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Cosmo

Giorgio De Santillana – Hertha Von Dechend
Il mulino di Amleto
Saggio sul mito e sulla struttura del tempo
(Hamlet’s Mill. An essay on myth and the frame of time, 1969-1993)
Edizione riveduta e ampliata
A cura di Alessandro Passi
Adelphi, 2003
Pagine 630

Ancora una volta Nietzsche sembra avere ragione: per comprendere la distanza e la differenza rispetto a noi degli antichi miti la filologia non basta e anzi diventa a volte un fattore di grave misconoscimento. La complessità, la stranezza, la strabordante ricchezza dei racconti diffusi negli angoli e nelle epoche più diverse del pianeta formano una complessità circolare, un vero e proprio labirinto (altra immagine mitica, non a caso). E tuttavia i miti più lontani e più diversi narrano tutti gli stessi eventi, pur coprendoli con una varietà intricatissima di nomi.
Sembra che tutto ebbe origine nel Vicino Oriente, «da quella zecca “protopitagorica” situata nella “mezzaluna fertile” che un tempo coniò il linguaggio tecnico e lo consegnò ai pitagorici» (p. 360). Fu per tale discendenza orfica e pitagorica che Platone – una sorta di vivente “stele di Rosetta” – «sapeva ancora parlare la lingua del mito arcaico» (25), poiché egli non inventò i suoi miti ma li raccolse ponendoli in un contesto teoretico che preserva il loro enigma ma che nello stesso tempo ne rafforza la potenza. Il Timeo è una delle testimonianze più evidenti di questo compito che Platone diede a se stesso, poiché è il luogo in cui convergono e si dipartono i fiumi del pensiero cosmologico.
E sta qui la chiave di volta di questo straordinario libro, pullulante di varchi aperti verso una comprensione meno banale del mondo di ieri e di quello di sempre: «ciò che è veramente mito non ha basi storiche, per allettante che sia questa riduzione […] Il mito è essenzialmente cosmologico» (75). Il pensiero arcaico è cosmologico dall’inizio alla fine e le forze profonde della storia affondano ancora e sempre nel mito. Ecco spiegato perché dal Valhöll nordico ai templi di Angkor, dalle tribù amerindie alla Polinesia, dalla Mesopotamia agli Aztechi, dall’Islanda alla Cina, ricorrono gli stessi racconti, i medesimi personaggi sotto nomi diversi, gli stessi numeri. Non per una improbabile diffusione o per una sorta di inconscio collettivo ma più semplicemente perché i racconti fanno tutti riferimento al cielo e a ciò che gli esseri umani delle antiche ere vedevano in esso.

E che cosa vedevano? Pur rifiutando facili scorciatoie che trovano «semplici denominatori comuni a cui ricondurre tutti questi elementi» (558), gli Autori sono convinti e dimostrano che l’origine della mitologia umana stia in un fenomeno astronomico preciso e sconcertante rispetto a ogni esigenza di ordine, costanza, permanenza: la precessione degli equinozi, lo spostamento del perno intorno al quale il cielo sembra girare; dislocazione dovuta alla inclinazione dell’asse terrestre e alla differenza quindi fra l’equatore celeste e l’eclittica, la fascia dentro la quale si muovono il Sole, i pianeti, le costellazioni dello Zodiaco. La terra, insomma, si comporta come una trottola, un immenso giroscopio che compie un’intera rivoluzione ogni 25.920 anni. Quando gli esseri umani si accorsero di questo movimento, e se ne accorsero assai presto, sembrò loro che fosse precisamente tale scardinamento la causa prima di ogni distruzione e di ogni male. La definizione platonica del Tempo come «immagine in movimento di ciò che è stabile ed eterno » sarebbe quindi un riferimento assai rigoroso a tale spostamento dell’asse del mondo, al movimento a Χ (l’iniziale di Χρόνος), prodotto dalla precessione, un movimento che per Platone e per i miti ai quali egli attinge «descrive le Generazioni del Tempo stesso, il simbolo ciclico dell’eternità: ciclo dopo ciclo, giù giù fino agli spostamenti più piccoli, appena percettibili» (176).
Uno degli espliciti presupposti del libro è che le menti preistoriche e arcaiche furono in grado di comprendere tutto questo, che le conoscenze astronomiche delle antiche civiltà furono assai avanzate, tenendo naturalmente conto dei mezzi a loro disposizione, che quindi si debba «spostare molto più indietro nel passato gli inizi del pensiero scientifico e dell’osservazione dei fenomeni naturali» (417) e che l’umanità sia il risultato di processi di lunghissima durata, di conoscenze stratificate e trasmesse con i mezzi più diversi, in un alternarsi di scoperte, dimenticanze e rinascenze. Il mito, pertanto, non sarebbe «né fantasia irresponsabile né materiale per grevi studi psicologici né altre cose simili. Il mito è qualcosa di “totalmente altro” e vuole essere esaminato con occhi ben aperti» (383). Solo a queste condizioni quel mondo perduto, l’eredità «che ci viene dai tempi più antichi e più lontani» potrà essere ancora trasmessa ai «figli dei nostri figli» (30).

