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Il mito e la storia

Il mito come storia
Cinque drammi di Friedrich Dürrenmatt

in Il Covile
anno XVI, numero 705, 21 ottobre 2024
Pagine 1-8

Collaboro con numerose riviste (e ne dirigo una) ma la soddisfazione che mi regala la pubblicazione di un saggio su Il Covile è particolare, e questo per due precise ragioni:
-l’eleganza e la bellezza della rivista, il suo coraggio di apparire antica anche nella grafica;
-l’affrancamento dai miserabili dogmi del presente, ciò che Nietzsche chiama unzeitgemäß, inattuale.
Dietro due elementi come questi abitano infatti molte condizioni e un intero mondo.
Nel saggio ho cercato di leggere cinque drammi storici di Dürrenmatt anche alla luce di uno dei racconti più straordinari di questo drammaturgo e narratore: La morte della Pizia.

Indice del saggio
-Premessa sul Nobel
-Mito e storia
-Un angelo è sceso a Babilonia
-Sta scritto
-Il cieco
-La meteora
-Frank V
-Conclusione. Il male a Delphi

Poiesis / Techne

Hangar Bicocca– Milano

Chiara Camoni
Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e Fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentasse

A cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli
Sino al 21 luglio 2024

Nari Ward  – Ground Break
A cura di Roberta Tenconi e Lucia Aspesi
Sino al 28 luglio 2024

Chiara Camoni cerca, raccoglie, plasma, inventa, progetta e costruisce la materia vegetale e minerale. La materia bella. La materia – rami, marmo, sassi, fiori – trasformata in forme religiose, mitologiche, sacre.

Il religioso è un sentimento che si esprime anche in forme istituzionali, in dottrine più o meno rigorose e dogmatiche, in rivelazioni che il fedele può interpretare ma non respingere. Il mitologico è la potenza del racconto che spiega in forme molteplici, contraddittorie, ironiche e violente l’origine del cosmo, il derularsi della materia, l’incarnazione del divino, l’identità con esso dell’umano. Il sacro è l’enigma di un significato assoluto, perduto, sempre tenacemente ricercato e a volte trovato sia in interiore homini  sia nel cosmo, nella tonalità panteistica della sapienza.
Camoni esprime soprattutto quest’ultima dimensione attraverso il fiorire di alberi antropomorfici che diventano idoli ai quali anche accendere candele; attraverso il gioco simbolico di pavimenti a mosaico che sembrano resti di antiche basiliche dove si adora il cielo; 

attraverso marmi, argille, terrecotte che assumono forme zoomorfe come serpenti di pietra sinuosi tra le dee e i pavimenti; assumono soprattutto le forme di leonesse, di cani e di una bellissima, fiera, ieratica lupa.

Lo spazio di Chiara Camoni è tutto alla luce del giorno. Quello di Nara Ward è invece immerso in un buio dal quale emergono anche in questo caso forme e figure simboliche e apotropaiche. Sembrano quindi due mostre in apparente e in parte reale continuità. Ma rispetto alla freschezza materica di Camoni, Ward ripete di continuo il gesto di Duchamp, raccogliendo oggetti di uso quotidiano, elevandoli e trasformandoli in forme archetipiche. E quindi vediamo e osserviamo l’ennesima raccolta di rifiuti, di elettrodomestici, di sanitari. È una discarica plasmata in forme a volte anche pretenziose.
Pretesa che raggiunge il culmine della furbizia con la Home Smiles, una macchinetta per scatolette attraverso la quale – a dire del catalogo – «l’artista raccoglie e vende i sorrisi, offerti dai passanti che si specchiano all’interno di scatolette di latta che vengono poi sigillate» (pp. 23-24). Il fatto che poi questi ‘sorrisi inscatolati’ vengano venduti (a 15 € l’uno) a sostegno dell’organizzazione «Save the Children» aggiunge a questa banale imitazione della Merda d’artista di Piero Manzoni (1961) un’insopportabile patina di compassionevole conformismo.
L’insieme delle due mostre in corso allo Hangar potrebbe essere sintetizzato come un itinerario dalla sacralità della Terra alla ὕβρις della tecnologia, dalla ποίησις alla τέχνη.

