Skip to content


Tre questioni

Mente & cervello 132 – dicembre 2015

M&c_132Tre affermazioni contenute in questo numero di Mente & cervello ribadiscono la natura profondamente filosofica della riflessione sul corpomente.
La prima è che tale corpomente costituisca -ancora una volta- un dispositivo semantico volto a trovare e donare significato e senso al mondo. Persino lo stato iniziale delle allucinazioni costituisce un’espressione di tale necessità, essendo anche le allucinazioni una modalità di interpretazione di qualcosa che non si comprende: «Il nostro cervello tende infatti a interpretare il mondo attraverso conoscenze pregresse permettendoci di costruire in tempi rapidi una visione coerente dell’ambiente fisico e sociale col quale interagiamo. In particolare questo accade nella visione, un processo in cui il cervello ‘inventa’ quello che vediamo riempiendo i vuoti e ignorando ciò che non è idoneo all’immagine che ci aspettiamo» (G.A. Fornaro, p. 22).
La seconda affermazione corrobora la tesi kantiana della autonomia dell’ambito morale dalle religioni. Sembra infatti che «bambini i quali crescono in famiglie molto religiose tendono a essere meno altruisti dei loro coetanei», sulla base della ‘licenza morale’ che molte religioni danno a se stesse, «per cui se si fa qualcosa di ‘buono’, in questo caso si pratica una religione, ci si preoccupa meno delle conseguenze di un altro comportamento che non è morale». Ho conosciuto membri del movimento ecclesiale Comunione e Liberazione, i quali sostengono apertamente che ‘il fatto religioso’ ha diritto di infrangere -se necessario- le norme morali in nome della superiorità intrinseca di quel fatto stesso. Se ne può concludere che «la secolarizzazione della società e della morale può servire ad aumentare e non a diminuire la bontà umana» (S. Romano, 20).
La terza questione riguarda la consapevolezza del morire, che non è soltanto umana -come troppo spesso si ripete- ma è presente anche in molti altri animali, tra i quali una delle specie più vicine alla nostra intelligenza, vale a dire i corvi: «Creature straordinarie […] questi animali hanno una comprensione della morte dei conspecifici e la usano per valutare i pericoli per se stessi»; il testo di Federica Sgorbissa (p. 23) mostra le forme di tale consapevolezza.
Il dossier di questo numero è dedicato all’umorismo, al sorriso, al riso, alla loro necessità per la salute mentale individuale e collettiva. Come afferma Zarathustra, «questa corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: a voi, fratelli, getto questa corona! Io ho santificato il riso; uomini superiori, imparatemi – a ridere!» (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, IV, «Dell’uomo superiore», trad. di M. Montinari, Adelphi 1979, p. 359).

La fragilità umana

Locke
di Steven Knight
USA – Gran Bretagna, 2013
Con Tom Hardy (Ivan Locke)

LockeUn solo attore. Voci che parlano con lui al telefono. Un viaggio di notte in automobile lungo le autostrade intorno a Londra. Nessun morto, nessuna violenza, nessun evento oltre il viaggio stesso. Quasi dall’inizio si sa già tutto. E tuttavia Locke è un thriller. Perché è la lotta di un uomo qualsiasi -un capocantiere- con i propri limiti e con l’ombra del padre.
Ivan Locke, infatti, sta rinunciando al proprio lavoro, sta distruggendo la propria famiglia. Invece di tornarsene a casa la sera prima di una importantissima colata di cemento che costerà milioni di sterline e vedrà coinvolti centinaia di camion per porre le fondamenta di un enorme palazzo -lavoro del quale Locke ha la piena responsabilità tecnica-; invece di correre tra le braccia della moglie e dei due figli che lo aspettano per vedere una partita di calcio e bere birra indossando la maglia della propria squadra; invece di affidarsi alla sicurezza e al premio di una vita scrupolosa e onesta sul lavoro e in famiglia, Locke se ne va verso una clinica di Londra dove una donna con la quale, in una notte di solitudine, ha tradito -prima e unica volta- la moglie, sta per partorire
Perché fa tutto questo? Perché il padre di Locke lo ha abbandonato sin da bambino, è ricomparso ormai vecchio e patetico, è morto disprezzato dal figlio. «I Locke sono state sempre persone di merda ma io ho ripulito il tuo nome» dice Ivan al padre. Padre le cui ossa vorrebbe andare a disseppellire per poter dichiarare: «Impara come si vive».
La valutazione morale di un simile comportamento potrebbe essere la più diversa, in relazione al punto di vista. I due figli e la moglie, ad esempio, non hanno gli stessi diritti di attenzione e di cura che ha la donna incontrata in una sola notte? Ma non è questo ciò che conta. Importa che di continuo, e specialmente all’inizio, Locke ripeta agli altri e a se stesso: «Farò quello che è necessario, non posso fare altro». È questo il cuore del determinismo, che i sostenitori del libero arbitrio non riescono proprio a capire: essere costretti non da altro, nemmeno dalle circostanze, ma dalla propria natura, da se stessi, da ciò che Eraclito chiama il carattere/demone. Lo si vede benissimo nel gesto iniziale, quando a un semaforo/incrocio Ivan alza il braccio in modo teatrale e inserisce la freccia che lo porterà altrove. La decisione di un attimo, non poteva fare altro. Una costrizione che induce Ivan a dipendere ancora una volta e in tutto dal padre che profondamente odia. È infatti il ressentiment che lo spinge, un sentimento che lega totalmente chi lo nutre al proprio nemico, esattamente come se si fosse costretti a obbedire ai suoi ordini.
Ressentiment è un concetto centrale della critica nietzscheana alle morali. E tuttavia questo personaggio, che nel suo contrapporsi al padre conferma del padre tutta la potenza, è a suo modo un oltreuomo. Per la determinazione e la serenità, sì la serenità, con la quale dissolve la propria esistenza pur di poter dire a se stesso «è così che si vive, è così che bisogna vivere». Che sia il punto di vista del regista è forse confermato dal giudizio formulato da uno degli interlocutori telefonici: «Locke è il miglior uomo d’Inghilterra».
Naturalmente tutto questo è potuto diventare un film, un bellissimo e impegnativo film, per merito dell’ottima sceneggiatura e della maestria tecnica di Steven Knight. Una sceneggiatura dove non si dice una parola di troppo e una tecnica cinematografica che trasforma nel corpo a corpo di un uomo con se stesso le luci artificiali, lo scorrere dell’asfalto, le superfici di un’automobile, lo spazio, l’andare.