La polemica verso ciò che viene definito “evoluzionismo volgare” è diretta e frontale. Una semplicistica e dogmatica fede nel “Progresso” si è unita all’adozione acritica di un principio biologico qual è l’evoluzione in un ambito che non gli appartiene, quello delle idee. Il risultato –paralizzante – è che gli studiosi «con magnifico zelo hanno estirpato da tutta la mitologia la dimensione temporale» (334), che invece costituisce per l’umanità arcaica l’unica dimensione dell’esistenza cosmica. Per i Cinesi bisogna essere signori del tempo per aspirare a diventare sovrani dello spazio, quel tempo che vive e si incarna – elemento totalmente fisico – nel movimento dei cieli, «è il Tempo, solo il Tempo, che trasforma i Titani, già sovrani dell’Età dell’Oro, in “operatori di iniquità”. Sarà l’idea di misura, dichiarata o implicita, a mostrare il delitto fondamentale di questi “peccatori”: l’aver oltrepassato o “trans-gredito” il grado preordinato, e ciò viene inteso alla lettera» (185) perché Μοίρα è uno dei 360 gradi della circonferenza, quello oltre il quale non bisogna mai andare.
Il Tempo cosmico è Necessità, Χρόνος è paredro di Ἀνάγκη ed entrambi cingono l’intero universo. Il Tempo cosmico – definito da Platone la «danza delle stelle» – è musica, è legge, è numero, il cui ordine totale conserva ogni cosa e al quale tutti gli enti – divini, umani, animali, vegetali, minerali – obbediscono. Il tempo platonico è ancora questo Tempo arcaico che coincide con l’universo e «come l’universo esso è circolare e definito […] e tale continua a essere per tutta l’antichità classica, che credeva non nel progresso bensì negli eterni ritorni» (395). Ma anche prima e dopo Platone la filosofia greca seppe che l’essenziale accade nei cieli.

