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Albertine disparue

La fuggitiva
di Marcel Proust
(Albertine disparue, 1921-22)
Trad. di Franco Fortini
Einaudi, 1978 (1954)
Pagine XV – 321

Proust_La FuggitivaUno dei momenti assoluti della Recherche è la fuga inaudita e poi la morte di Albertine. Né prima né dopo ho letto qualcosa di così potente e di così vero sulla realtà e sulla percezione dell’abbandono e del lutto. Lentamente e inesorabilmente gli aspetti più caduchi -caste sociali, illusioni, speranze, ambizioni- sembrano dissolversi. Rimangono le potenze che guidano l’opera e l’esistere: la Verità, impossibile da cogliersi; il Tempo, intessuto di memoria e di oblio, «come c’è una geometria nello spazio, c’è una psicologia nel tempo, dove i calcoli di una psicologia piana non sarebbero più esatti, perché non si terrebbe conto del Tempo e di una delle forme che assume, l’oblio» (p. 149)1; la Solitudine, «i legami fra una persona e noi esistono solamente nel pensiero. La memoria, nell’affievolirsi, li allenta; e, nonostante l’illusione di cui vorremmo essere le vittime, e con la quale, per amore, per amicizia, per cortesia, per rispetto umano, per dovere, inganniamo gli altri, noi viviamo soli. L’uomo è l’essere che non può uscire da sé, che non conosce gli altri se non in sé medesimo, e che, se dice il contrario, mentisce» (pp. 36-37) 2.
Questo è la nostra vita, questo è la vita degli umani. Il Narratore ne ha appreso la forza e i segreti attraverso il tempo e la cristallizzazione da esso operata intorno alla sua amata: «Albertine, insomma, come una pietra intorno alla quale sia nevicato, era solo il centro generatore d’una costruzione immensa che passava attraverso il piano del mio cuore» (p. 23)3.
Prima di ricapitolare il ritorno della realtà e il ritorno dell’io, prima di svelare l’inquietante enigma della sua narrazione, Marcel ha lasciato dietro sé debolezze e sogni, ha intagliato -come un sole che al crepuscolo definisce meglio i contorni- disegni vasti, ironici e dolenti; ha scolpito mediante una scrittura colma di strazio e di gelo l’intera bellezza e potenza delle due forze che in un contrappunto costante guidano le vicende degli esseri che pensano: il dolore e l’oblio.
Dalla Recherche si impara a sconfiggere la sofferenza, a trionfarne.

Note

1. «Comme il y a une géométrie dans l’espace, il y a une psychologie dans le temps, où les calculs d’une psychologie plane ne seraient plus exacts parce qu’on n’y tiendrait pas compte du Temps et d’une des formes qu’il revêt, l’oubli» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 2023)

2. «Les liens entre un être et nous n’existent que dans notre pensée. La mémoire en s’affaiblissant les relâche, et, malgré l’illusion dont nous voudrions être dupes et dont, par amour, par amitié, par politesse, par respect humain, par devoir, nous depons les autres, nous existons seuls. L’homme est l’être qui ne peut sortir de soi, qui ne connaît les autres qu’en soi, et, en disant le contraire, ment» (p. 1943)

3. «Bref Albertine n’était, comme une pierre autour de la quelle il a neigé, que le centre générateur d’une immense construction qui passait par le plan de mon coeur» (p. 1933)

(Le mie riflessioni sugli altri sei volumi della Recherche si possono leggere qui: La strada di SwannAll’ombra delle fanciulle in fioreI GuermantesSodoma e GomorraLa prigionieraIl Tempo ritrovato )

Il sorriso e la morte

Teatro Franco Parenti – Milano
Sogno di una notte di mezza sbornia
di Eduardo De Filippo
liberamente tratto da  La fortuna si diverte di Athos Setti
Con: Luca De Filippo (Pasquale Grifone), Carolina Rosi (Filomena), Nicola Di Pinto, Massimo De Matteo, Giovanni Allocca, Carmen Annibale, Gianni Cannavacciuolo, Paola Fulciniti, Viola Forestiero
Regia di Armando Pugliese
Compagnia di Teatro di Luca De Filippo
Sino al 6 gennaio 2015

