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Still in Life

L’altro sguardo. Fotografe italiane (1965 -2015)
A cura di Raffaella Perna – Opere della Collezione Donata Pizzi
Milano – Palazzo della Triennale
Sino all’8 gennaio 2017

Immagini dense, importanti, belle, ironiche, classiche, lievi. Distribuite in cinque sezioni.
Dentro le storie porta lo sguardo negli anni Sessanta e Settanta. Vediamo la pena e l’infamia dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia (Carla Cerati,1968) prima che Franco Basaglia vi iniziasse la sua azione di liberazione. Chiara Samugheo ritrae Luchino Visconti (1965) in una posa che esprime molto di questo dandy tenace e malinconico. Poi Luisella Battaglia, con i suoi cadaveri palermitani che sembrano ‘sparati’ da pochi secondi. Se rimarrà qualcosa della storia della mafia siciliana nei secoli venturi, saranno probabilmente queste immagini. Giovanna Borgese documenta alcuni dei processi più celebri di quei decenni. Il suo Curcio in gabbia (1981) è il ritratto profondo di uno dei rivoluzionari e dei politici più intelligenti della storia contemporanea. Questa prima sezione della mostra è davvero assai coinvolgente.
Cosa ne pensi tu del femminismo? mi è sembrata invece una specie di ‘riserva’, come quelle nelle quali vengono relegati i nativi americani, i ‘pellerossa’.
In Identità e relazione l’arte fotografica diventa concettuale ma possiede anche risonanze mentali ed emotive. Più che fotografarle, Shobha scolpisce due baronesse di Ragusa Ibla -le signore Cultrera di Montesano- per la serie intitolata Gli ultimi Gattopardi (1992).
La mostra si chiude con Vedere oltre, con l’oltrepassamento dei confini che separano arte e fotografia. Immagini decisamente astratte, come quella di Cristina Omenetto che ritrae Pompei al modo di un sogno aritmetico, o quella assai efficace di Raffaella Mariniello, intitolata Still in Life (2014): un computer e una scrivania diventate natura morta.
Diventate quello che la Dissipatio Humani Generis produrrà inevitabilmente. La materia si riprenderà allora per intero i diritti che non ha mai ceduto.

Anche qui Dioniso

Teatro Sant’Elena – Milano
Entrope
Riscrittura collettiva di Le Baccanti di Euripide
Compagnia D.R.A.M.A.S. (pdf)
Con: Davide Corrado, Riccardo Carrer, Serena Maierna, Michela Carrera, Riccardo Madini, Alessandro Grati
Scene di Eleonora Nardo
Regia di Alice Grati

«Anche qui vi sono dèi» rispose Eraclito a chi si stupì di vederlo in cucina, accanto al fuoco.
Anche qui il dio più teatrale appare in tutta la sua forza. Qui, dentro una compagnia di giovani attori non tutti professionisti; qui in un teatro piccolo, da poco rinnovato ma pur sempre esterno ai grandi circuiti, qui dove la riscrittura collettiva delle Baccanti ha intersecato i caratteri e le esistenze degli attori con il mito potente del dio che si fa spazio anche là dove non lo vogliono.
Spazio nel quale Dioniso irrompe a rivendicare il proprio diritto alla gioia, alla vendetta, al canto. I movimenti raffinati, statici e ironici del dio contribuiscono al carattere arcaico di questo spettacolo immerso in abiti antichi e postmoderni, con attori che si muovono in una scenografia di semplice eleganza, capace di trasformare dieci sottili colonne di plexiglas in un luogo sacro e luminoso.
Dioniso afferma di amare gli umani che non si rassegnano al proprio destino. E colpisce gli umani con l’inesorabile destino che lui stesso è. Dioniso blandisce e acceca, sorride e uccide. Dioniso è la vita stessa, una «vita indistruttibile» della quale è l’«archetipo», come ha mostrato Karl Kerényi.
Talmente indistruttibile da emergere ancora nei movimenti che la giovane regista ha inventato per rendere ampio e dinamico il ridotto spazio scenico a disposizione. Talmente indistruttibile è il dio da splendere in un testo che è una riscrittura a partire da Euripide ma che sa dire ancora qualcosa di sacro agli arroganti e dementi umani che lo respingono.

