Skip to content


Dissolvenze

Museo del Novecento
Milano

Milano, una sera d’estate. Guardo il cielo che offre a occidente gli ultimi bagliori turchesi. Guardo questa luce che si incunea tra i campanili, i palazzi, le guglie del Duomo. La osservo dai piani più alti del nuovo Museo del Novecento, dalla sua terrazza che offre in tutto il suo splendore la visione del cuore della città. L’Arengario, che sta accanto al Palazzo Reale e alla sinistra del grande tempio, è stato ristrutturato a fondo dagli architetti Italo Rota e Fabio Fornasari, che hanno creato una struttura elicolidale che conduce dalla metropolitana e dalla piazza ai piani espositivi, dai quali le grandi vetrate permettono alla luce e alla città di entrare nel Museo. Davvero molto bello, semplice e funzionale.

Nel Museo hanno finalmente trovato sede le collezioni di arte del Novecento e contemporanea di proprietà del Comune di Milano, in particolare quella donata dai coniugi Jucker. Dopo aver percorso la spirale, si viene accolti dal magnifico Quarto Stato di Pelizza da Volpedo (1901), un omaggio divisionista e raffinato al proletariato ma anche alla Scuola di Atene di Raffaello. Si arriva poi alla prima sala che contiene alcuni -pochi- dipinti dei grandi maestri europei del Novecento: Braque, Kandinskij, Picasso, Modigliani, Mondrian, Matisse, Klee.

Inizia così il lungo percorso che dal Futurismo -soprattutto i capolavori pittorici e plastici di Boccioni- attraverso l’esperienza di Novecento, lo Spazialismo, l’Informale, l’Astrattismo, la pittura analitica, l’arte povera, conduce sino al presente. Dopo la prima sala il Museo ospita solo artisti italiani ma certamente ci sono tutti i più importanti e ha poco senso fare dei nomi (segnalo soltanto lo spazio giustamente particolare che viene dato a Lucio Fontana nel piano più alto dell’edificio).

Piuttosto, va ribadita una verità banale ma non per questo meno significativa a proposito della relatività di concetti quali Tradizione, Avanguardia, Moderno. Il percorso testimonia efficacemente infatti, anche per la sua dimensione relativamente contenuta, come le espressioni che in un certo momento appaiono innovative sino alla provocazione -Futurismo, Cubismo, i Concetti spaziali di Fontana, i Corpi d’aria di Manzoni- col passare del tempo diventino dei classici, sostituiti nella loro funzione provocatoria da altre innovazioni che si trasformeranno anch’esse in paradigmi tranquillamente accettati da tutti. Anche per questo nell’ambito artistico -e, in generale, in quello culturale- non hanno alcun senso il tradizionalismo e il rimanere ancorati a stilemi e a forme come se essi costituissero la vera arte, la vera letteratura, la vera filosofia, il vero teatro, la vera musica. Se c’è un carattere che accomuna l’intensa e istruttiva esperienza estetica che questo Museo fa vivere, è proprio il dinamismo della vita individuale e collettiva, che si riflette ed esprime nell’incessante innovazione di ciò che chiamiamo arte.

E poi un’altra verità, altrettanto ovvia ma anch’essa significativa. Mano a mano che si procede nel Novecento e nel presente le figure si diradano, il realismo si sbriciola, le forme si dissolvono, l’opera coincide sempre più con il semplice materiale di cui è fatta, come è evidente in Fontana, nel grande Alberto Burri, nella sabbia di Giulio Turcato, nelle tele non lavorate di Giorgio Griffa, nella straordinaria Superficie magnetica di Davide Boriani -opera che in nessun istante è uguale a se stessa-, negli ambienti in cui si entra per vivere con l’intero corpo delle esperienze visuali/percettive (ancora Boriani, Giovanni Anceschi, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Luciano Fabro), nell’imponente libreria dal titolo Scultura d’ombra di Claudio Parmiggiani, l’opera più recente tra quelle esposte (2010), fatta di fumo e di fuliggine (davvero, non è una metafora). E tutto questo testimonia -al di là di ogni ingenuo realismo delle filosofie classiche ma anche di alcune loro riproposizioni nel presente- che la mente umana vede forme e figure là dove ci sono soltanto macchie di colore e ammassi di atomi, testimonia che la Gestalt e quindi il senso non stanno nella materia ma nell’occhio che la guarda.

