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Eleusi. Una negazione

Piccolo Teatro – Milano
Eleusi
di Davide Enia
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
10-11 giugno 2023

Dalle ore 21.00 del 10 giugno 2023 alle ore 21.00 del giorno successivo in due delle sedi del Piccolo Teatro di Milano è andata in scena una recitazione collettiva che ha visto al Teatro Studio l’alternarsi di 32 cori mentre una voce registrata raccontava fatti di violenza, senza nomi di persone e di luoghi ma assai probabilmente riferiti ai viaggi dei migranti dall’Africa del Nord all’Europa; al Teatro Grassi a ogni inizio d’ora e per una ventina di minuti sono stati messi in scena alcuni brevi testi dedicati a violenze, torture, sottomissioni.
Che cosa c’entra una simile operazione con il titolo Eleusi? Che cosa hanno a che fare le espressioni della ὕβρις contemporanea con il rito greco? Nulla, non hanno in comune nulla.
I Greci non erano moralmente buoni ma antropologicamente disincantati. I Greci non erano misericordiosi ma feroci. I Greci non erano accoglienti: l’ospite per loro è sacro come individuo, non certo come masse di popolazioni, all’arrivo delle quali rispondevano ovviamente con le armi. I Greci non erano sentimentali ma leggevano gli eventi alla luce del cosmo; il Timeo è una delle più profonde testimonianze di questo atteggiamento ma è l’intera cultura greca a esserne pervasa. I Greci, in una parola, non hanno nulla a che fare con le miserie, la viltà, le ipocrisie, il conformismo e la sottomissione che intridono le società contemporanee e che emergono in modo evidente in operazioni come questa realizzata dal Piccolo Teatro. Il quale è transitato negli ultimi anni da Brecht e da un progetto di emancipazione  politica a una pressoché completa omologazione alle mode morali del presente.
I testi letti mentre i cori cantavano tendono, nella loro crudeltà, a suscitare emozione e, probabilmente, a convincere che i migranti vanno accolti tutti. Ma è proprio questa stolta convinzione una delle principali cause delle crudeltà subite dai migranti. Ne ho parlato in passato anche in questo stesso sito sulla base di testi scientifici ben documentati, come ad esempio l’indagine di grande valore dal titolo La ruée vers l’Europe. La jeune Afrique en route pour le Vieux Continent (Grasset, Paris 2018, tradotta in italiano da Einaudi).
A favorire violenza, annegati e morti sono le ONG che dispongono di grandi risorse finanziarie (provenienti da dove?), che con un sistema di collegamenti satellitari conoscono le rotte delle imbarcazioni prima ancora che esse si mettano in mare, che sono complici degli scafisti, dei trafficanti di persone umane; ONG che sono una delle espressioni contemporanee del colonialismo e dello schiavismo che depauperano il continente africano del ceto medio (i più ‘poveri’ non hanno neppure i soldi per tentare il viaggio) e producono conflitti etnici in Europa. Quei conflitti che poi le stesse ONG e i cittadini ‘solidali, inclusivi e accoglienti’ denunciano con la parola-grimaldello razzismo. A essere ‘razzisti’ sono coloro che ritengono l’Africa un luogo di inferiorità culturale dal quale fuggire. Il colonialismo ha molte forme e le ONG ‘in soccorso dei migranti’ sono una di esse. Più in generale è in atto – mediante televisione, giornali, teatri, social network- una tendenza alla semplificazione emotiva e sentimentale di complessi problemi sociali e politici il cui esito è l’aggravarsi di tali problemi.
Al contrario, se si vuole fare lo sforzo di capire al di là dello spettacolo emotivo, il flusso senza interruzioni di migranti dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa conferma le tesi marxiste a proposito dell’«esercito industriale di riserva», la cui disponibilità serve ad abbassare i salari e a incrementare il plusvalore: «Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial]» (Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4).
Ma perché porre questa propaganda a favore della globalizzazione capitalistica sotto il titolo Eleusi? Una risposta superficiale consiste nel ritenere che chi ha scelto il titolo non sappia nulla di Eleusi e della società greca o che abbia cercato di trovare un titolo che funga da tipico ‘specchietto per le allodole’. Una risposta forse più profonda potrebbe far riferimento al bisogno di nobilitare la violenza contemporanea ponendola sotto l’egida di una civiltà che viene inconsciamente percepita come superiore. Ma proprio per questo i Greci non possono essere strumentalizzati nel modo sfacciato e miserabile di Eleusi.
«Come a Eleusi, così a Samotracia, Dioniso è dio segreto dei Misteri» (Angelo Tonelli, Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia antica , Feltrinelli 2021, p. 292) durante i quali si venera anche il fallo e ci si immerge in un rito di iniziazione nient’affatto ‘inclusivo’ ma riservato a pochi. In La sapienza greca Giorgio Colli scrive infatti che «l’accesso al peribolo sacro di Eleusi era proibito ai non iniziati, a costo di pene gravissime», un brano citato nel programma di sala (p. 37), così come altri testi (di Mircea Eliade, ad esempio) che però non hanno alcun collegamento con questa operazione teatrale e anzi ne rappresentano la negazione.
I misteri di Eleusi erano volti a rendere l’umano una sola cosa con Γῆ e con Demetra, con la Madre Terra e con il suo perenne rinascere. Che cosa ha a che fare tutto questo con la dismisura contemporanea delle azioni e dei sentimenti? La motivazione data da Davide Enia è la seguente: «Si chiama Eleusi, perché, nell’antica Grecia, quella era la città dove ci si recava in pellegrinaggio rituale, e anche qui ci si sposta tra un teatro e l’altro per accostarsi a un “mistero”» (programma di sala, p. 7). Una motivazione inaccettabile nella sua pura esteriorità analogica. Che lascino in pace i Greci, una buona volta, e chiamino le loro operazioni intrise di ‘accoglienza’ con i nomi contemporanei del dominio e della menzogna.

