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Un urlo che precipita

Enrico Baj. I funerali dell’anarchico Pinelli
Palazzo Reale – Sala delle Cariatidi – Milano
Sino al 2 settembre 2012

«Mi si reclamava insomma una rappresentazione, e rappresentazione ho fatto, affinché testimonianza resti del fatto, di lui, delle violenze subite, del dolore di Licia, di Claudia e di Silvia». Così Enrico Baj presentava la grande opera -affresco meccanico e installazione tridimensionale- nella quale Giuseppe Pinelli è un urlo che precipita. Intorno a lui i poliziotti che lo uccisero -macchine digrignanti morte «con cimiteri di croci sul petto» (De André, La collina)- e gli anarchici che lo accompagnarono ai funerali, uomini e donne sconvolti, piangenti ma non rassegnati. Davanti a lui le figlie dolorose e la moglie devastata emergono da un infinito tappeto di fiori.

In tre metri di altezza e dodici di lunghezza, Baj riassunse Guernica, Carrà, la patafisica, le macchine desideranti. Riassunse soprattutto il sentimento di un’intera città, alla quale viene finalmente restituita un’opera creata nel 1972 e mai esposta sinora nella sede per la quale era stata pensata, perché il giorno stesso dell’inaugurazione -17 maggio 1972- moriva ammazzato il commissario Calabresi. Vederla ora nella solitudine della grande sala, nel buio dal quale si staglia la sua luce, è segno che la memoria e la bellezza sono più forti di ogni ferocia.

Un’inquietudine che si autocelebra

Addio anni 70. Arte a Milano 1969-1980
A cura di Francesco Bonami e Paola Nicolin
Milano – Palazzo Reale
Sino al 2 settembre 2012

Ad accogliere è una semplice cornice dentro la quale è inscritta la parola Gliannisettanta (Alighiero Boetti) . Nella stessa stanza sta la Bariestesia (Gianni Colombo), una serie di scale asimmetriche che vanno percorse per comprendere quanto straniante possa essere lo spazio. Un incipit nel quale l’ordine della parola racconta il disordine dei luoghi e degli eventi. Da qui ci si inoltra in un vero e proprio catalogo, a volte bulimico, degli anni Settanta.
Copie delle edizioni L’erba voglio e di Alfabeta. La dinamica classicità delle sculture di Fausto Melotti. Il Nuovo Realismo nella varietà delle sue forme, tra le quali i piatti e i tavoli sporchi del Restaurant Spoerri. I funerali delle vittime di Piazza Fontana fotografati da Ugo Mulas. Christo che impacchetta il monumento a Vittorio Emanuele II in Piazza Duomo. I ritratti fotografici di Carla Cerati che descrivono altri funerali, i processi più celebri, i personaggi più paradigmatici. L’Orlando Furioso messo in scena da Ronconi in mezzo al pubblico assiepato in piedi. Le superfici acriliche e asettiche di Enrico Castellani. Bernd e Hilla Becher che fotografando gasometri, torri d’acqua e fornaci mostrano tutta la bellezza urbana del paesaggio industriale, da Sironi in poi. John Cage al Teatro Lirico il 2 dicembre 1977. Cesare Colombo e Gianni Berengo Gardin che colgono Milano negli angoli e nei modi di esistere più suoi, mentre Gabriele Basilico si concentra sul proletariato giovanile che la abita. I raduni di questo proletariato, e di chi a proletario si atteggiava, documentati con le immagini e il sonoro. Il tardo e sterile surrealismo di Sergio Dangelo. L’intuizione della Révolution informatique di Simon Nora e Alain Minc. Il narcisismo di Emilio Isgrò che si celebra nella serie di attestati, firmati da lui e da altri, nei quali dichiara di non essere Emilio Isgrò. Le grandi tele colorate di Valerio Adami. Il grigio brechtiano di Emilio Tadini. I meravigliosi Segmenti in bronzo di Arnaldo Pomodoro. Gli Studi di anatomia di Giovanni Testori, espliciti sino al porno. Le metafore materiche di Alik Cavaliere.