Milano, Napoli, la speranza

Sono felice che una delle mie due città si sia finalmente liberata da vent’anni di tristezza, di incapacità amministrativa, di rapina del territorio, di esclusione, di arroganza. E sono felice anche per Napoli, un luogo che amo molto, capace di sorprendere sempre, come ha fatto in questa occasione eleggendo un magistrato contro chi per ottenere qualche voto prometteva impunità sulle costruzioni abusive. Vorrei far parlare delle amiche, una milanese e l’altra napoletana, che ieri mi hanno inviato due sms: «Sono felice per l’affermazione di Pisapia anche se al primo turno ho scelto il mov. [5 stelle]. A Napoli poi la cosa è incredibile, quasi commovente»; «Sono commossa…da tempo non vedevo nulla, più nulla. Questa napoletana abbraccia il milanese adottivo [proveniente da ] un sud di cui essere orgogliosa».

Due donne che non si conoscono tra di loro hanno utilizzato la medesima parola, «commozione», come quando si esce in modo insperato da una lunga malattia e si rivede qualche frammento di futuro. Queste amiche sono delle cittadine che cercano di pensare e di capire, simili alle tante persone che hanno affollato le piazze di Milano e di Napoli per festeggiare non l’illusione di una vittoria risolutrice dei problemi ma l’inizio delle condizioni minime per poterli affrontare. Ed è questo la speranza: poter cominciare ad agire per fare della decenza e della misura i criteri delle azioni. Non so come amministreranno Pisapia e De Magistris di fronte alle enormi difficoltà di una ricostruzione dalle macerie civili e sociali delle due città. Temo, ad esempio, che Pisapia non avrà la forza e le intenzioni di ridimensionare l’enorme sperpero di danaro e di spazio che è l’Expo milanese, il cui unico risultato è stato sinora la moltiplicazione del cemento.  Sono però certo che governeranno senza volgarità, che tenteranno una politica normale, fatta anche di limiti, errori, compromessi, ma non una politica criminale come quella che invece è ancora al comando della nazione.

 

27.972

Sono contento che la mia città cominci a liberarsi dalla malia e dal carisma di un vecchio pazzo e ritorni alla misura della politica evitando l’estremismo paranoide di un caso umano, un caso clinico. Candidandosi anche come “consigliere comunale di Milano” allo scopo di attirare i poveri di spirito, Berlusconi aveva dichiarato che «se alle prossime elezioni prendo meno di 53mila preferenze – tutta la sinistra mi fa il funerale. Funerali in tutte le piazze» [Fonte: la Repubblica; qui il video del bauscia]. Tale funerale è in atto, dato che questo tizio è passato dalle 52.577 preferenze delle precedenti elezioni comunali alle 27.972 di oggi.

Numerosi sono dunque i motivi di soddisfazione dopo la prima fase della tornata elettorale -il clamoroso 48 % di Giuliano Pisapia a Milano, l’affermazione a Napoli di De Magistris anche rispetto al candidato del PD, il Movimento 5 stelle terzo partito nelle città più importanti, il calo generalizzato della Lega in tutto il Nord d’Italia- ma è il dato numerico riguardante le preferenze personali di Berlusconi il più significativo dal punto di vista simbolico, punto di vista che nella società dello spettacolo è il più importante di tutti.

 

Arcimboldo

Palazzo Reale – Milano
A cura di Sylvia Ferino-Pagden
Sino al 22 maggio 2011

Nei modi suoi propri -e quindi palesi, visibili, materici- l’arte figurativa è sempre stata compagna delle grandi narrazioni filosofiche, religiose, scientifiche. C’è un artista che di sé e della propria opera ha fatto un’espressione tra le più riuscite e originali di questo incrocio di forme estetiche e concettuali: Arcimboldo.