Prima di Platone, Anassimandro – secondo quanto ci riferisce Cicerone – pensava che «nativos esse deos longis intervallis orientis occidentisque eosque innumerabiles esse mundos» (De natura deorum, I, 25; qui a p. 497), che gli dèi nascano in lunghi intervalli di nascita e di tramonto e che essi siano mondi innumerevoli.
Dopo Platone, Aristotele – il sobrio maestro – «era fiero di affermare come fatto noto che gli dèi erano originariamente astri, anche se successivamente la fantasia popolare aveva offuscato tale verità» (23), che altre divinità non si diano, che le forze risiedano «nel cielo stellato e tutte le storie, i personaggi, le avventure di cui narra la mitologia si concentrano su coloro che, fra gli astri, sono le potenze attive, i pianeti» (212).
L’enigmatico annuncio riferito da Plutarco della morte del grande Pan può essere letto, in questa chiave, come il coinvolgimento della stella Sirio, fino ad allora risparmiata, nel grande moto di precessione degli equinozi. Un altro cardine del mondo veniva, infatti, in questo modo afferrato dalle spire del Tempo che tutto stritola, che tutto macina nel mulino cosmico che il tempo appunto è, «seppure non già come un mulino moderno a rotazione continua, bensì come un mulino a movimento alternato, paragonabile a un trapano» (16), a qualcosa che va su e giù muovendosi di moto vorticoso; una figura, questa, atta a descrivere esattamente il moto precessionale degli equinozi.
Nel Timeo si dice che il Demiurgo non ha generato tutte le anime destinate a nascere ma ha posto il seme dell’umanità «che si moltiplica ed è macinato in farina impalpabile nel Mulino del Tempo» (357). A chi appartiene questo immenso Mulino cosmico? A un personaggio che si chiama Amlódi, che assume i nomi più diversi nelle mitologie dei differenti popoli ed ere ma che sempre rimane legato alla radice greca –aòmulon, amido, fecola-, all’attività del macinare attimi, giorni, anni, intere epoche. Il Demiurgo platonico è ancora un altro nome dell’Amlódi islandese, che diventa Amleto, principe del mare del Nord e «dei suoi immani frangenti che macinano in eterno gli scogli di granito» (45).
Il Mulino di Amleto è l’intero cosmo il quale dopo l’Età dell’Oro in cui il piano dell’equatore e quello dell’eclittica coincidevano nella stessa circonferenza, ha cominciato a separarsi macinando dentro la propria macchina inarrestabile ogni cosa che in esso, nell’essere, transiti. Anche per questo «Principio degli enti è l’infinito (l’energia/campo il suo divenire…). Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la dissoluzione in modo necessario: le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine, al sorgere dell’una l’altra deve infatti tramontare. E questo accade per la struttura stessa del Tempo» (Anassimandroin Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13 ]DK, B 1])
Del Tempo cosmico nel quale il tempo umano acquista senso, vita, distruzione, rinascita.

«Dentro più dentro dove il mare è mare»

Giovedì 18 maggio 2023 alle 16.00 continueremo a dialogare sull’opera di Stefano D’Arrigo.
Nella sede del Centro Studi di Catania, l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza infatti il secondo incontro del ciclo dedicato all’autore di Horcynus Orca.
A parlarne saremo io e il Prof. Fernando Gioviale, profondo conoscitore di D’Arrigo, al quale ha dedicato un libro pieno di dèi: Crepuscolo degli uomini. Attraverso D’Arrigo in un prologo e tre giornate.
Horcynus Orca è anche la saggezza millenaria della vanità di ogni cosa, «il mare della Nonsenseria», «un mare lordo di fere nell’inutilità di tutto», un mare che c’era prima degli umani, che rimarrà quando degli umani si sarà persa ogni memoria, un mare che continuerà a diventare ciò che è, ciò che è sempre stato: sostanza e metafora della morte.
Il romanzo di D’Arrigo si chiude nel segno da cui era nato, che lo intesse e lo rende esteticamente sublime, proprio nel senso kantiano di qualcosa che attira e che spaventa, che sgomenta perché attrae, che coinvolge perché spaura. «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

 

 

Il caso Horcynus Orca

Anche quest’anno l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza un ciclo di incontri dedicato a Filosofia e Letteratura.
Dopo Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020), Céline (2021) e Manzoni (2022) quest’anno leggeremo Stefano D’Arrigo, i suoi due romanzi.
Il primo incontro si svolgerà giovedì 27 aprile 2023 alle ore 16.00 presso il Centro Studi di Via Plebiscito, 9 a Catania. Cercherò di presentare la figura di D’Arrigo e il peculiare luogo che occupa nella letteratura contemporanea italiana ed europea.
«Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» si afferma in Cima delle nobildonne. E quello che succede in Horcynus Orca sembra accadere nello spazio profondo del mare e del mito. È vero ma in questo romanzo ad accadere siamo noi, con il nostro andare nel tempo e con la nostra morte. Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. La lingua che lo intride è antica, espressionistica, avvolgente e lontana.