Luca-De-Filippo-e-Carolina-Rosi-foto-Federico-RivaPasquale Grifone vive modestamente ma vive. In una delle tante notti che lo vedono ubriaco, Dante Alighieri gli regala quattro numeri che lo renderanno ricco. Sono numeri, però, che indicano anche la data della sua morte, che avverrà tra pochi mesi. I numeri escono e la famiglia di Pasquale diventa milionaria. La felicità degli altri non compensa l’angoscia del protagonista, che vive come fosse un condannato a morte. Moglie e figli cercano di tranquillizzarlo ma sono anche ben pronti alla dipartita e non propriamente dispiaciuti. Il giorno stabilito si vestono a lutto e cominciano il loro pianto. Alle 13 in punto Pasquale si sente morire ma non muore. Un medico certifica la sua piena salute. Forse però non sono ancora le 13…
Una farsa, chiaramente, con tutti i colori, le esagerazioni, i movimenti, le battute intessute di grottesco. Ma una farsa che contiene i grandi temi del teatro di Eduardo, vale a dire la solitudine, il sogno, il morire. Il contratto, La grande magia, Questi fantasmi, Le voci di dentro affrontano la morte, la volontà di vivere, la vita onirica e l’esser soli con tutta la radicalità di un umorismo insieme teoretico e plebeo. Qui il tono è lievissimo, i tempi comici sono scanditi e il risultato è di grande divertimento. Ma anche da questa commedia traspare la tragicità della condizione umana. Soltanto un grande drammaturgo può coniugare così bene il sorriso e la morte.

Teatro / Mente

Synecdoche, New York
di Charlie Kaufman
USA, 2008 (distribuito in Italia nel 2014)
Con Philip Seymour Hoffman (Caden Cotard), Samantha Morton (Hazel), Catherine Keener (Adele Lack), Michelle Williams (Claire Keen), Tom Noonan (Sammy Barnathan), Emily Watson (Tammy), Hope Davis (Madeleine Gravis), Dianne Wiest (Ellen Bascomb/Millicent Weems)
Trailer del film

SynecdocheLa sineddoche -insieme alla metonimia- è una delle figure retoriche più importanti, che utilizziamo di continuo nel nostro parlare. Consiste infatti nella sostituzione di un termine con un altro che abbia in comune con il primo elementi quali il genere, la quantità, l’estensione, come quando ad esempio si dice ‘molte braccia’ per indicare ‘molti lavoratori’, ‘due ruote’ per indicare una motocicletta oppure ‘l’italiano è estroverso’ per dire che a esserlo sono gli italiani. La parte per il tutto. Un singolo essere umano per l’intera specie.
Ciascuno, in realtà, pensa a se stesso come all’esempio e all’incarnazione universale dell’umanità. Così, quando il regista Caden Cotard comincia a percepire nel proprio corpomente i sintomi della decadenza, della malattia, della depressione e della morte, è l’intero mondo che muta. Un premio ricevuto per la sua attività artistica gli consente di progettare, provare, realizzare l’opera totale: una messa in scena della propria vita mentre essa accade. Centinaia di attori, spazi enormi, scenografie che si moltiplicano perché dovrebbero rappresentare un intero mondo. Le identità/differenze tra gli attori, i personaggi, gli attori che interpretano gli attori del suo spettacolo mentre lo recitano, si confondono sino ad annullarsi. Nel senso che lo spettatore del film non riesce più a comprendere davvero chi sia chi, se si stia recitando il film o se si stia recitando dentro il film. I piani spaziali e temporali si confondono anch’essi, si dilatano, toccano il trascorrere di anni in pochi minuti e poche scene, mentre una sola giornata si allunga.
Sino a un certo momento tutto questo è tenuto sotto controllo. Poi, da quando la moglie di Cotard si trasferisce a Berlino con la propria amante e la bambina -gettando nella disperazione il marito-, l’intreccio di esistenza, teatro, eventi, incontri, repliche degli incontri, attori, sosia degli attori, diventa uno straordinario e lucido delirio identitario e spaziotemporale, la cui spiegazione è però incisa in due nomi: Capgras e Cotard.