In generale, e con riferimento all’opera di Ward ma anche di moltissimi altri artisti e performer viventi, si assiste sempre più all’inevitabile manierismo del contemporaneo. Forse sarebbe da auspicare un’avanguardia che compia opera di rottura con gli epigoni del XX secolo (il plagio di Ward da Manzoni fa anche tenerezza nella sua esplicita mancanza di creatività) ed esprima in forme riconoscibili, in forme altre, in forme distanti, una bellezza pura, metafisica. Senza però indulgere in classicismi e in nostalgie. È difficile, certo, ma ormai è necessario per evitare l’eterno ritorno dell’identico in numerose mostre, in troppi artisti. Una piccola traccia di questa possibilità è un’opera dello stesso Ward che si intitola Wishing Arena (2023); opera che viene presentata in questo modo: «l’artista si misura con l’architettura del sacro» (p. 14) e che nella sua struttura circolare e armonica permette di meditare mentre la si osserva. Torniamo così all’inizio, torniamo all’essenziale.

Miró, l’animismo

Miró, la gioia del colore
Palazzo della Cultura – Catania
A cura di Achille Bonito Oliva, con la collaborazione di Maïthé Vallès-Bled  e Vincenzo Sanfo
Sino al 7 luglio 2024

Animistica è la vibrazione della materia per Juan Miró. Per questo il suo segno è luminoso anche e specialmente quando si accompagna a un nero profondo o proviene dal bianco più neutro. Si tratta di una consapevole mitologia «che fa sì che io non consideri un sasso, una roccia, come cose morte. In fondo quel che dipingo io è soprattutto questa mitologia» (da uno dei pannelli della mostra). La materia è quindi l’intero, è spinozianamente la sostanza, è Dio, è l’inizio. Ed «è la materia a decidere» (ivi).
Espressione della materia universale ovunque pulsante e consapevole, la materia come anima mundi, è naturalmente prima di tutto il cielo, sono gli astri, i soli, le galassie. Soli, astri e galassie che attraverso segni grafici inconfondibili abitano la sua pittura. Cosmo dal quale Miró afferma di essere sconvolto quando vede «in un cielo immenso la falce della luna e il sole. Nei miei quadri, del resto, vi sono minuscole forme in grandi spazi» (ivi). La «materia ricca e vigorosa» (ivi) diventa in questo artista filiforme, sinuosa, leggiadra; viene ricondotta alla sua forma platonica, all’essenza di pochi segni installati nello spazio del foglio, della tela, dei tappeti, delle ceramiche, dei poster. Come accade in un piccolo quadro nel quale ai segni viene dato esplicitamente un nome: scala per evadere, cerchio, sole, luna, occhio, e alla fine soprattutto «le néant», il nulla.

La gioia del colore è indubbia, come recita il titolo della mostra catanese, e si fonda su un sentimento esplicitamente drammatico e insieme armonioso del mondo e dello stare degli enti in esso. Perché, assai classicamente, «se anche una sola forma è fuori posto, la circolazione si interrompe, l’equilibrio è spezzato». E invece bastano due grumi di rosso e di nero dentro un piatto bianco a trasmettere la stessa vibrazione del Timeo: «Questo mondo, che è un vivente dotato di anima e di pensiero. […] Per cui lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile» [τόνδε τὸν κόσμον ζῷον μψυχον ἔννουν τε. […] διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰςἴσον πέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον μοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον μοιον ἀνομοίου» (30b, 187 – 33b, 195; trad. di Francesco Fronterotta, Rizzoli 2018).
A conferma di questo breve percorso nella mostra catanese, ricordo che parlando di un’altra mostra di Miró a Milano (2016) avevo scelto come titolo Miró. La materia felice.