Il corpo, la guerra

Mito e guerra in James Hillman
in Dialoghi Mediterranei
n. 59, gennaio-febbraio 2023
pagine 46-52

Indice
-Il mito
-La salute
-L’angoscia
-La guerra
-Pan

Il significato, la funzione, le strutture del mito affondano nella vita quotidiana degli umani, nelle loro speranze più intime, nelle angosce più fonde, nei pensieri del corpo. E dato che il corpo esiste sino a che siamo vivi, il mito è consustanziale all’esserci, diventa un archetipo la cui fecondità è perenne. Il mito greco è il luogo in cui l’immaginale costruisce la propria tela di significati, dove la caverna è sempre aperta, dove dell’orrore si dà conto.
Opposta alla salute ma sua costante compagna è l’angoscia, la quale non costituisce una semplice tonalità emotiva o uno stato temporaneo di alterazione. L’angoscia è ciò che intesse la vita degli umani poiché essa è l’espressione psicologica della Necessità e del Tempo. Mito, angoscia, salute si coniugano in due figure ambivalenti e ambigue, opposte ma penetranti l’una nell’altra: il Senex e il Puer.
Queste dinamiche contribuiscono a meglio comprendere e a spiegare un fatto, una catastrofe, una potenza antica dentro la quale l’umano abita e si perde: la guerra. Il tentativo di Hillman è consistito anche nel coniugare guerra, mito e psiche; di penetrare dentro la guerra, la sua disumanità così umana, il suo fascino costante e sinistro, il suo dominio nella storia. Pensare la guerra per capirla e quindi in qualche modo fronteggiarla. Una vera scienza della guerra non può limitarsi alla storia, alla sociologia, alla psicologia, alla tattica e alla strategia, non può limitarsi all’apparente razionalità delle sue cause, delle forme e degli scopi ma deve cogliere la natura inumana del massacro, le forze profonde che spingono l’essere vivente e razionale a intraprendere la distruzione di ogni cosa e di se stesso.
Una via d’uscita dalla catastrofe è per Hillman il mito politeistico, con le sue figure. In particolare Pan, il quale tiene ancora unita l’identità molteplice del politeismo mentre l’imporsi dei tre grandi monoteismi ha impoverito il mondo della sua strepitosa e costitutiva varietà, ha fatto vincere la coscienza egoica di un soggetto monocorde e senza (apparenti) contraddizioni. Ma il riemergere inevitabile della differenza produce schizofrenie, isterismi, paranoie ben più gravi di quelle che pure il corpo panico di per sé possiede, delle quali è fatto.
La natura più fonda di Pan è costituita dall’al di là dell’Eros, poiché il panico – il terrore della fuga e del polemos – precede l’Eros in ogni sua forma: greca, cristiana, romantica. Con estrema chiarezza, Hillman mormora che «la lotta tra Eros e Pan, e la vittoria di Eros, continuano ad umiliare Pan ogni volta che diciamo che lo stupro è inferiore al rapporto, la masturbazione inferiore alla copula, l’amore migliore della paura, il capro più brutto della lepre» (Saggio su Pan).
E poiché il corpo è l’intrascendibile – nonostante ogni sforzo di negazione attuato dalle religioni ascetiche e dai progetti di un’Intelligenza Artificiale disincarnata –, alla fine esso vince. Sempre.