Un’inquietudine che si autocelebra, questo è la mostra che Milano ha dedicato a se stessa nel tempo in cui pensava di cambiare il mondo mentre poi fu essa a cambiare, diventando la craxiana capitale della corruzione politica. E questo avvenne -triste a dirlo ma così fu- con la complicità attiva o rassegnata di non pochi fra coloro che volevano, o immaginavano di volere, la Rivoluzione.
Sorpresa-Scandalo-Normalità-Museizzazione. L’inevitabile ciclo di ogni avanguardia e sperimentazione ha in questa mostra una conferma quasi didascalica. La storia (il tempo) davvero tutto tritura, tutto immobilizza. Un Addio malinconico a un decennio che è fallito nelle sue speranze ma che ha vinto nella sua rassegnazione alla legge del più forte. Poiché la città non è riuscita a essere più forte delle banche, ha riconosciuto la loro forza e vi si è sottomessa. Eppure in questo suo quasi funebre autoricordare, Milano mostra di essere ancora la città più critica d’Italia. E questo è parte della sua grandezza, del suo dramma.

Estintori ed estinti

Qualche giorno fa in una scuola di Milano uno studente ha colpito con violenza il professore utilizzando un estintore, dopo aver innescato lui stesso un principio di incendio. Risultato: «quattro denti rotti, un trauma facciale e una contusione al ginocchio. […] Al momento —da parte della scuola e dello stesso insegnante— non sarebbe stata sporta nessuna denuncia alle forze dell’ordine. Solo una segnalazione al commissariato Lambrate da parte della preside, per un “episodio di intemperanza”. “È stata una bravata di un ragazzo che ha problemi di crescita e di esuberanza —spiega la preside, Clara Magistrelli, che ha in ogni caso sospeso l’alunno— si sentono piccoli geni incompresi, fanno scemenze in un’età molto difficile. E l’insegnante era solo intervenuto per placarlo, dimostrando senso civico e anche coraggio nell’affrontare con prontezza il problema. Quanto al ragazzo, dobbiamo tutelare chi è in difficoltà. Non abbiamo alcuna intenzione di allontanarlo dalla scuola o di prendere provvedimenti che possano danneggiarlo. Un atteggiamento inutilmente vendicativo non servirebbe a nessuno”».
I particolari della vicenda non sembrano legittimare simili giustificazionismi socio-psicologici e ricordano piuttosto le parole con le quali Pasolini mostrava ancora una volta la propria intelligenza del mondo: i ragazzi «sono regrediti -sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita- a una rozzezza primitiva […] lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare» (Lettere luterane, Einaudi 1976, pp. 8-9). Lasciati a se stessi dalla vigliaccheria dei genitori e degli altri presunti educatori, troppi adolescenti sono diventati un settore della società fra i più violenti e conformisti, pervaso da una crudeltà gratuita e giocosa, da un’arroganza teppistica. Il nulla televisivo del quale si nutrono ossessivamente sin dalla loro nascita sembra ormai penetrato nel nulla dei loro cervelli.
I giustificazionismi d’accatto di fronte a un gravissimo episodio di violenza legittimano altri studenti a compiere azioni analoghe o ancora più gravi. In attesa che l’“intemperanza” arrivi sino all’omicidio, a essere estinta è in ogni caso la scuola.

 

Dissolvenze

Museo del Novecento
Milano

Milano, una sera d’estate. Guardo il cielo che offre a occidente gli ultimi bagliori turchesi. Guardo questa luce che si incunea tra i campanili, i palazzi, le guglie del Duomo. La osservo dai piani più alti del nuovo Museo del Novecento, dalla sua terrazza che offre in tutto il suo splendore la visione del cuore della città. L’Arengario, che sta accanto al Palazzo Reale e alla sinistra del grande tempio, è stato ristrutturato a fondo dagli architetti Italo Rota e Fabio Fornasari, che hanno creato una struttura elicolidale che conduce dalla metropolitana e dalla piazza ai piani espositivi, dai quali le grandi vetrate permettono alla luce e alla città di entrare nel Museo. Davvero molto bello, semplice e funzionale.