entrope

Eschermania

Escher
A cura di Marco Bussagli e Federico Giudiceandrea
Milano – Palazzo Reale
Sino al 29 gennaio 2017

All’inizio fu ottimo disegnatore e incisore, capace di muoversi con estro e abilità tra il liberty e il surrealismo. Poi furono la geometria, le forme, la mente. Fu l’Italia raffigurata con rara potenza grafica: il Tempio di Segesta, il Flusso di lava come lo si vede da Bronte, Castelmola e altre splendide immagini della Sicilia e dell’Italia, soprattutto meridionale. E di Roma, dove Escher si stabilì e visse per quattordici anni. «L’episodio che produsse il cambiamento nel percorso artistico di Escher fu la visita a L’Alhambra e a Cordova nel 1936». In quegli edifici arabi vide la geometria, la serialità, la potenza creatrice della percezione umana, la relazione tra la struttura dei minerali e le costruzioni, vide le immagini ricorsive che si fanno musica degli occhi. «Escher è affascinato dal tema dell’illusione del volume realizzato con i mezzi della grafica» ha scritto Bruno Ernst.
E poi le leggi della Gestalt, gli ‘oggetti impossibili’, le Metamorfosi che mostrano la continuità olistica tra tutte le cose. Insieme a Magritte –soprattutto al Magritte de Les compagnons de la peur, in cui delle foglie si trasformano in inquietanti civette-, Escher ha ancora una volta dato ragione ad Aristotele, per il quale la mente è in qualche modo tutte le cose.
Già mentre Escher era vivo esplose una Eschermania che da allora non si è più fermata. Le forme escheriane si sono diffue ovunque: dalle scienze all’industria culturale (fumetti, copertine di dischi e di riviste, video), dall’arte più raffinata alla pubblicità. Uno degli artisti matematicamente più complessi è diventato anche uno dei più popolari. Questa mostra assai ricca ne spiega con efficacia le ragioni.

Klein, i luoghi

William Klein. Il mondo a modo suo
Milano – Palazzo della Ragione
A cura di Alessandra Mauro
Sino all’11 settembre 2016