Il manierismo di Pirandello

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Non si sa come
(1934)
di Luigi Pirandello
Con: Sandro Lombardi (Romeo Daddi), Pia Lanciotti (Bice Daddi), Francesco Colella (Giorgio Vanzi), Elena Ghiaurov (Ginevra Vanzi), Marco Brinzi (Nicola Respi)
Scene di Pier Paolo Bisleri
Costumi di Giovanna Buzzi
Regia di Federico Tiezzi
Sino al 2 febbraio 2014

pirandelloIl consueto interno (o terrazzo) borghese, la consueta duplice coppia, con un quinto personaggio funzionale alla consueta follia di uno dei quattro. Stavolta si tratta della pazzia di Romeo Daddi, il quale non si sa come si prende per una volta la moglie del suo amico Giorgio Vanzi, senza che i due capiscano -per l’appunto- come sia potuto accadere. Tutto finirebbe lì (Einmal ist keinmal) se tale «delitto» non ricordasse a Daddi un lontano e più consistente crimine che aveva commesso da ragazzo. Questo innesca la consueta lacerazione interiore del protagonista, il suo consueto bisogno di rifletterci sopra nella maniera più sottile e più pedante con l’inevitabile esigenza di esternare le proprie riflessioni, il consueto disordine che tale pensiero ad alta voce genera nelle consuetudini e nelle forme ordinate della vita sociale. E infine la consueta rivelazione e il conclusivo dramma.
Se tutto ciò ha avuto un grande significato dentro le forme sociali e drammaturgiche della prima metà del secolo scorso, oggi è diventato una consuetudine banale a sua volta. Un modo di fare teatro e di pensare la vita del tutto oltrepassato dal cinismo individuale e collettivo che vede nei sentimenti o degli strumenti per qualche altro scopo o delle improvvise e temporanee eruzioni della psiche. Sono sin troppo morigerati, ormai, gli scandali che costellano il teatro pirandelliano. Per tacere, poi, dell’«identità», questione che si è rivelata ben più ordinaria e insieme assai più complessa di come lo scrittore l’avesse pensata.
Pirandello vuole dire troppo mentre il miglior teatro contemporaneo esprime piuttosto la rarefazione della parola. Pirandello non ha un briciolo di ironia; in questo è un siciliano atipico, che non a caso sottovaluta il comico a favore dell’umoristico mentre la tragedia è inseparabile dal comico. Pirandello sente il bisogno di emulare la filosofia ma sapendo di non essere filosofo costruisce testi nei quali per un bel pezzo i protagonisti conducono una mascherata lezione di filosofia morale. Tutto questo, insomma, ha poco da dire. È consegnato alla storia del teatro con la sua grandezza e il suo significato ma più passa il tempo più mostra i suoi limiti, non riuscendo Pirandello ad andare oltre l’epoca per la quale ha scritto.
Interpreti e regista qui fanno molto per rendere vivo un testo così segnato dal suo mondo ma il problema non sono loro, il problema è Pirandello.

Appendice didattica
La galleria del Piccolo Teatro Grassi era occupata quasi per intero da studenti dell’ultimo anno di un liceo classico di Milano. I poveretti non ne potevano più (ho dovuto pure richiamarli) e qualcuno ha trascorso le due ore dello spettacolo occupato per intero in un videogioco al cellulare. Mi chiedo, e soprattutto chiedo ai loro insegnanti pur zelanti, che senso abbia portare studenti così fatti a teatro. Non sarebbe meglio dire: «Sentite, ragazzi, c’è questo spettacolo che secondo me potrebbe essere interessante (o didatticamente utile). Se volete, andateci». Invece li intruppano e li portano a vedere qualcosa per la quale, nonostante decenni di scuola e quinquenni liceali, costoro non hanno né voglia né linguaggio. Così è ridotta l’Italica Patria e sarebbe di gran lunga meglio lasciare tali studenti alla televisione e ai videogiochi, alla loro volontaria o involontaria servitù.

 

Un giudice

di Fabrizio De André
nell’arrangiamento (magnifico) della Premiata Forneria Marconi
(1979)

La prima versione di questa canzone è del 1971 e fa parte dell’album Non al denaro, non all’amore né al cielo, ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters. Il giudice è Selah Lively, preso in giro da tutti -gli umani son feroci- per la sua altezza e trasformatosi poi in arbitro della vita e della morte altrui.
Il pubblico moralismo condanna la vendetta come sentimento e pratica poco consona alla gente per bene. E in effetti molta vendetta non è altro che semplice risentimento, che lascia il vendicatore in balia dei suoi nemici. Ma vendetta è anche l’oggettiva presa di distanza dall’alterità che ci ha fatto del male, il lasciare l’altro alla sua nullità. Il giudice di De André mi sembra esprima tale oggettività, che non teme le morali ed è libera da ogni senso di colpa.

[audio:Un_giudice.mp3]
Vai alla barra degli strumenti