Due minuti

Most Beautiful Island
di Ana Asensio
USA, 2017
Con: Ana Asensio (Luciana), Natasha Romanova (Olga)
Trailer del film

«La più bella delle isole» è Manhattan, dove Luciana è arrivata dalla Spagna alla ricerca, come tanti migranti in quelle terre, di fortuna. Svolge lavori saltuari e frustranti sino a che una collega russa non le propone un lavoro facile e remunerativo: indossare un abito nero, scarpe con i tacchi a spillo e partecipare a un party. Arrivare al luogo di destinazione non è però semplice. Luciana è indirizzata a un ristorante cinese dove le danno una borsetta sigillata, unico oggetto ammesso al party. Poi si trasferisce in un’altra zona di New York e qui attraversa scale e cantine prima di arrivare a uno spazio dove trova altre donne vestite come lei e tutte con la medesima borsetta. Ogni ragazza è contrassegnata da un numero. Prima che accada tutto questo, Luciana guarda la città dalla finestra del suo mal messo appartamento. Si fa un bagno e scrostando un poco la parete vede uscire dal muro tanti insettini piuttosto repellenti. Ne incontrerà altri. Il suo sogno è affidato a un aeroplanino di carta che lancia dalla finestra e sul quale ha scritto, appunto, «most beautiful island».
Ana Asensio è la protagonista e la regista di un film asciutto, colmo di emotività e insieme di distanza – significative le riprese iniziali dall’alto di luoghi affollati -, dove le vite degli umani, i loro progetti, la loro angoscia sembrano una cosa sola con le strade, i muri, i recinti, le porte. L’elemento vivo è anche il più pericoloso. All’inizio del film si legge: «Ispirato a una storia vera». Eh sì.
«Als Gregor Samsa eines Morgens aus unruhigen Träumen erwachte, fand er sich in seinem Bett zu einem ungeheueren Ungeziefer verwandelt. ‘Destandosi da sogni inquieti, una mattina Gregor Samsa si ritrovò nel suo letto mutato in un mostruoso insetto’» (Kafka, Die Verwandlung, La metamorfosi).