Il nome di Capgras compare sul citofono dell’appartamento affittato dalla moglie del regista. Mentre gli altri nomi sono quasi illeggibili, questo viene messo in evidenza con dell’adesivo. Un cognome non certo casuale. I soggetti colpiti dalla sindrome di Capgras sono infatti convinti che familiari e amici siano in realtà dei sosia, degli attori che hanno preso il posto dei loro cari allo scopo di ingannare, far del male, distruggere la persona.
Il regista si chiama Caden Cotard. La sindrome di Cotard è ancora più grave, forse la più grave patologia psichiatrica che sia concepibile. Nella sua forma estrema il soggetto è convinto di essere morto. Nessuna persona, nessun ragionamento, nessuna prova possono smuoverlo da tale convinzione. La spiegazione più plausibile di questa tragedia della psiche sta nel fatto che a causa di lesioni organiche o di processi degenerativi i centri sensoriali non interagiscono più con le aree emotive dell’encefalo. Il cervello però cerca disperatamente di dare un significato al deserto emozionale che ne consegue. La spiegazione più logica è che chi non prova nessuna emozione deve in realtà essere già morto.
In una delle battute il regista afferma esplicitamente che «non è uno spettacolo solo sulla morte». Certo. Perché è a partire dal nostro essere finiti che la vita si declina secondo tutte  le sue strutture. Il morire non è una parte dell’esistere ma costituisce il suo tutto, la sua sineddoche.
«Non è che l’esserci riempia con le fasi delle sue realtà effettuali istantanee una pista o un segmento sottomano “della vita”, ma estende se stesso, sì che il suo esser proprio è fin dapprincipio costituito come estensione. Nell’essere dell’esserci sta già il “tra” riferito a nascita e morte. […] L’esserci fattizio esiste per nascita, e per nascita muore anche proprio nel senso dell’essere-alla-morte. Entrambi i “capi” e il loro “trasono, finché l’esserci fattiziamente esiste, ed essi sono in quel modo che unicamente è possibile sulla base dell’essere dell’esserci come cura. Nascita e morte si “con-nettono”, nel modo che è proprio dell’esserci, nell’unità di dejezione e sfuggente o precorrente essere-alla-morte. In quanto cura, l’esserci è il “tra”» (Martin Heidegger, Essere e tempo, trad. di A. Marini, Mondadori 2006, § 72, p. 1051).
Capolavori. Sia il libro di Heidegger sia il film di Kaufman.

Gadda, i luoghi, la Gnosi

Verso la Certosa
di Carlo Emilio Gadda
(1961)
A cura di Liliana Orlando
Adelphi, 2013
Pagine 249