Mito

Un’epistemologia del mito
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
9 aprile 2024
pagine 1-9

Indice dell’articolo
-Hübner e Feyerabend
-Scienze e altri miti
-Sullo statuto del mito

In questo testo ho cercato di coniugare la scienza del mito di Karl Hübner con la prospettiva epistemologica generale di Paul Feyerabend. Le indagini da Hübner dedicate alle verità del mito costituiscono infatti un classico dell’epistemologia e non soltanto della storia delle religioni. Diversamente da quanto si potrebbe superficialmente giudicare, La verità del mito e Contro il metodo sono due dei libri più argomentati che siano stati scritti a favore della scienza e della conoscenza, a chiarimento della loro natura, a difesa del loro progresso, a spiegazione del loro statuto. Una solida e reale acquisizione di conoscenza è infatti possibile, pensabile e praticabile dove si dà libertà metodologica, dove si permette un pluralismo di itinerari, dove a essere rifiutati sono soltanto i dogmi di qualunque natura. Nessuno nega i frutti che molte teorie scientifiche hanno conseguito ma deve essere chiaro (come lo è stato ai maggiori filosofi della scienza del Novecento) che lo hanno fatto all’interno di un più ampio campo di conoscenze e di pratiche, senza le quali non avrebbero potuto conseguire alcun risultato, senza le quali non avrebbero potuto esistere.

Fare luce

Lux in arena
Le lucerne e il mondo dei gladiatori

Antiquarium Alda Levi – Milano
A cura di Anna Maria Fedeli e Alberto Bacchetta
Sino al 23 dicembre 2023

Fare luce è sempre stata un’esigenza degli esseri umani, i quali sono animali diurni che hanno bisogno di luce, che amano la luce, che vengono spaventati dal buio e che sono sensibilissimi a ogni variazione dei colori, dell’intensità luminosa, delle ombre, dei chiaroscuri. La pittura è espressione di tale natura, così come la fotografia, le mitologie e le religioni, che nella luce hanno il loro cardine e la loro metafora prediletta.
Fare luce serve a muoversi nello spazio senza urtare, inciampare, cadere, farsi male. Nelle città romane, e antiche in generale, non esisteva qualcosa di analogo alla «illuminazione pubblica» e quindi bisognava muoversi di notte per le strade con delle torce resistenti e durature. E in casa bisognava accendere candele, bracieri e soprattutto lucerne di terracotta distribuite ovunque nelle stanze, poste sui mobili, sospese tramite catenelle a supporti di legno, bronzo, ancora di terracotta (candelabra) o collocate in nicchie alle pareti appositamente costruite a questo scopo. Più grande era l’ambiente, soprattutto quelli pubblici, più fonti di luce erano necessarie. Un mondo che fra il tramonto e l’alba viveva in una costante penombra e forse per questo capace di apprezzare in modo più definito e consapevole sia la luce del Sole sia lo splendore della volta celeste e della Luna.
Inserisco qui sotto la foto di uno dei pannelli che guidano il visitatore della mostra milanese alla scoperta e conoscenza di questi oggetti umili, economici e veramente indispensabili. Nella chiusa si dice che la lucerna accompagna anche i morti (per ingrandire basta cliccare sulle immagini).

La mostra raccoglie numerose lucerne di varia fattura, produzione, simbolo e significato. La numero 16 che si vede qui sotto raffigura un soldato vincitore. Molte altre simbolizzano momenti di guerra e specialmente scene di giochi gladiatori. Il successo dei giochi nella civiltà romana era enorme. Lo testimonia non soltanto questa mostra ma l’intero luogo che la ospita. L’Antiquarium Alda Levi è infatti una sezione del Museo Archeologico di Milano, sezione costruita vicino a ciò che resta del grande Anfiteatro Romano, che si trovava a sud-ovest della cinta muraria e che venne utilizzato con passione dalla sua costruzione ( I secolo e.v.) al declino del mondo antico.

L’Anfiteatro non è attualmente visitabile perché sono in corso ulteriori scavi che dovrebbero, alla loro conclusione, far percepire meglio la grandiosità di questa struttura che oggi si trova nel centro della città (il Duomo è raggiungibile in un quarto d’ora a piedi). Il Museo è invece aperto, documenta la storia della Milano antica dall’età del ferro al V sec. e.v. e raccoglie soprattutto testimonianze relative all’utilizzo dell’Anfiteatro per i giochi gladiatori. Preziosa e rara è una stele con la quale la famiglia di un valente gladiatore, Urbicus, ricorda il congiunto con orgoglio e affetto.
Le testimonianze di cultura materiale danno l’impressione di poter toccare il passato, che il passato sia vivo, che il passato sia ancora tra noi con questi oggetti e con i loro significati. Ad esempio, ceramiche (anche in vetro e medioevali, non soltanto antiche), anfore, strumenti musicali, gioielli. Oltre che naturalmente lucerne. Davvero raro è un pavimento in malta anch’esso del I sec. e.v., scoperto in via Cesare Correnti e che dalla foto può essere scambiato anche per un dipinto astratto.