Nel Museo hanno finalmente trovato sede le collezioni di arte del Novecento e contemporanea di proprietà del Comune di Milano, in particolare quella donata dai coniugi Jucker. Dopo aver percorso la spirale, si viene accolti dal magnifico Quarto Stato di Pelizza da Volpedo (1901), un omaggio divisionista e raffinato al proletariato ma anche alla Scuola di Atene di Raffaello. Si arriva poi alla prima sala che contiene alcuni -pochi- dipinti dei grandi maestri europei del Novecento: Braque, Kandinskij, Picasso, Modigliani, Mondrian, Matisse, Klee.

Inizia così il lungo percorso che dal Futurismo -soprattutto i capolavori pittorici e plastici di Boccioni- attraverso l’esperienza di Novecento, lo Spazialismo, l’Informale, l’Astrattismo, la pittura analitica, l’arte povera, conduce sino al presente. Dopo la prima sala il Museo ospita solo artisti italiani ma certamente ci sono tutti i più importanti e ha poco senso fare dei nomi (segnalo soltanto lo spazio giustamente particolare che viene dato a Lucio Fontana nel piano più alto dell’edificio).

Piuttosto, va ribadita una verità banale ma non per questo meno significativa a proposito della relatività di concetti quali Tradizione, Avanguardia, Moderno. Il percorso testimonia efficacemente infatti, anche per la sua dimensione relativamente contenuta, come le espressioni che in un certo momento appaiono innovative sino alla provocazione -Futurismo, Cubismo, i Concetti spaziali di Fontana, i Corpi d’aria di Manzoni- col passare del tempo diventino dei classici, sostituiti nella loro funzione provocatoria da altre innovazioni che si trasformeranno anch’esse in paradigmi tranquillamente accettati da tutti. Anche per questo nell’ambito artistico -e, in generale, in quello culturale- non hanno alcun senso il tradizionalismo e il rimanere ancorati a stilemi e a forme come se essi costituissero la vera arte, la vera letteratura, la vera filosofia, il vero teatro, la vera musica. Se c’è un carattere che accomuna l’intensa e istruttiva esperienza estetica che questo Museo fa vivere, è proprio il dinamismo della vita individuale e collettiva, che si riflette ed esprime nell’incessante innovazione di ciò che chiamiamo arte.

E poi un’altra verità, altrettanto ovvia ma anch’essa significativa. Mano a mano che si procede nel Novecento e nel presente le figure si diradano, il realismo si sbriciola, le forme si dissolvono, l’opera coincide sempre più con il semplice materiale di cui è fatta, come è evidente in Fontana, nel grande Alberto Burri, nella sabbia di Giulio Turcato, nelle tele non lavorate di Giorgio Griffa, nella straordinaria Superficie magnetica di Davide Boriani -opera che in nessun istante è uguale a se stessa-, negli ambienti in cui si entra per vivere con l’intero corpo delle esperienze visuali/percettive (ancora Boriani, Giovanni Anceschi, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Luciano Fabro), nell’imponente libreria dal titolo Scultura d’ombra di Claudio Parmiggiani, l’opera più recente tra quelle esposte (2010), fatta di fumo e di fuliggine (davvero, non è una metafora). E tutto questo testimonia -al di là di ogni ingenuo realismo delle filosofie classiche ma anche di alcune loro riproposizioni nel presente- che la mente umana vede forme e figure là dove ci sono soltanto macchie di colore e ammassi di atomi, testimonia che la Gestalt e quindi il senso non stanno nella materia ma nell’occhio che la guarda.

