti, ai corpi mutilati dalle mine antiuomo, allo strazio dei familiari dei desaparecidos. Sánchez sembra presente proprio nell’istante in cui la violenza si compie, nella pienezza della sua follia e del suo significato. L’inevitabile voyeurismo della macchina fotografica si stempera nel tentativo e nella volontà di cogliere la poesia -sì, proprio la poesia– dei luoghi e dei gesti che generano morte e della morte testimoniano il divenire. Una sola immagine per tutte: un uomo fuma seduto su ciò che resta della vetrina di un negozio a Sarajevo mentre accanto a lui è steso il cadavere di un giovane colpito da un cecchino. Non si tratta di nemici né di parenti né di poliziotti o di soldati. Si tratta soltanto di un uomo vivo e di uno morto poiché il caso ha così deciso. E in altre immagini emerge la forza, nonostante tutto, dei bambini che giocano mentre ovunque è distruzione. Questa mostra è una danza macabra aperta alla rinascita, dove i simboli coincidono con la materia e dove i ritratti dei mutilati con i loro sorrisi colmi di pazienza sembrano dire: «Sono ancora qui, respiro ancora».

 

Sein zum Tode

Still Life
di Uberto Pasolini
Con: Eddie Marsan (John May), Joanne Froggatt (Kelly)
Gran Bretagna-Italia, 2013
Trailer del film

 

Still_LifeIntrisi di profonda solitudine, la vita e il lavoro di John May sono dedicati a rintracciare i congiunti di persone che muoiono senza familiari. Quest’uomo scrupoloso e sistematico cerca fin che può gli eventuali parenti o amici e poi scrive lui stesso i testi con cui il defunto viene ricordato durante il funerale, al quale partecipa di solito soltanto lui. Un giorno l’amministrazione comunale di Londra gli comunica il licenziamento -dovuto al «taglio dei rami secchi»- ma gli permette di portare a termine l’ultimo caso, riguardante un soggetto violento e dalla vita assai disordinata. May trova la figlia di quest’uomo e forse un amore per se stesso.
Il cinema è anche ridondanza; raramente accade dunque di vedere un film nel quale nessuna scena è di troppo, segnato da una sobrietà elegantissima e da un profondo rispetto per la forma. Il protagonista è un personaggio struggente, colmo di una bontà riservata e mai remunerata. In molte scene compaiono degli orologi, a ribadire la nostra finitudine, già indicata dal titolo del film. Il finale arriva improvviso, drammatico e simbolico. Forse avrei preferito che sino alla fine l’opera mantenesse la perfetta temperanza della narrazione. Non è infatti necessaria alcuna accelerazione nella trama per comprendere che in ogni caso «die Angst erhebt sich aus dem In-der-Welt-sein als geworfenem Sein zum Tode» («L’angoscia si leva dall’essere-nel-mondo in quanto gettato nell’essere alla morte», Heidegger, Sein und Zeit, Vittorio Klostermann editore, 1977, § 68 b, p. 455). Still life è comunque davvero «a rare thing».

 

Trascolora la realtà

Mood Indigo. La schiuma dei giorni
(L’écume des jours)
di Michel Gondry 
Francia-Belgio, 2013
Con: Romain Duris (Colin), Audrey Tatou (Chloë), Gad Elmaleh (Chick), Omar Sy (Nicolas)
Trailer del film

L'écume des joursL’indescrivibile fantasia patafisica del romanzo di Boris Vian L’Écume des Jours (1947) diventa nel cinema visionario di Michel Gondry un mondo di colori sgargianti, di oggetti viventi, di cibi danzanti, di animali sorridenti, di fiori abbacinanti. L’amore infantile, musicale e liquido tra Colin e Chloë sembra disegnare una delle mille favole che vorrebbero fare della vita un paradiso. Ma proprio durante il viaggio di nozze si insinua nei polmoni della donna una mortale ninfea, che può essere curata soltanto circondando Chloë di freschissimi fiori. Colin, generoso sino alla prodigalità, spende tutto per lei e per gli amici. In particolare per Chick, che però butta tutto il danaro nei libri, nelle conferenze, nei video del filosofo Jean-Sol Partre, sino a farsi letteralmente dei suoi volumi e della sua voce, come accade con qualunque altro stupefacente. I soldi cominciano dunque a mancare, il sorriso a spegnersi, gli oggetti a morire, i cibi a puzzare, gli animali a soffrire, i petali a sfiorire. Sino alla terra nera e alle acque grigie che tutto accolgono nel proprio gelido ventre.
Un melodramma che la scrittura cinematografica di Gondry trasforma nel progressivo scolorire e rimpicciolire della realtà, sino a che nulla rimane di un mondo che vive sempre nella percezione e nella Stimmung degli umani. La tecnologia degli anni Quaranta non viene attualizzata ma resa quanto più simile alla nostra, creando un effetto di distorsione disturbante. La musica di Duke Ellington è danzata da corpi che si estendono al passaggio delle note; il tempo-acquario che ospita i due amanti ricorda lo struggente elemento de L’Atalante di Jean Vigo; la ferocia dei rapporti socio-economici percorre come un basso continuo tutto il film e giunge al suo culmine nel licenziamento di Chick, causato non dall’aver la sua distrazione prodotto la morte di alcuni operai -maciullati dalla macchina- ma da una diminuzione della produzione dello 0,2%. Alla fine, pur di guadagnare abbastanza per comprare i fiori, Colin accetta di lavorare in una fabbrica dove gli umani trasmettono calore alle armi, rendendole così infallibili.
Pura fantasia, puro cinema, puro dolore. Realtà.

 

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