Molti oggetti provengono, come sempre, dalle necropoli, soprattutto manufatti legati all’ambito del sacro, che venivano spezzati per evitare che oggetti appartenuti a una divinità potessero essere riutilizzati dagli umani, dai mortali. Anche questo significa rispetto del Sacro. Una sacralità pervasiva perché immanente, assai diversa dalla desacralizzazione portata dal cristianesimo nel mondo antico.
Un cattolico ultratradizionalista, Thomas Molnar, afferma con compiacimento che «il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» Un pagano contemporaneo, Alain de Benoist, lo conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (entrambe le affermazioni si leggono in L’eclisse del sacro, a cura di G. Del Ninno, Edizioni Settecolori, Vibo Valentia, 1992, rispettivamente alle pagine 21 e 115).
Il Sacro raccoglie l’umano e il divino come parte di un insieme che non li confonde e non li separa. Dove invece essi si scindono, inizia la devastazione. La devastazione ebraica e cristiana che in luoghi come l’Antiquarium milanese appare invece così lontana, così improbabile.

Tra Omero e Bocca di Rosa

EtnaMusa Festival – Bronte/Difesa
Odissea un racconto mediterraneo
Il Ciclope /
Canto IX
Con Mario Incudine
Arrangiamenti, musiche e tastiere: Antonio Vasta
Progetto e regia: Sergio Maifredi
Produzione: Teatro Pubblico Ligure

Nell’ampia e panoramica sede dell’EtnaMusa Festival – da un lato il vulcano, dall’altro il tramonto sui Nebrodi – (e pur con ritardo sull’orario di inizio) sono risuonate ancora una volta le parole fondatrici dell’Europa, le parole del mito, le parole di Omero. Il canto IX dell’Odissea è stato interpretato, riscritto, reinventato dalle musiche e dalla recitazione di Mario Incudine e dalle traduzioni di Ettore Romagnoli, di Luigi Pirandello, di Camillo Sbarbaro. Traduzioni così diverse confermano l’universalità del poema, la sua natura aperta e sempre odierna, nel trascorrere dei millenni. Il limpido classicismo di Romagnoli, il turpiloquio che Pirandello mette in bocca a Polifemo, la musicalità di Sbarbaro si sono alternate alle note di Incudine e Vasta.
Conclusa la lettura del poema, il musicante Incudine e il musicista Vasta (questa la definizione che hanno dato di se stessi) sono passati a un repertorio di canzoni, tra le quali la più coinvolgente è stata la traduzione in siciliano di Bocca di Rosa diventata Vuccuzza di ciuri. 

Più sotto il testo della versione di Incudine e questi i link al brano su:

E qui la canzone di De André nell’esecuzione con la Premiata Forneria Marconi:

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Era chiamata vuccuzza di ciuri
faceva l’amuri, faceva l’amuri
e lu faceva di tutti i maneri
di ‘ncapu, di sutta, davanti e darreri.

Quannu scinniu a la stazioni
Di un paesiddu cca vicinu
Si n’addunarunu vecchi e carusi
Ca ugn’era un monicu né un parrinu

C’e cu lu fa picchì  ‘cci siddia
C’e cu ‘nveci si cci ni preja
Vuccuzza di ciuri ne l’unu ne l’autru
Ppi didda l’amuri è na puisia.

Ma la passioni unni ti fa ghiri
A fari li cosi ca fannu piaciri
Senza capiri su ‘u disgraziatu
È zitu, schettu o maritatu.

Ed accussì ca di oggi a dumani
Vuccuzza di ciuri unn’avi cchiu spassu,
mentri ca tutti ddi cani arraggiati
ci iettanu ‘u Sali a chiuirci ‘u passu.

Ma li cummari d’un paiseddu
Talianu ‘ntunnu e unn’hanu cchi fari
E mentri ca perdunu a corda e lu sceccu
Su rusicanu sulu l’ossa cc’o sali.