Libro nato da travagliato parto, come spesso in Gadda, ma che di tale fatica non risente. Nella varietà dei suoi temi parla infatti una scrittura classica, direi radicalmente classica nelle sue variazioni espressionistiche, violente, e però sempre intrise di un’armonia inimitabile. Milano e la Lombardia rappresentano l’orizzonte geografico e antropologico privilegiato: la Fiera campionaria; i luoghi visitati e vissuti da Petrarca; la bizzarria della Borsa; il mercatino di Senigallia; il risotto alla milanese descritto in uno stupefacente capitolo/ricetta dal quale si sprigiona il sapore stesso della pietanza. E poi il titolo. Verso la Certosa per i milanesi vuol dire infatti anche verso il cimitero, verso il luogo dove cesseranno insieme lo «scarso cervello del mondo» (p. 11) e «la disperazione» che «mi chiamava, chiamava, dal fondo dei suoi deserti senza carità» (36). A Milano c’è questo e c’è tutto il resto, per chi sappia vederlo e viverlo, poiché «tutto esiste a Milano, Milano è la scansia d’ogni possibilità […] dentro la cerchia dell’onniprassi milanese» (48).
Gadda intrattiene uno stretto rapporto con Manzoni, il cui nome e le cui parole tornano spesso, condite di costretta ammirazione e d’ironia liberatrice, come nel «magno seggiolone» scoperto tra i mobilieri brianzoli e sul cui barocco d’imitazione «par di vedere assiso, col suo collare di pizzo, il Conte Zio» (94), o nei pensieri di fronte al Resegone: «Il totem orografico della manzoneria lombarda mi pareva levantarsi, castigo ingente, da un fallimentare ammucchio di bozzoli: emerso dal vaporare delle filande, di tutte le bacinelle di Brianza: o dell’Adda o del Brembo» (34).
Parla spesso in queste pagine l’ingegnere, anche con dettagli tecnici come quelli descritti per il Duomo di Como o la critica esatta e pungente all’utilizzo esclusivo del cemento armato nelle case, nei falansteri vittime della scarsa inerzia del calcestruzzo, del rimbombare di ogni pur minimo suono, vittime dello «svantaggio termico: le stanze si raffreddano e si riscaldano al variare della temperatura esterna con le ore del giorno: il sorgere del sole è percepito attraverso la scemenza dei forati dall’inquilino a levante, la bestiale autorità del sole estivo delle sedici diciotto è patita attraverso la inefficienza dei forati dalla indifesa agonia e dal sudore turco dell’inquilino a ponente» (122).
Al di là della Lombardia, Gadda vede ovunque moltiplicarsi ciò che Ortega Y Gasset definiva il pieno, lo spremersi e infoltire degli umani nello spazio, come nella Versilia che fu dei poeti e che adesso è invasa da scalmananti e turistiche folle: «Infiniti giornali, infinita gente, infinite tasse di soggiorno, infiniti pullman: infinite biciclette, ora: e l’oblioso ozio, nel giorno, d’una gente che sguazza, si cura i piedi, cuoce, cuoce sotto il sole» (115). Masse che ben servono da carburante e da combustibile a quei singoli che proclamano di parlare e agire a lor vantaggio e che invece è naturalmente al proprio e personale bene che sanno puntare lestamente. Nell’arco storico che da Mussolini va a Renzi, e passando per i troppi intermediari che li uniscono, sembra davvero che in Italia comandi sempre l’incessante e «truculento guappismo dei novatori coûte que coûte», lo «sconsiderato padreternismo dei tira linee quattordicenni: sì, età mentale quattordici» (121). Coûte que coûte è il «costi quel che costi» proclamato a ogni piè sospinto da Renzi, dal suo -per l’appunto- «truculento guappismo» di «novatore».
Osservando il mondo, vivendolo, andando verso la Certosa, lo scrittore Carlo Emilio Gadda conclude con una giustificata bestemmia nei confronti del funesto demiurgo che ha dato essere alle cose che son vive. Meglio non l’avesse fatto, «che il diritto è una bella balla: e che Giove Pluvio è un cialtrone, un istrione, e un porcone» (127).

 