Islam

Differenze
Oltre il politicamente corretto
in Dialoghi Mediterranei
Numero 52, novembre-dicembre 2021
Pagine 373-384

Indice
-Premessa
-Le tesi di Ciccozzi
-Razzismi e altro
-La guerra giusta
-Il tramonto di Westfalia e l’emergere del terrore
-Potere, informazione, globalizzazione
Migranti. Un’analisi sociologica
-Identità e Differenza

Per 11 anni ho insegnato Sociologia della cultura nel Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict. Essendomi stato affidato un nuovo insegnamento nel corso magistrale di Scienze filosofiche, ho dovuto rinunciare a insegnare SdC nel corso triennale di Filosofia. Devo dire che mi dispiace perché ho trovato degli studenti sempre assai coinvolti nelle tematiche che ho loro proposto e perché insegnando sociologia ho imparato (a cercare di) osservare i fatti sociali con il maggior rigore possibile e con il necessario distacco scientifico.
Il testo uscito sul numero 52 di Dialoghi Mediterranei nasce dal confronto con un saggio di Antonello Ciccozzi dedicato al tema complesso e delicato del rapporto tra cultura e costumi europei e cultura e costumi islamici. Un saggio secondo me illuminante, a partire dal quale ho tentato di delineare altri aspetti del rapporto tra la civiltà europea e la civiltà musulmana, con riferimenti alle questioni razziali, alla geopolitica, al diritto pubblico europeo nato con le paci di Westfalia (1648). Credo infatti che solo alla luce della vicenda secolare del Mediterraneo si possano comprendere le potenzialità di arricchimento e gli insuperabili limiti del rapporto con le ondate migratorie provenienti dai Paesi islamici. Mi auguro insomma che questo testo, anche se breve, possa testimoniare la fecondità di una prospettiva sociologico-filosofica con la quale leggere i fenomeni più profondi della storia contemporanea.

La terra ospitale

Qualche anno fa, nel 2015, avevo assistito a una messa in scena delle Supplici al Teatro Greco di Siracusa, con la regia di Moni Ovadia e le musiche di Mario Incudine. Una messa in scena scadente, che nulla aveva a che fare con Eschilo. La conferma di un giudizio così duro viene dalla lettura della tragedia con la guida filologica ed ermeneutica di Monica Centanni. Emergono infatti da tale lettura i controsensi di una interpretazione umanistica, attualizzante ed eticamente virata verso l’accoglienza. Nulla in Eschilo c’è che giustifichi una simile interpretazione. Nel mondo greco «l’esilio è considerato una condizione peggiore della morte, perché esclude l’uomo dal suo habitat privilegiato -la città– e lo priva dello statuto di cittadino, necessario al riconoscimento della sua identità»1.