Si sapi ca ‘a genti duna cunsigliu
Sintennusi cumu Dominneddiu
Grapunu a’a vucca ma all ‘occurrenza,
un sanu diri mancu piu.

Accussi ‘na vecchia schittusa e acita,
senza né figli e senza cchi’u vogli,
si piglia’u culu a puzzuluna
e ghiva dittannu la so dottrina.

Si la pigghiava ccu li cornuti,
dicennuci a tutti mali paroli:
cu rubba l’amuri avrà punizioni
di carrabbunera e guardi riali.

Currerru tutti a parlari ch’à guardi
Ci dissiru senza menzi paroli
dda tappinara avi troppi clienti
Chiossà  di chidda ca vinni pani
E arrivarru quattru gendarmi
Ccu li cappedda e ccu li pennacchi
Arrivarunu ‘ncapu e cavaddi
ccu li pistoli e li scupetti

ma puru i sbirri e i carrabbunera
un fanu mai u propriu duviri,
ma quannu si misiru l’alta uniformi
l’accumpagnarunu alla stazioni.

Alla stazioni c’eranu tutti
dai guardi riali o sagristanu
Alla stazioni c’eranu tutti
Ccu l’occhi vagnati e ‘u cori in manu
A salutari cu ppi tanticchia
Senza pritenniri e senza aviri
A salutari cu ppi du jorna
Purtà l’amuri ne ddu quarteri

c’era un cartellu ranni
e l’occhi chini ‘i pena
dicivunu addiu vuccuzza di ciuri
ccu ti si ni và la primavera.

Ma na notizia di sta purtata
Un’avi bisugnu di carta stampata
Cumu lu metri e lu pisari
Fici lu giru di lu quartieri.
Alla stazioni ca veni d’appressu
C’è chiossà  genti di chidda ca lassu
C’e cu s’asciuca l’occhi di chiantu
Cu si prenota p’un momentu.

E puru u parrinu ca murmuriava
Si dici mutu ‘na santa orazioni
E sta Madonna china ‘i biddizzi
a voli accanto pp’a procissioni.
E cu la Vergini in prima fila
Vuccuzza di ciuri manu ccu manu
Si porta appressu ppi lu paisi
L’amuri sacru e chiddu buttanu!

Politeisti semantici

Il mito è conoscenza ma non è solo conoscenza. Il mito è teologia ma non è solo teologia. Il mito è specialmente racconto, è l’arte del racconto, è il racconto che produce mondi, credenze, significati.
Anche per questo «qualsiasi esposizione della mitologia è una interpretazione»1, poiché è il mito in se stesso – e non soltanto nei suoi lettori e inventori – a essere un oggetto cangiante, metamorfico, ermeneutico.
Di ogni dio si raccontano storie diverse, anche molto diverse. Di ogni nome del dio si danno differenti origini, interpretazioni, significati. Di ogni racconto esistono una molteplicità di versioni, sviluppi, soluzioni. Un esempio è Marsia, il satiro che sfidò Apollo nella musica e che, sconfitto, venne scuoiato dal dio a causa della sua ὕβρις. In un saggio assai bello Elvia Giudice ipotizza e descrive «una storia diversa, in cui Marsia, sconfitto da Apollo nell’agone auletico e risparmiato dal dio per intercessione di Athena (?), avrebbe riconosciuto le ragioni del rivale, assumendone lo strumento e sposandone la causa: la supremazia della citarodia su tutte le altre forme d’arte musicale»2.
Nel mito vive una molteplicità ermeneutica che lascia ammirati e stupefatti. Perché i Greci erano davvero dei politeisti semantici, credevano che nulla potesse fermarsi, avere un solo volto, diventare verità per sempre uguale, dogma.