Petronio / Fellini

È un libro, il Satyricon, che più di altri trasmette il senso di un’intera civiltà, il significato del mondo pagano. Una civiltà e un mondo caratterizzati in primo luogo dalla consapevolezza della nullità dell’umano e del dominio della morte. Senza però per questo condannare il vivere in nome di principî assoluti, o di principî qualsiasi. Nelle avventure veloci e diverse dei suoi ingenui, furbi, concreti, vivi personaggi traspare un esistere lieto di sovrabbondanza e colmo di desiderio. Encolpio narra una trama sempre in trasformazione, tra amori etero e omosessuali, realizzati e falliti; truffe ardite e portate a buon fine; vecchiaie sagge, disincantate e ludiche (come quella di Eumolpo); banchetti straripanti che si spengono anche nella malinconia, come la famosa cena di Trimalcione.
Il mondo che qui si agita è un mondo inferiore/infero, fatto di strati sociali subordinati, ricchezze da parvenu, presunzione di gente fallita. Encolpio e -per un tratto- il suo amico Ascilto si gettano in questo vivere con tutta la voglia di gente assetata. Le vicende grossolane che vi accadono sono tuttavia narrate con un raffinatissimo senso del gioco e con l’ironia che soltanto la filosofia sa dare. Se per i Greci l’essere umano è il più terribile, il più meschino e pertinace tra gli enti che sulla Terra respirano, per Petronio «utres infilati ambulamus! Minoris quam muscae sumus. Illae tamen aliquam virtutem habent, nos non pluris sumus quam bullae» [gonfi otri che camminano! Siamo meno delle mosche. Loro però qualche forza ce l’hanno, noi non siamo più che bolle] (42, 4). La nostra inconsistenza, la debolezza che ci costituisce crea i mondi ultraterreni, gli dèi, le punizioni: «Primus in orbe deos fecit timor» [Per prima cosa gli dèi la paura crearono] (Anth. Lat., I, 1, 466). Basta dunque riflettere un poco per valutare l’umano per ciò che è, per comprendere la tragedia del vivere, senza per questo maledire il fatto di esserci. Sfidando le paure e la morte, uno dei frammenti più emblematici attribuiti a Petronio recita: «I nunc et vitae fugientis tempora vende / divitibus cenis! Me si manet exitus idem / hic, precor, inveniat, consumptaque tempora poscat» [Vai dunque e vendi le sfuggenti ore in cambio di qualche cena sontuosa! Se già intravedo il morire, prego che qui mi trovi e mi chieda del mio esser vissuto]. Rapido come il vento, Petronio merita il riconoscimento che Nietzsche gli attribuì con queste parole:

Che aria viziata e malata in mezzo a tutto l’esagitato parlare di «redenzione», amore, «beatitudine», fede, verità, «vita eterna»! Si prenda per contro in mano un libro veramente pagano, per esempio Petronio, in cui in fondo non si fa, non si dice, non si vuole e non si giudica niente che non sia, secondo un criterio cristianamente ipocrita, peccato, anzi peccato mortale. E tuttavia che senso di benessere nell’aria più pura, nella superiore spiritualità dell’andatura più veloce, nella forza liberata e traboccante, sicura del proprio avvenire! In tutto il Nuovo Testamento non si trova una sola buffonerie: ma con ciò un libro è confutato…Paragonato a quel libro, il Nuovo Testamento rimane un sintomo di una cultura decadente e della corruzione -e come tale ha operato, come fermento della putrefazione.
(Frammenti postumi  1887-1888, trad. di S. Giametta, Adelphi 1979, 9[143], pp. 70-71)

Fellini Satyricon (Italia, 1969) -che consiglio di vedere- è tutto questo osservato con gli occhi raffinati, visionari e decadenti di un artista che vive nel pieno della cristianità ma sente assai forte il richiamo della Roma pagana. È un film meraviglioso e difficile, che non sta fermo mai, nel quale la levitās di Petronio si trasforma in una radicale arcaicità formale e psichica che tocca la ferocia; nel quale l’eccesso vuole essere benedetto ma più come atto di volontà che come spontaneo fluire del piacere. Un’arcaicità simile a quella della Medea di Pasolini. Il valore del Satyricon, certamente il più colto tra i film di Fellini, sta dunque anche e forse specialmente nel farci intravedere ciò che abbiamo perduto dei pagani: la loro profonda innocenza.
Ancora una volta Nietzsche aiuta a capire: «Quale ristoro, dopo il Nuovo Testamento, prendere in mano Petronio! Come ci si sente subito rimessi in piedi! Come si sente la vicinanza di una spiritualità sana, tracotante, sicura di sé e malvagia! E alla fine ci si trova di fronte alla questione: ‘non ha forse il sudiciume antico ancora più valore di tutta questa piccola arrogante saggezza e bigotteria dei cristiani?’» (Frammenti postumi  1887-1888, 10[93], p. 155)

