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Moralismo sentimentale

L’intrepido
di Gianni Amelio
Con: Antonio Albanese (Antonio Pane), Livia Rossi (Lucia), Gabriele Rendina (Ivo), Alfonso Santagata, Sandra Ceccarelli
Italia, 2013
Trailer del film

Antonio è un disoccupato che lavora. Fa, infatti, “il rimpiazzo”. Sostituisce qualcuno che per qualche ora o qualche giorno si allontana dal lavoro. È pagato poco e male -in pratica viene sfruttato dal finto amico che gli procura i rimpiazzi- ma lo fa per dare un senso alle proprie giornate. Di cognome si chiama Pane e, in effetti, è “buono come il pane”, sempre pronto a dare una mano a chi magari economicamente sta meglio di lui ma si trova con l’anima disperata. La moglie lo ha lasciato, il figlio suona il sassofono e qualche volta gli fa da padre, si innamora di una ragazza alla quale ha passato il compito durante un concorso. Ma andrà malissimo.
Un film intimista, senza nessuna epica. Un film monotono. Milano, dove tutto accade, appare come un luogo triste sino al lugubre, mentre invece è una città bellissima e vivace. Un pessimo film fatto di ondate sentimental-moralistiche davvero eccessive.

 

Dato / Significato

Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo
Palazzo Reale – Milano
A cura di Denis Curti
Sino all‘8 settembre 2013

180 fotografie scelte dall’autore tra un milione e mezzo di scatti. Immagini catalogate e divise in Gente di Milano, Morire di classe -sui manicomi che rinchiudevano i soggetti sociali più deboli-, Dentro le case, Venezia -amatissima dal fotografo-, Comunità romanì in Italia -la vita degli zingari nei loro campi-, I baciLavoro, Fede Religiosità Riti. Gli anni Settanta nella città lombarda sembrano sfilare davanti ai nostri occhi con tutta la loro ingenua radicalità; tra i ritratti sono assai espressivi quelli di Ugo Mulas e Gabriele Basilico, colleghi di Berengo Gardin; dappertutto, nei baci nelle automobili nei canti, si sente una profonda pietà per gli umani, per l’effimero triste che siamo.
In una conversazione con Giusy Randazzo (Gente di fotografia, numero 56, pp. 94-99) Berengo Gardin afferma che non si sente un artista ma un fotografo. Non per modestia ma, al contrario, perché convinto della specificità e forse della superiorità della fotografia sulle altre arti figurative. Tra i pittori, Berengo afferma di preferire gli astrattisti e in particolare Mondrian. In un’immagine della sezione della mostra dedicata al lavoro –Osaka del 1993- mi è parso di ritrovare la purezza formale di quell’artista. Di fronte alla convinzione di Berengo Gardin che «la macchina fotografica serve per fare foto di documentazione», per dare conto della “realtà”, gli si potrebbe obiettare che quando dei fotografi o non fotografi «guardano qualcosa non stanno riproducendo la realtà ma qualcosa che è sempre filtrato dalla loro mente» e che la cosiddetta realtà è a colori mentre la sua opera è rigorosamente in bianco e nero, affinché chi osserva non venga distratto da altro che non sia il contenuto dell’immagine. La verità è che il mondo è nell’occhio di chi guarda. La sensibilità di Berengo Gardin verso l’accadere è talmente alta che dal suo osservare il flusso -e fermarlo in un istante- non emerge alcuna “documentazione” ma splende, semmai, il significato delle relazioni umane. Non il dato ma proprio il significato.

 

Splendente agli interstizi

Arnaldo Pomodoro. Opere 1954-1960
Una scrittura sconcertante
Fondazione Arnaldo Pomodoro – Milano
A cura di Flaminio Gualdoni
Sino al 28 giugno 2013

Sin dall’inizio l’opera di Arnaldo Pomodoro ha spezzato la bidimensionalità della tela per farsi forma complessa nello spazio. È in questo che consiste soprattutto la «scrittura sconcertante» degli anni Cinquanta, diventata poi il segno inconfondibile delle sfere, dei coni, dei cilindri, delle strutture geometriche con le quali la materia più pesante e densa acquista la leggerezza del pensiero. Nel luogo dove Pomodoro abita e lavora da decenni, in uno dei quartieri più autentici e suggestivi di Milano, è possibile toccare con gli occhi i giardini d’argento mobili nello spazio, con soli e lune splendenti agli interstizi; architetture di una arcaica fantascienza nelle quali il pieno e il vuoto disegnano un abitare che non conosciamo ma verso cui sembra ci sospinga il desiderio. Si torna là dove scaturisce la forza della visione e di ogni altro percepire, in quelle geometrie dal gelo appassionato dentro le quali il bíos gorgogliante della carne diviene figura comprensibile alla mente. Nulla sta fermo sulla superficie che diventa luogo e invenzione dell’ingegno, forma frattale che si apre sul niente e di pienezza lo riempie.