Il Mare, la Notte, la Terra stanno all’origine di tutto. In principio – questo afferma il colto narratore greco al quale Kerényi dà voce e presta erudizione – «esisteva la Notte: nella nostra lingua essa si chiamava Nyx, una delle più grandi dee anche secondo Omero, una dea davanti alla quale perfino Zeus provava un sacro timore» (p. 26, con riferimento a Iliade, XIV, 261). Da questa notte sconfinata e potente si generarono il Cielo e la Terra; dalla loro unione il Tempo; e dal Tempo la Luce, Zeus, il dio la cui potenza, i cui figli, le cui sapienti alleanze garantirono il trionfo contro le forze più antiche e più oscure, l’avvento di un ordine comunque sempre precario, violento e cangiante, poiché precaria, violenta e cangiante è la vita stessa delle cose e della materia.
La Morte, che su tutto domina e ogni cosa aspetta, seppe darsi la figura più lieta, più desiderata, più potente: l’Amore. Soltanto perché la passione amorosa vince sui mortali, essi generano enti simili a sé, altre cose destinate e morire. «Le Sirene servivano la morte» (58). Afrodite, nata nel Mare dallo sperma insanguinato del Cielo, è una divinità d’amore e una divinità di morte. E anche per questo «l’Afrodite nera può stare altrettanto bene a lato delle Erinni, tra le quali essa viene pure contata» (73-74). Afrodite domina su tutti gli animali (umani compresi) e su tutti gli dèi (tranne Atena, Artemide ed Estia). Essa costringe persino Zeus a desiderare donne mortali, ad amare anche la propria sposa-sorella Era e poi una miriade di donne, di enti, di forze, con le quali si unisce nei modi più impensati e fantasiosi e dalle quali genera altre forze, eroi, dèi.
Le Erinni e Afrodite limitano e compiono il potere di Zeus, della Luce. Le Erinni anch’esse generate dalle gocce di sangue di Urano. Le Erinni figlie della Notte, della Terra, dell’Oscuro.

Il politeismo narrativo, le continue metamorfosi, le trasformazioni, il diventare e il tempo generano racconti vorticosi, producono nomi, celebrano matrimoni, fioriscono figli, si trasformano in stelle, nel continuo catasterismo della religione greca che colloca nella notte stellata molti personaggi rendendoli così immortali e insieme visibili.
Una delle più belle costellazioni invernali, Orione, è appunto un catasterismo, insieme al suo cane, allo scorpione che lo ha punto, agli altri animali dei quali il cacciatore primordiale va sempre all’inseguimento, ogni notte.
Il politeismo narrativo inventa la vergine madre ben prima che lo facesse la saga biblica; la storia delle nozze di Atena narra infatti che la dea «non perdette la sua verginità, ma dopo le quali [nozze] affida ugualmente un bambino alle figlie di Cecrope, re della sua amata città di Atene» (107).
Il politeismo antropologico attribuisce a disgrazia la donna (come accade anche in Genesi), tanto da definire Pandora, plasmata da Zeus per punire Prometeo e gli umani, con la formula di un «bel male […] insidia pericolosa, di fronte alla quale gli uomini sono inermi. Da essa discende la generazione delle donne. Un male di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia» (182).
Il vortice narrativo arriva al suo culmine nell’unione di Zeus con Persefone, figlia sua e di sua madre Rea o forse di Demetra (Diodoro Siculo, 3, 64. 1); unendosi alla figlia Zeus generò Dioniso, nella prima delle tre nascite del dio; «entrambi gli dèi, Zeus, il seduttore di Persefone, e Dioniso, figlio dei due, portavano anche il nome Zagreo» (101).

Dioniso è il culmine, è il fascino, è il dio smembrato e divorato dalle forze oscure ancora potenti, punite e rese fumo da Zeus. Da tale caligine fummo generati noi, gli umani, che dunque siamo tenebra titanica e luce dionisiaca.
I racconti di Dioniso che rende vani gli sforzi dei pirati di rapirlo, trasformando la loro nave in una vite e loro in delfini; di Dioniso che punisce tremendamente Penteo facendolo sbranare dalla sua stessa madre; di Dioniso che nasce ancora due volte da Semele e dal proprio cuore/fallo bollito, tutto questo è la meraviglia ironica, serissima e cosmica che fa del mito greco la spiegazione più profonda e cangiante del mondo profondo e cangiante nel quale abitiamo e che siamo.

Note
1. Károly Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia (1951-1958), trad. di Vanda Tedeschi, il Saggiatore 1963, p. 17. Indicherò tra parentesi nel testo i numeri di pagina delle successive citazioni.
2. Elvia Giudice, Il Cratere del Pittore di Cadmo 1093: pittura vascolare e società, in Ostraka. Rivista di antichità, anno XXX. Numero 21, 2021, p. 72.

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