Warburg

L’«antico» come dispositivo psichico collettivo
il manifesto
5 gennaio 2023
pagina 11

Il contributo di Aby Warburg alla cultura contemporanea e alla comprensione dell’antico consiste prima di tutto nell’avere infranto ogni barriera accademica e ogni confine disciplinare, aprendo il sapere a sentieri intricati e interrotti ma fecondi, capaci di condurre nel cuore della grecità e nel nucleo del presente attraverso non soltanto libri, analisi, saggi e conferenze ma con l’invenzione di una Biblioteca dalla struttura e dalle intenzioni completamente inedite, una vera e propria «macchina per studiare».
Forse per ragioni di spazio l’articolo uscito sul manifesto manca delle poche righe conclusive, che trascrivo qui:
E in questo modo [Warburg] ha reso plurali il Classico, il Rinascimento, i Greci, gli europei, ha moltiplicato il dionisiaco nei saperi e nel tempo. Warburg è diventato ciò che studiava. E questo rappresenta il culmine della conoscenza.

Una cosmologia sacra

Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù
In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca
Mudec, Museo delle Culture – Milano
A cura di Ulla Holmquist e Carole Fraresso
Sino al 19 febbraio 2023

Dal XIII secolo a.e.v sino al 1526 dell’e.v. alcune raffinate e potenti civiltà si susseguirono negli aspri e ricchi territori delle Ande, dalle vette che arrivano a 6000 metri sino alle pianure e alla costa. Al culmine della sua espansione l’impero Inca si estendeva per migliaia di chilometri, dal Perù all’Ecuador occidentale, alla Bolivia, al Cile, all’Argentina centro-occidentale. Lo abitavano 12 milioni di persone, di molteplici e disparati gruppi etnici.
Furono uomini e comunità in profondo accordo con i due elementi che soli possono dare senso alla parzialità umana: gli altri animali e gli dèi. Per i popoli delle Ande tutti gli enti si distribuiscono nei tre mondi che formano l’intero.
Nel mondo superiore, al di là delle cime e delle nuvole, abitano gli dèi.
Gli umani stanno in un qui e ora continuamente cangiante e per sopravvivere devono impetrare l’aiuto divino trasformando continuamente se stessi e gli altri animali in elementi sacri. Cosa che soltanto il sacrificio, solo la morte, può realizzare. I riti, i combattimenti, le feste, i funerali, hanno dunque sempre al centro il sacrificio umano, compreso quello di guerrieri – e quindi membri dei gruppi dominanti – che si sfidano e i cui perdenti si offrono senza incertezze alla morte rituale. L’obiettivo e il senso di tutto questo è infatti che la Terra continui a vivere, con le sue piogge e la sua fecondità, e che il Sole continui a splendere. Anche la morte degli altri animali non avviene nelle anonime e terribili catene di montaggio dei macelli contemporanei ma dentro la gloria della Terra e del Sole.
Nel mondo inferiore abitano gli avi, i morti, coloro che rimangono sempre presenti sia con i loro corpi disseccati e non putrefatti sia dentro la memoria dei vivi.
Si tratta dunque di un universo verticale, il cui strumento sono i gradini – gradini di ogni forma, natura e simbolo – che li attraversano e li uniscono.
Queste civiltà sono animaliste, in un senso assai più profondo rispetto all’attuale significato di tale parola. Gli altri animali infatti esistono, vivono e respirano in totale continuità con l’animale umano. Gli sciamani, incaricati di viaggiare tra la terra, gli inferi e il cielo, diventano felini, giaguari, cervi, serpenti.

«Vedendoci come dei non-umani, è loro stessi (e i loro rispettivi congeneri) che gli animali e gli spiriti vedono come degli umani: si percepiscono come (o diventano) esseri antropomorfi quando sono nelle loro case o nei loro villaggi, e imparano i loro comportamenti e le loro caratteristiche sotto un aspetto culturale: percepiscono il loro cibo come un alimento umano (i giaguari vedono il sangue come la birra del mais, gli avvoltoi vedono i vermi della carne putrefatta come pesce grigliato, eccetera); vedono i loro attributi corporei (pelame, piumaggio, unghie, becchi, ecc.) come ornamenti o strumenti culturali; il loro sistema sociale è organizzato come delle istituzioni umane (con capi, sciamani, metà esogame, riti…) […]. Tutti gli animali, assieme ad altri componenti del cosmo, sono delle persone, intensivamente e virtualmente, perché ognuno di loro può rivelarsi essere (o trasformarsi in) una persona»
(Eduardo Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale,  trad. di M. Galzigna e L. Liberale, ombre corte, Verona 2017, pp. 43-44).