La poetica, le città, la pittura, i film di un artista poliedrico e sempre curioso.
Si comincia con una sala intitolata Astrazioni, nella quale si comprende il fondamento estetico dell’opera di Klein attraverso i suoi oli, le installazioni, la grafica. Poi cominciano le città vissute e fotografate. Di ciascuna di esse, di ogni luogo, Klein sembra trarre la natura, l’essenza.
A New York Klein è nato nel 1928. Ma dagli anni Cinquanta decide di osservarla con occhi diversi: «Era come se fossi un etnografo: trattavo i newyorkesi come un esploratore avrebbe trattato uno zulu». Il risultato sono delle immagini che documentano una società selvaggia, estrema, rozza, senza armonia, violenta anche nella sua serenità e naturalmente del tutto mercantile. Topolino invade Times Square (1998) è un vero e proprio trionfo della volgarità.
La Roma degli anni Cinquanta è vissuta insieme a Fellini, del quale Klein fu assistente per Le notti di Cabiria. Baristi, barbieri, suore, militari, La Sacra Famiglia in Vespa (in tre sulla stessa moto). Una città vivace, sporca, proletaria.
In quegli stessi anni Mosca appare invece malinconica, ordinata, rassegnata e insieme vitale. Di questa visita, Klein scrisse: «Come tutti, anch’io mi ero fatto un’idea dell’Unione Sovietica. E nella mia mente c’erano anche le immagini di Vertov, Rodčenko e compagnia bella, così come le inquadrature televisive del Praesidium, quelle mummie decorate con grugni che sembravano le porte di una prigione. Temevo che mi sarei ritrovato in una città chiusa, noiosa. Ma poi provai una sorta di emozione –niente a che vedere con la rabbia che mi ispirava New York- una specie di malinconia vagamente disperata, quasi tenera, non lontana dal sentimento che avevo provato, in gioventù, leggendo i romanzi russi. Ecco cosa cercai di mostrare –ed ecco in cosa può rivelarsi utile la fotografia, nel mostrare cose e persone per quello che sono. Non tutti i russi cono come Breznev e Andropov».
A Tokyo per Klein «tutto è da vedere, nulla da interpretare». Da vedere soprattutto le cerimonie (del bagno, dell’inchino, delle bolle di sapone). Un insieme di cortesia e di astrazione.
Parigi è il luogo dove Klein ha deciso di vivere. Una città cosmopolita, tradizionale, ribelle, densa, totalizzante.
Altre tre sezioni sono dedicate alla Moda, con immagini assolutamente gelide, le quali mostrano la natura del tutto effimera e arrogante di quel mondo.
Dei Film è possibile gustare numerose sequenze. Questi film nascono, secondo l’acuta ipotesi di Claire Clouzot, dal fatto che Klein «avrebbe voluto girare il prima e il dopo delle fotografie». Sono opere metaforiche, formalmente rigorose, religiose, politiche, ironiche, effimere, laterali rispetto a ogni centro. Molto bella la scena di alcuni detenuti statunitensi che cantano Händel.
Infine Contatti dipinti nei quali –afferma l’artista- «l’esultanza della pittura richiamava la gioia che si prova scattando una fotografia». Le immagini vengono colorate, geometrizzate, rese forma e parte della mente di Klein.

Paladino, i libri, il Quijote

Disegnare le parole. Mimmo Paladino tra arte e letteratura
Milano – Museo del Novecento
A cura di Giorgio Bacci
Sino al 4 settembre 2016

Le opere che Mimmo Paladino dedica ai libri sono di grande ricchezza letteraria, grafica, estetica, sono un piacere degli occhi e dell’intelletto. Le parole, le lettere, le figure si intrecciano in legami sinestetici che rendono visibili alcune delle più alte narrazioni europee. Tra queste: l’Ulisse di Joyce, Pirandello, il Philobiblon di Riccardo de Bury, monaco e vescovo del XIV secolo, Raffaele La Capria, il De Universo che Rabano Mauro compose nel IX secolo, l’Agamennone di Eschilo, i Tristi Tropici di Lévi-Strauss, La luna e i falò di Cesare Pavese, la Divina Commedia pensata, interpretata, illustrata più volte e in forme diverse.

A tali libri e ai dipinti si accompagnano gli acquarelli e il film (girato da Paladino nel 2006) dedicati al Quijote. Un capolavoro liquido e onirico. L’amore, la luna, il sogno, la follia. Visionario. La corazza, le nuvole, il fuoco, le armi. Arcaismi simbolici e silenti. Strutture rabdomantiche e sciamaniche.
La finzione nella quale viviamo si fa verità proprio in quanto costanza della finzione. Un possibile segreto del platonismo, e dunque dell’arte, è che la finzione –la copia- sia la realtà perché è veramente una finzione, che la realtà non sia una copia di qualcos’altro ma che la copia sia l’unica realtà. L’immagine è dunque reale proprio perché è immagine e non altro.
Il Quijote di Paladino mi ha ricordato una frase di Carmelo Bene: «Ferita era la benda e non il braccio» (Sono apparso alla madonna. Vie d’(h)eros(es), Longanesi 1983, p. 208).
Cerchiamo sempre ciò che non si dà, perché ciò che cerchiamo è la Luce.