Milano, Napoli, la speranza

Sono felice che una delle mie due città si sia finalmente liberata da vent’anni di tristezza, di incapacità amministrativa, di rapina del territorio, di esclusione, di arroganza. E sono felice anche per Napoli, un luogo che amo molto, capace di sorprendere sempre, come ha fatto in questa occasione eleggendo un magistrato contro chi per ottenere qualche voto prometteva impunità sulle costruzioni abusive. Vorrei far parlare delle amiche, una milanese e l’altra napoletana, che ieri mi hanno inviato due sms: «Sono felice per l’affermazione di Pisapia anche se al primo turno ho scelto il mov. [5 stelle]. A Napoli poi la cosa è incredibile, quasi commovente»; «Sono commossa…da tempo non vedevo nulla, più nulla. Questa napoletana abbraccia il milanese adottivo [proveniente da ] un sud di cui essere orgogliosa».

Due donne che non si conoscono tra di loro hanno utilizzato la medesima parola, «commozione», come quando si esce in modo insperato da una lunga malattia e si rivede qualche frammento di futuro. Queste amiche sono delle cittadine che cercano di pensare e di capire, simili alle tante persone che hanno affollato le piazze di Milano e di Napoli per festeggiare non l’illusione di una vittoria risolutrice dei problemi ma l’inizio delle condizioni minime per poterli affrontare. Ed è questo la speranza: poter cominciare ad agire per fare della decenza e della misura i criteri delle azioni. Non so come amministreranno Pisapia e De Magistris di fronte alle enormi difficoltà di una ricostruzione dalle macerie civili e sociali delle due città. Temo, ad esempio, che Pisapia non avrà la forza e le intenzioni di ridimensionare l’enorme sperpero di danaro e di spazio che è l’Expo milanese, il cui unico risultato è stato sinora la moltiplicazione del cemento.  Sono però certo che governeranno senza volgarità, che tenteranno una politica normale, fatta anche di limiti, errori, compromessi, ma non una politica criminale come quella che invece è ancora al comando della nazione.

 

27.972

Sono contento che la mia città cominci a liberarsi dalla malia e dal carisma di un vecchio pazzo e ritorni alla misura della politica evitando l’estremismo paranoide di un caso umano, un caso clinico. Candidandosi anche come “consigliere comunale di Milano” allo scopo di attirare i poveri di spirito, Berlusconi aveva dichiarato che «se alle prossime elezioni prendo meno di 53mila preferenze – tutta la sinistra mi fa il funerale. Funerali in tutte le piazze» [Fonte: la Repubblica; qui il video del bauscia]. Tale funerale è in atto, dato che questo tizio è passato dalle 52.577 preferenze delle precedenti elezioni comunali alle 27.972 di oggi.

Numerosi sono dunque i motivi di soddisfazione dopo la prima fase della tornata elettorale -il clamoroso 48 % di Giuliano Pisapia a Milano, l’affermazione a Napoli di De Magistris anche rispetto al candidato del PD, il Movimento 5 stelle terzo partito nelle città più importanti, il calo generalizzato della Lega in tutto il Nord d’Italia- ma è il dato numerico riguardante le preferenze personali di Berlusconi il più significativo dal punto di vista simbolico, punto di vista che nella società dello spettacolo è il più importante di tutti.

 

Arcimboldo

Palazzo Reale – Milano
A cura di Sylvia Ferino-Pagden
Sino al 22 maggio 2011

Nei modi suoi propri -e quindi palesi, visibili, materici- l’arte figurativa è sempre stata compagna delle grandi narrazioni filosofiche, religiose, scientifiche. C’è un artista che di sé e della propria opera ha fatto un’espressione tra le più riuscite e originali di questo incrocio di forme estetiche e concettuali: Arcimboldo.

La recensione continua su Vita pensata 11 – Maggio 2011

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