 

Jannacci

Qualche tempo fa avevo inserito in questo spazio la splendida interpretazione che Enzo Jannacci ha dato di Bartali. Non è stato facile, ora, scegliere un brano di questo artista. Tutti hanno qualcosa di speciale. Dalla celebre Vengo anch’io, no tu no! alla medioevale Ho visto un re (composta con Dario Fo); da Faceva il palo -intrisa di termini milanesi quali ghisa (vigile urbano), cariba (carabinieri), ciula, bamba, pistola (tutti a indicare uno sciocco)- alla quasi programmatica L’Armando, sino al capolavoro E la vita la vita, magnifico manifesto della leggerezza.
Alla fine ho scelto una canzone forse meno conosciuta ma nella quale si esprime in modo paradigmatico il lessico surreale di Jannacci, il suo perenne gioco linguistico. In Silvano (1974) la musica sta dovunque, anche nelle parole e non soltanto nelle note. Un trionfo del più puro rock & roll.

[audio:Jannacci_Silvano.mp3]

 

 

 

 

 

 

Costantino, l’intollerante

Costantino 313 d.C.
Palazzo Reale – Milano
A cura di Gemma Sena Chiesa e Paolo Biscottini
Sino al 24 marzo 2013

La Milano tardo antica era una magnifica città, capitale dell’Impero romano d’Occidente dal 286 al 402. Le tracce ancora visibili di questa fase della sua storia non sono molte ma quelle che rimangono sono imponenti e si riferiscono soprattutto al IV secolo, al periodo in cui il culto cristiano venne prima autorizzato -nel 313 appunto, con l’Editto emanato a Milano da Costantino- e poi reso esclusivo.
Costantino e sua madre Elena ebbero l’abilità e l’accortezza di comprendere quanto sarebbe stato assai  più utile associare i cristiani al potere imperiale invece che insistere affinché riconoscessero la divinità dell’imperatore. Da allora fu un crescendo di accordi politici, militari, culturali, sino alla pratica di una violenta intolleranza non soltanto contro i pagani ma anche contro le correnti teologiche cristiane diverse da quella sostenuta dall’imperatore. Il Credo che i papisti recitano la domenica -profondo e potente testo teologico e letterario- fu sollecitato e approvato nel 325 da Costantino, imperatore che perseguitò con le armi e i tribunali quanti non condivisero quell’atto di fede, arrivando a comminare la pena di morte a coloro che, ad esempio, avessero semplicemente letto i libri di Ario.
Poi i suoi successori privarono dei diritti e perseguitarono quanti non erano disposti a farsi cristiani. Nel 356 Costanzo II fa chiudere i templi pagani e ne sequestra i beni. Nel 380 Teodosio dichiara il cristianesimo religione di Stato e nel 391, infine, proibisce ogni culto pagano. Il sottotitolo della mostra –L’Editto di Milano e il tempo della tolleranza– risulta dunque decisamente sviante e ideologico. Significativo è che nei recenti scavi di Piazza Meda a Milano si siano trovati oggetti «che testimoniano la convivenza di temi cristiani e pagani» ma tra le strutture murarie della Chiesa Rossa (sempre a Milano) emerge una testa dell’imperatore Tiberio quasi del tutto seppellita e utilizzata soltanto come materiale dell’edificio cristiano.
Nei primi secoli della loro era i cristiani non adottarono il simbolo della croce -assolutamente infamante- ma il Krismon, formato da due lettere dell’alfabeto greco tra di loro incrociate e indicanti il nome di Cristo, accompagnate dall’alfa e dall’omega. Il risultato grafico è più vicino al simbolo pagano del Sol invictus, così come la scelta del 25 dicembre per ricordare la nascita del dio dei cristiani, data nella quale i romani celebravano il Sole che rinasceva.
Soltanto in un pannello della mostra si ammette che «serie limitazioni al paganesimo» furono introdotte alla fine del IV secolo «quando venne stabilita per legge la sua impraticabilità». Un linguaggio piuttosto eufemistico mentre per i cristiani prima del 313 si utilizzano di continuo termini come “persecuzione”, “martirio”, “ferocia”. Altre notizie storiche su quanto i cristiani attuarono contro i pagani si possono trovare in un articolo di Elio Rindone, il quale scrive che «la manipolazione della storia non implica la necessità di dire il falso, perché basta evidenziare un dato e tacerne un altro». La menzogna dei vincitori, come si vede, può durare millenni. E proseguire.

Gadda, l’incendiario

Teatro Franco Parenti – Milano
Il racconto dell’incendio di via Keplero
di Carlo Emilio Gadda
Con Anna Nogara
Percussioni Marco Scazzetta
Produzione Teatro Franco Parenti
Dall’1 al 10 febbraio 2013

«Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la lor prole globale…».
Al futurista Marinetti no ma a Gadda sì. A lui riesce di racchiudere in un incendio improvviso i caratteri, le psicologie, le storie, i progetti, le vanità, le disperazioni, la malinconia, il Wille zum Leben, la dolente e totale volontà di vivere che accomuna i mortali. Si precipitano tutti verso la salvezza, signore ingioiellate, prestanti garzoni di muratori, ladri trasformatisi in eroi, vecchi garibaldini immedagliati, ubriaconi solitari, bambini piangenti e pappagalli sconvolti.
Come uno dei personaggi «ingiovannava la tromba delle scale» per chiamare e salvare un suo amico, così Anna Nogara ha “ingaddato” lo spazio teatrale con una recitazione che dell’espressionista e strabiliante racconto ha restituito il pathos, l’ironia, il divertimento, l’antropologia, la bellezza.

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