Le cinquanta figlie di Danao che giungono ad Argo in compagnia del loro padre allo scopo di fuggire alle nozze coatte con i cinquanta cugini figli di Egitto scelgono Argo perché sono discendenti di Io, la principessa argiva amata da Zeus, perseguitata da Era, madre di Epafo, generato in Egitto e loro antenato. Queste ragazze sono quindi parenti dei cittadini ai quali ora chiedono protezione e rifugio. Le Danaidi non sono straniere nel significato odierno della parola. E non rivendicano neppure diritti in quanto donne ma in quanto supplici dell’altare di Zeus, loro avo. Non è affatto la stessa cosa, tanto è vero che esse ribadiscono il fatto che «γυνὴ μονωθεῖσ᾽ οὐδέν una donna da sola non è niente» (v. 749, p. 260) e a proposito dei figli di Egitto arrivati ad Argo per rapirle usano espressioni ‘razziste’ come «μελαγχίμῳ σὺν στρατῷ; un esercito di pelle nera» fatto di «ἐξῶλές  μάργον; maledetti e pazzi» (v. 741, p. 258).
A questi neri pazzi e maledetti Pelasgo, re di Argo che ha deciso di acconsentire alle suppliche delle ragazze, si rivolge con parole assai poco ‘accoglienti’, come queste: «οὐ γὰρ ξενοῦμαι τοὺς θεῶν συλήτορας; io non sono ospitale con chi depreda gli dèi» (v. 927, p. 274).
Per i Greci prima vengono gli dèi e poi gli umani, qualunque umano. Per tutti loro infatti i mali sono e rimangono molteplici e variegati «πόνου δ᾽ ἴδοις ἂν οὐδαμοῦ ταὐτὸν πτερόν; e non vedrai mai gli stessi colori sulle ali del dolore» (v. 329, p. 228). Anche per questo non c’è nulla di ‘umanistico’ negli Elleni.
E si potrebbe continuare nell’analisi testuale che conferma l’insipienza di ogni attribuzione ai Greci di sentimenti e sentimentalismi tipicamente moderni e postcristiani. E questo anche sul fondamento di una antropologia del limite per la quale «παν απονον δαιμόνιον; senza sforzo avviene ogni atto divino» e Zeus «ἰάπτει δ᾽ ἐλπίδων / ἀφ᾽ ὑψιπύργων πανώλεις; getta giù dall’alta torre / delle loro speranze i miseri mortali» (vv. 100 e 96-97, p. 212).
Ospitale verso le loro preghiere è a volte Zeus, inospitale altre volte. C’è invece un dio, fratello di Zeus, che tra le divinità è il più ospitale di tutti, «τὸν γάιον, τὸν πολυξενώτατον; Ade, dio della terra e signore della morte; Ζῆνα τῶν κεκμηκότων» (vv. 156-157, p. 214).
Altre divinità presenti, temute e onorate in questa tragedia -insieme a Zeus «δι᾽ αἰῶνος κρέων ἀπαύστου; signore del tempo infinito» (v. 574, p. 248)– sono Ares e Afrodite. Ares, da tutti temuto, dio senza danze e senza musica, padre del pianto –«ἄχορον ἀκίθαριν δακρυογόνον Ἄρη» (v. 681, p. 254). Afrodite il cui nome appare alla fine ad ammonire le ragazze dei rischi che corrono coloro che ne trascurano il culto, coloro che si chiudono alla potenza erotica della vita, al desiderio: «Kύπριδος δ᾽ οὐκ ἀμελεῖ θεσμὸς ὅδ᾽ εὔφρων / δύναται γὰρ Διὸς ἄγχιστα σὺν Ἥρᾳ; Ma neppure Cipride devi trascurare, in questo canto propiziatorio: / è potente, è la più vicina a Zeus, insieme a Era» (vv.1034-1035, p. 280). Tutti gli dèi, in ogni caso, vanno tenuti in conto, onorati dentro la persona umana che di loro è fatta, intrisa, mescolata.
È questo uno dei significati e degli scopi universali della tragedia greca, dell’intero mondo ellenico: che equilibrio, misura, distanza e rispetto siano dovuti in primo luogo agli dèi. Uno dei princìpi apollinei che risuonano a Delfi stabilisce: «τὰ θεῶν μηδὲν ἀγάζειν; Verso gli dèi, mai nessun eccesso» (v. 1061, p. 282).
Ἱκέτιδες non è una tragedia di argomento sociale o morale, è una teologia, come sempre per i Greci.