La recensione continua su Vita pensata 11 – Maggio 2011

Gli strumenti umani

di Vittorio Sereni
Con un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo
Einaudi, 1980 (I ed. 1965)
Pagine 120

Di che cosa parla la poesia se non d’amore? Di questo primo, ultimo, inveterato errore tra gli umani? Del «credere che d’altro non vi fosse d’acquisto che d’amore» (p. 33) in questo mondo spento alla ventura, in questo mare nel quale «presto delusi dalla preda / gli squali che laggiù solcano il golfo / presto tra loro si faranno a brani» (17).
La vita è memoria di ferite che si intrecciano all’oceano di speranze vane eppur indispensabili al respiro che ogni giorno ricomincia, a quell’esistere che si immerge nel con-essere perché è così che la macchina funziona, perché l’essere nel mondo è questo, «i minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità» (15). Nel barbaglìo di incontri, spazi, luoghi, così pronti a diventare il già stato mai stato della morte «…Pensare / cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (67). E invece gustare e percorrere «i corsi l’uno dopo l’altro desti / di Milano dentro tutto quel vento» (21).
Il nucleo delle poesie di Sereni pulsa tra la dimensione collettiva e lo scavo fondo nell’umana melanconia. Una volontà di dire il dolore che lascia però spesso irrompere la gioia nei suoi versi e li trasfigura. È vero, certo, che «conta più della speranza l’ira / e più dell’ira la chiarezza, / fila per noi proverbi di pazienza / dell’occhiuta pazienza di addentrarsi / a fondo, sempre più a fondo / sin quando il nodo spezzerà di squallore e rigurgito / un grido troppo tempo in noi represso / dal fondo di questi asettici inferni» (28). E tuttavia Gli strumenti umani si chiudono sulla permanenza immortale di ciò che ci fa vivere: il ricordo, l’esser stati, il tempo, l’aver amato. «I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce. / Non / dubitare, -m’investe della sua forza il mare- parleranno» (86).

Treccani. La mia città

Ernesto Treccani. La mia città
Milano, fotografie e dipinti

Milano – Fondazione Corrente
Sino al 18 giugno 2010

Ernesto Treccani (1920–2009) ha amato Milano dell’amore che questa città merita. Un amore intimo e fattivo. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, l’artista realizzò una serie di fotografie e di dipinti -di dipinti in gran parte tratti dalle foto- che ritraggono e soprattutto sentono la città e ne mostrano il tessuto sociale operaio e aristocratico, l’espansione veloce e i silenzi profondi. Rispetto al presente, mostrano soprattutto il vuoto, i grandi spazi ancora simili a quelli dipinti da Sironi decenni prima. Non soltanto le periferie ma anche le strade del centro storico sembrano avviluppate da una tranquillità perduta. Milano è un grosso paese, non è affatto una metropoli, e anche questo fa la sua dolcezza e la sua forza antropologica, ancora nonostante tutto pulsante.
La mostra è allestita nella sede della Fondazione voluta dall’artista, che per essa realizzò la magnifica facciata in maiolica, con le rondini che volteggiano sopra la città.

Poesia che mi guardi

di Marina Spada
Con: Elena Ghiaurov, Carlo Bassetti, Enrica Chiurazzi, Marco Colombo Bolla
Italia, 2009
Trailer del film

La figura e i versi di Antonia Pozzi (1912-1938) rivissuti nella Milano contemporanea, tra le sue strade, a Chiaravalle (dove la poetessa morì), nel Liceo e nell’Ateneo da lei frequentati, con i filmati di famiglia, le foto, l’enigma, la disperazione, i sorrisi. Lo sguardo di Marina Spada su questa donna e su Milano è partecipe ma non acritico, è lieve ma non sentimentale, tenta di restituire la passione gettata e insieme la misura formale dei versi e della vita di Antonia.

Insieme al lungometraggio di Spada, la cineteca Oberdan ha proiettato Et mondana ordinare e Il cinema senza cinema. Nel primo vengono interpretati i lasciti testamentari di tre donne vissute a Bergamo fra Due e Trecento. Anexia lascia i propri beni a due uomini, Adeleita alle ragazze povere, la badessa Grazia al proprio convento. Recitazione dei testi, immagini degli affreschi, canti sacri e profani si alternano a restituire la volontà di salvarsi l’anima e di «mondana ordinare», affinché tutto sia e rimanga nell’ordine ciclico del cristianesimo medioevale. Il secondo breve filmato documenta l’attività della Scuola Cine Video Dreamers e in particolare il talento di un giovane suo componente nel recitare lunghe scene di celebri film, il “cinema senza cinema” appunto.

Vai alla barra degli strumenti