Questo vortice antropologico ha la sua espressione anche nel moltiplicarsi delle forme che decorano i manufatti, gli oggetti, le produzioni degli Inca: spirali, geometrie, interi cicli narrativi dentro un vaso. Cicli che hanno come protagonista Ai Apaec, l’uomo-dio il cui destino è simile a quello di Eracle.

(Foto di Enrico Moncado)

E soprattutto hanno come protagonisti gli dèi, i quali si uniscono agli umani, come fa la madre terra fecondata in un coito appassionato, e mostrano la vagina, il pene, gli organi e le forze dalle quali sgorgano i viventi e i loro simboli.

(Foto di Enrico Moncado)

Animisti ed eraclitei, questi umani esprimono una forza arcaica, ancestrale, splendente e crudele, fatta di iniziazioni assai dure, che escludono gli inadatti alla vita. Esattamente l’opposto dell’occidente contemporaneo, declinante e tremebondo, che cerca di risparmiare ogni anche pur piccolo ‘trauma’ ai suoi cuccioli, rendendoli in questo modo delle nullità inadatte al travaglio del negativo. E, a proposito di dissoluzioni, pur con tutta la loro violenza queste civiltà non poterono resistere alla ferocia dei cristiani, una delle più implacabili che la storia umana abbia visto.
Come emblema e sineddoche di tanto pensiero sta la città sacra di Machu Picchu (1450-1572), che si vede in apertura di questo testo.
Antropologia? No, cosmologia. Il Sole, la Via Lattea, il Sacro.

Per le differenze

Alain de Benoist
L’impero interiore
Mito, autorità, potere nell’Europa moderna e contemporanea
(L’empire intérieur, 1995)
Trad. di Debora Spini e Marco Tarchi
Ponte alla Grazie, 1995
Pagine 188

Complessi, ritornanti, rizomatici sono i percorsi della storia umana, delle comunità che la vivono, delle idee che la plasmano. Dissolti in Europa gli imperi dopo la Prima guerra mondiale, in particolare con i trattati di Sèvres e di Versailles, l’idea di nazione sembrò vincere e trionfare. In effetti essa ha guidato e costituito la storia contemporanea. Ma se nel XIX la nazione avanzò sullo slancio giacobino e napoleonico – eredi del centralismo delle monarchie assolute, in particolare di quella di Luigi XIV -, nel Ventesimo e Ventunesimo secolo essa sta mostrando sempre più la propria natura oppressiva e reazionaria, non solo nei regimi totalitari dell’Italia fascista e della Germania nazionalsocialista ma anche nell’imperialismo degli Stati Uniti e delle burocrazie europeiste, le quali non condividono nulla dell’idea imperiale, rimanendo invece «nazioni che cercano solamente di dilatarsi attraverso la conquista militare, politica, economica o di altro genere, sino a giungere a dimensioni che eccedono quelle delle loro frontiere del momento» (p. 165). Esempio massimo sono gli USA, che operano indefessamente al fine di «convertire l’intero mondo in un sistema omogeneo di consumo materiale e pratiche tecno-economiche» (166).
L’imperialismo contemporaneo è da ogni punto di vista l’opposto del principio e della struttura imperiali come emergono, ad esempio, nell’Impero romano fondato su un riconoscimento e un rispetto pervasivi delle autonomie locali e delle differenze ideali: di costume, di lingua, di religione. Quest’ultimo elemento costituisce un fattore di civiltà che i monoteismi hanno combattuto, calunniato, dissolto: «L’Impero romano non si richiama a divinità gelose. Ammette quindi gli altri dei, famosi o sconosciuti, venerati dai popoli che riunisce. La tolleranza religiosa è la norma, come del resto in tutto il mondo antico» (145).