Nota
1. Monica Centanni in Eschilo, Supplici (Ἱκέτιδες, 463 a.e.v.), Le tragedie, p. 854.
Traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori, Milano 20133, pagine LXXXII-1245. Le citazioni da Supplici saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti da quelli della pagina dell’edizione Meridiani.

[L’immagine del grande teatro di Argo fu scattata da me alcuni anni fa. Micene e Argo costituiscono due dei luoghi dove ho meglio sentito la presenza del sacro]

 

Fame

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Furore
Dal romanzo di John Steinbeck
Ideazione e voce Massimo Popolizio
Adattamento Emanuele Trevi
Musiche eseguite dal vivo da Giovanni Lo Cascio
Produzione Compagnia Umberto Orsini / Teatro di Roma-Teatro Nazionale
Sino al 20 giugno 2021

The Grapes of Wrath, è il titolo del romanzo di John Steinbeck (1939). Un titolo biblico, naturalmente: «L’angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio» (Apocalisse, 14,20; traduzione CEI).
I grappoli dell’ira, dell’odio e del furore maturavano come frutto acre della polvere e della siccità, delle alluvioni e della catastrofe che colpirono negli anni Trenta del Novecento il cuore degli Stati Uniti d’America, spingendo masse di contadini rovinate e miserabili verso il sogno della California. Dove trovarono «prima compassione, poi disgusto, infine odio», trovarono altra miseria. L’ira, l’odio, il furore furono tuttavia il frutto amaro non della natura ma del capitalismo. Furono infatti le banche ad accaparrarsi le terre espellendo i contadini; furono i mercati a distruggere quantità enormi di frutta e ortaggi in California proprio mentre i contadini morivano di fame; furono i proprietari terrieri e immobiliari a diffondere volantini invitando i contadini ad andare in California, in modo da abbattere i salari e trasformare i vecchi e nuovi lavoratori in schiavi. Non la polvere e le bufere ma l’esercito industriale di riserva produsse la rovina, l’odio, il furore. Una lezione marxiana che i sedicenti ‘progressisti’ non imparano mai, auspicando oggi l’arrivo in Europa di lavoratori dall’Africa e dal Vicino Oriente, disposti a qualunque salario pur di giungere e rimanere, rovinando in questo modo i lavoratori europei e moltiplicando i profitti delle piccole e grandi aziende. Il capitalismo è borderless, è senza patria, è senza confini. Come senza limiti è la rovina prodotta dai buoni sentimenti che ignorano la complessità delle strutture antropologiche e politiche delle società umane.
Nel caso dei contadini americani, poi, si vide all’opera anche la potenza della Nέμεσις contro i contadini bianchi e protestanti che avevano sterminato i pellerossa distruggendo le loro vite, cancellando le loro culture, appropriandosi delle terre che poi le banche sottrassero loro.
Il frutto di tutto questo male -del genocidio, dell’avidità, del capitalismo- fu la fame, semplicemente e orrendamente la fame. Che la vocalità, le posture, gli sguardi, le pause, i toni di Massimo Popolizio e le percussioni di Giovanni Lo Cascio restituiscono nelle sue radici antiche, nella sua immediata potenza, nella sua estensione a ogni attimo della vita e del tempo. La fame che arriva con la polvere; che arriva con i trattori delle banche che spianano le terre e persino le case dei contadini; che arriva con i falò delle masserizie abbandonate; che arriva con le automobili incolonnate lungo la Route 66 (Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, Arizona, California); che arriva con le stesse auto in panne, guaste, rabberciate, abbandonate; che arriva con i decreti (anche sanitari!) e i fucili delle autorità californiane; che arriva con la disperazione, come disperazione. La fame, la radice vera della storia umana come storia di mammiferi acculturati.
«How can you frighten a man whose hunger is not only in his own cramped stomach but in the wretched bellies of his children? You can’t scare him – he has known a fear beyond every other».
(The Grapes of Wrath, The Modern Library, New York 1939, cap. 19, p. 323)