Miró. La materia felice

Joan Miró. La forza della materia
Museo delle Culture – Milano
Sino all’11 settembre 2016

«Bisogna avere il massimo rispetto per la materia. È lei il punto di partenza. È lei che detta l’opera».
È il benvenuto di Miró a una mostra fatta di donne, uccelli, costellazioni. Fatta di un gesto assolutamente libero e insieme rigoroso. Una pittura ‘infinita’ nel senso in cui lo sono le lingue, capace quindi di esprimere senza fine concetti ed esperienze mediante il diverso assemblaggio degli stessi segni. Un’arte che ha sconfitto l’angoscia, un’arte felice. È anche questo il significato del cromatismo di Miró. Il segno nero che percorre i suoi quadri emerge ed è generato dal colore. E al colore dà senso. In Donna nella notte (1973), l’artista comincia da una macchia blu. Poi utilizza il nero per dividere il quadro in tre aree che colora di rosso e di giallo (oltre che di nero). Al blu/occhio iniziale si aggiungono tre capelli, la stella e un punto viola che è un pianeta, un corpo celeste. Infine dipinge le gambe. Il risultato è potente, plastico, archetipico.
La materia di un quadro è anche il suo supporto, al quale Mirò dedica sempre grande attenzione. I segni sono tracciati su carta, tela, legno. Le sculture sono fatte di oggetti sparsi e casuali, che poi l’artista unifica nella forma del bronzo e del legno. Con Donna e uccello del 1967 Miró introduce il colore nella scultura, che diventa totem, speranza, timore, potenza. Sculture arcaiche e futuriste, che enfatizzano il corpo umano, in particolare i piedi, poiché –si chiede l’artista- «non è attraverso il piede che l’uomo entra in contatto con la terra? ».
Nelle ultime opere la semplicità, il rigore, la nettezza aumentano. Della forma è rimasto l’essenziale. Della materia è rimasta la poesia. Questo Miró voleva: «Che la mia opera sia come una poesia musicata da un pittore. Il pittore lavora come il poeta: prima viene la parola, poi il pensiero». E voleva anche che l’opera andasse al di là della sua persona, del nome, dell’individuo. Che fosse collettiva e universale, come quelle dei maestri antichi, che tanto ammirava.
«L’inizio è qualcosa di immediato. È la materia a decidere». Un mondo di bellezza materica, colta e infantile, questo è il mondo di Joan Miró.

Un’estetica del frammento

Studio Azzurro. Immagini sensibili
Palazzo Reale – Milano
Sino al 4 settembre 2016
Video della mostra

Le immagini sono sensibili perché al tocco del visitatore prendono vita, si muovono, si spostano sui tavoli, sui tappeti, nei monitor e nello spazio. Coppie che dormono si involtano su se stesse, pozzanghere sprizzano acqua e rompono il ghiaccio al tocco delle scarpe. Una vera e propria etnoestetica fa del visitatore lo spettacolo stesso, l’opera, la performance.
I contenuti che lo Studio Azzurro ha affrontato dal 1984 a oggi sono molto diversi tra di loro ma tutti accomunati da una poetica del frammento come scheggia che riassume l’intero, solo frammento del solo mondo. Si va dalla rivisitazione di luoghi, spazi, genti e culture del Mediterraneo ai Benandanti studiati da Carlo Ginzburg, i quali proteggevano i campi e i raccolti  dagli influssi malefici attraverso il culto pagano della terra e della sua potenza.
Molto bello il video realizzato dentro il Grande Cretto di Gibellina. Tra le rovine che Alberto Burri ha trasformato in forma si muovono nella notte gli anziani, mentre una voce antica afferma che «u tempu ogni cosa scaccia, scaga».
Il lungo percorso si conclude nella grande Sala delle Cariatidi, dove un’installazione appositamente pensata per questo luogo rivisita il Miracolo a Milano di De Sica. Il visitatore si pone davanti a degli specchi, dopo qualche secondo la sua immagine scompare, sostituita da quella di un clochard -o di persone in ogni caso in difficoltà economica- che dice poche parole sulla propria storia e poi spicca il volo verso il soffitto affrescato della sala, dove la povertà diventa leggerezza.
L’ibridazione tra arti visive, video, cinema, performance, nuove tecnologie si fa racconto, movimento, suono.

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