Casanova come artista

Il Casanova di Fellini
di Federico Fellini
Italia, 1976
Con Donald Sutherland

Casanova_FelliniRivolgendosi a Giacomo Casanova una donna chiede: «Non riesci a parlare d’amore senza immagini funebri, senza parlare di morte?». È anche per esorcizzare la morte che Casanova/Fellini (questo il trasparente significato del titolo) dispiega la gloria dei colori, l’invenzione degli spazi, il frastuono del movimento, la festa.
La festa percorre per intero questo film: dall’incipit veneziano del Carnevale ai teatri  e alle corti d’Europa dove Casanova viene ospitato, lavora, seduce.  Ovunque la musica (magnifico Nino Rota) e particolarmente nella scena dell’organo suonato con furore da vari esecutori alla corte di Wittenberg. A Dresda alla fine della serata calano i lampadari, che vengono spenti uno a uno. Ed è come se il silenzio parlasse.
Dopo l’incontro con la madre comincia la decadenza del colto avventuriero, inizia il ritorno alla materia, al ventre della terra. L’artista appassionato e candido recita ancora i versi della follia di Orlando ma una donnetta comincia a ridere e lo offende di fronte all’intera corte.
È il destino dell’artista baudeleriano, dell’Albatros. Meglio allora, molto meglio, il coito con il bell’automa femminile. E quindi con se stesso. Come sempre. Mentre un uccello meccanico con le sue ali si alza e si abbassa -accompagnando le gesta amorose di Giacomo- la festa, la malinconia e la donna sorgono e tramontano nel sogno intimo e pubblico in cui consiste questo capolavoro.

 

Viva

Regina José Galindo
ESTOY VIVA

PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola
Sino all’8 giugno 2014

Regina Joseé GalindoDove sta il Guatemala? Che cosa è accaduto in Guatemala? È accaduto che per decenni l’esercito di questo Paese è stato addestrato, sostenuto e finanziato dagli Stati Uniti d’America per farne un esempio/esperimento di repressione. La popolazione guatemalteca, soprattutto quella di origine maya, è stata ferocemente annichilita, un genocidio tra i più brutali perpetrati dalle forze militari latino-statunitensi. Nel profluvio di giornate della memoria rivolte a massacri più o meno lontani, neppure un pomeriggio viene dedicato all’orrore accaduto in Guatemala.
Regina José Galindo proviene da questo Paese e da questa storia. E ha deciso di fare del proprio corpo il luogo della memoria. Il risultato è terribile. Le cinque sezioni nelle quali è divisa la mostra -Politica  Donna Violenza Organico Morte- documentano come l’artista si faccia incatenare, affogare, colpire, seppellire, costringere in camicie di forza, insanguinare.
Immagini di eserciti eleganti -in parata e ben rigidi nella loro paranoia- si alternano a lei che lascia tracce di sangue sulle strade, negli spazi che hanno visto la ferocia. Il suo diventa un corpo sacrificale e politico, intriso di un masochismo dell’abbandono che mi ha ricordato Le onde del destino (1996) di Lars von Trier. Una violenza così estrema e totale va oltre la catarsi e porta a un coinvolgimento che respinge. Alla fine il corpo di Regina scompare, dissolto come elemento organico, natura. Diventa pietra. E la morte si fa evento pubblico, storico, psichico, soggettivo, globale. In una delle numerose installazioni funeree compaiono una serie di lapidi i cui nomi sono due X e la data è Guatemala 2007.

regina(Dedico questa nota, che non può in ogni caso restituire la tragedia della quale la mostra è intrisa, ai cittadini della «più grande potenza democratica del mondo»).

 

 

 

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