Il mito dell’impero si fonda per de Benoist nell’impero del mito. A quest’ultimo è dedicata la prima e densa parte del volume. Attraverso un’ampia disamina filosofica e storica, si argomenta la tesi per la quale «Mythos e Logos sono termini assolutamente interscambiabili» (11), tanto che molte ricerche contemporanee in settori disparati – antropologia, letteratura, filosofia, religioni, logica – mostrano la razionalità del mito. Tra gli studiosi più noti, Kurt Hübner e James Hillman. Il primo sostiene che «il mito, lungi dall’essere ‘irrazionale’ possiede al contrario la sua propria razionalità. […] L’uomo non sperimenta mai il mondo direttamente: ogni sua esperienza, compresa quella scientifica, è necessariamente mediata da un universo mentale significante. Il mito quindi forma la struttura di questo universo e niente può dimostrare che questa struttura sia meno legittima di quella proposta dalla scienza» (62-63); da parte sua, Hillman vede nella «ragione solo un’espressione particolare del mito» (63).
Il mito va molto al di là del religioso e dell’etico. Il dominio sempre più pervasivo e soffocante della morale nel nostro tempo rappresenta un sostituto assai povero di comportamenti che sono di per sé misurati poiché regolati su una misura non soggettivistica, non psicologica, non normativa. Questa misura scaturisce non dal religioso o dall’etico ma dal sacro, che è un legame profondo e immediato con la materia come κόσμος, come totalità e dunque come continuità misurata dell’umano rispetto all’intero del quale è parte. Si tratta del contrario della ὕβρις, della dismisura escludente e individualistica diffusa nel mondo mediterraneo dai monoteismi, in particolare da quello cristiano: «Il mondo a questo punto non può più essere intrinsecamente il luogo del sacro. La relazione immediata non è più quella fra l’uomo e la totalità del reale, ma una semplice relazione con qualcun altro, che associa dei soggetti ormai separati» (36).
Monoteismi che a loro volta costituiscono il frutto e insieme il rafforzamento di alcuni elementi del tutto desacralizzanti: «l’individualismo (anima individuale, salvezza individuale), la dissociazione inaugurale nel dualismo dell’essere creato e dell’essere increato, il rifiuto del tempo circolare o ciclico e l’adesione ad una concezione della storia unilineare e vettoriale» (35).
La dimensione sacrale e mitica, invece, è intessuta di una ripetizione che implica sempre la differenza. E «in questo sta il senso di ogni metafora cosmica, fondata sul regolare alternarsi di opere e giorni, delle età e delle stagioni. Il ritorno periodico della primavera è il ritorno di una forma, ma non di un contenuto: è sempre la stessa stagione, ma è sempre un’altra primavera. L’immagine chiave, in questo caso, non è tanto il cerchio quanto la spirale o la sfera, poiché la possibilità di superare nasce dalla stessa ripetizione; e la rigenerazione del tempo nasce dal ricorso a ciò che è al di là del tempo» (25).
Il principio imperiale ha soprattutto questo in comune con l’ontologia mitica: un gioco senza fine di Identità e Differenza, per il quale che si tratti di dèi o di umani «l’identità degli altri, lungi dall’essere una minaccia per la nostra identità, fa parte di ciò che permette a tutti noi di difendere le nostre rispettive identità contro il sistema globale che cerca di ucciderle» (175).

L’Europa, luogo e spazio di origine di queste dinamiche, potrà sopravvivere alla sua sempre più evidente insignificanza politica e geostrategica soltanto se rispetterà le differenze tra i popoli e le comunità che la compongono e l’identità della loro storia mediterranea, se saprà dunque «tornare nella luce del mito» (74), nel chiarore della filosofia greca.

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