La libertà e i suoi nemici

In nome dell’epidemia da Sars2, dell’ossessione sanitaria e securitaria, delle lusinghe e delle minacce che le autorità rivolgono al corpo collettivo, «vegetare sta diventando lʼimperativo categorico del Terzo millennio» (Marco Tarchi, Diorama Letterario, n. 358, novembre-dicembre 2020, p. 2). Vegetare non soltanto nel senso di trascinare stancamente il proprio tempo da un ‘seminario online’ (webinar) all’altro, da un ‘abbraccio a distanza’ all’altro, da una sessione di digital labour all’altra, ma anche nel seguire il flusso di una suscettibilità generale per la quale alcune parole non possono essere pronunciate ed è obbligatorio, invece, indignarsi per i fatti sui quali si indignano la stampa, la televisione, i Social Network.
Come in quell’Oceania realizzata che era il sistema sovietico, si delineano due livelli e luoghi diversi del discorso: il linguaggio pubblico che segue i dogmi del Politically Correct (pena come minimo l’ostracismo) e quello privato nel quale a pochi amici di fiducia si parla a partire da ciò che davvero si pensa. Autocensura, insomma, vale a dire uno dei segni più evidenti della mancanza di libertà, come ben sapeva Rosa Luxemburg, per la quale una vera autonomia è sempre «die Freiheit der Andersdenkendend», libertà di pensare in un altro modo rispetto a quello della maggioranza. A schiacciare questa libertà sta provvedendo «una società opaca ed inesorabile, che sottopone tutti ad un controllo totale della propria esistenza. […] Al posto del Grande Fratello del romanzo di Orwell, 1984, sembra esserci, anche e soprattuto nella mentalità, un impersonale termitaio, in cui la singola termite non ubbidisce  a un capo supremo, ma fa quello che deve e non può, né sa né vuole fare altro» (Claudio Magris, Corriere della Sera, 4.8.2020).
Un termitaio paradossale, fatto di individui atomizzati, distanziati, soli, «a un metro di distanza dalla vita» come ha scritto D. Un termitaio nel quale l’identità è dissolta nella differenza individualistica e le differenze sono dissolte in un’identità universale -l’Umanità– che non è mai esistita perché ogni essere umano viene al mondo da due ben precisi genitori, in uno specifico luogo, in un tempo dato, in un contesto culturale/antropico che ha i suoi paesaggi, lingua, vicende, modi di vivere, credenze, simboli. Le «Weapons of Mass Migration», ‘armi di migrazione di massa’ delle quali parla la politologa Kelly Greenhill sono rivolte alla deflagrazione dell’identità/differenza in un indistinto termitaio, appunto
In questo termitaio possono entrare in conflitto l’idea e le pratiche della presunta sacralità della persona da un lato e i diritti di ogni individuo a ottenere ciò che desidera dall’altro; tanto da creare un cortocircuito come quello ricordato da Michel Onfray nel suo Teoria della dittatura, a proposito della «donna del Nebraska», la quale «a sessantuno anni ha messo al mondo una bambina concepita con lo sperma del proprio figlio e l’ovulo della sorella della moglie di quest’ultimo» (Archimede Callaioli, DL, cit., p. 29). Per chi crede che la generazione di un essere umano abbia lo stesso significato biologico e ontologico della generazione di una rana, di un gabbiano, di un gattino, tutto questo può anche costituire una banale conferma del fatto che i viventi vengono concepiti dall’unione di sperma maschile e ovulo femminile e non hanno alcun particolare pregio. Ma per gli altri? Per chi, appunto, crede che l’umano abbia un valore e un significato del tutto diversi? È o no un diritto diventare genitori (se proprio lo si vuole a tutti i costi) anche attingendo a pratiche come quelle esemplate dalla donna del Nebraska? Naief Yehya ha mostrato che per quanto possano all’inizio apparire bioeticamente inaccettabili, pratiche come quella descritta vengono poi lentamente ma inesorabilmente accolte, soprattutto se hanno il sostegno di potenti centri di ricerca, mediante «un’accettazione graduale ma convinta» (Homo cyborg. Il corpo umano tra realtà e fantascienza, elèuthera 2004, pp. 104 e sgg.).
Un termitaio che non tollera l’emergere di intelligenze profonde e non omologate. Quando esse si affermano universalmente, si scatena un impressionante apparato di diffamazione. È il caso di Martin Heidegger, ogni parola del quale – pubblica o privata, metafisica o rettorale – viene dissezionata al microscopio della malignità.
Diversamente invece ci si comporta con altri. Due soli esempi.
Günter Grass (1927-2015) definì Heidegger «cagnaccio presocratico nazista», salvo poi confessare di aver militato nelle «Waffen-SS, come volontario e non coscritto […] ‘Il motivo fu – racconta lo scrittore – comune per quelli della mia generazione, un modo per girare l’angolo e voltare le spalle ai genitori’» (Günter Grass, voce Wikipedia). E quindi questo integerrimo accusatore non soltanto di Heidegger ma di numerosi altri scrittori tedeschi, giustifica la sua adesione alle SS come un modo per ribellarsi ai genitori :-)). Grass è stato difeso dai suoi amici con la motivazione per la quale «il suo passato non avrebbe dovuto compromettere il giudizio sulle sue opere» (Ibidem), motivazione che si tende a non far valere quando l’accusato è Heidegger.
L’altro esempio riguarda Concetto Marchesi (1878-1957), eccellente latinista, maestro di scienza classica, intellettuale organico al PCI di Togliatti, il quale però non soltanto giurò fedeltà al fascismo ma divenne anche, sotto il regime mussoliniano, Accademico dei Lincei, Accademico d’Italia, Rettore dell’Università di Padova. In quest’ultima veste il 9 novembre 1943 tenne un «Discorso di Rettorato» rispetto al quale quello di Heidegger impallidisce, tanto il discorso di Marchesi è intriso di patriottismo e cesarismo (Michele Del Vecchio, DL, cit., pp. 39-40). Discorso che infatti venne applaudito e accolto con entusiasmo dai gerarchi fascisti. Ma a guerra finita Marchesi divenne un intransigente censore dei suoi colleghi e quasi nessuno gli rimproverò nulla.
Questo è il coacervo di contraddizioni, di conformismo e soprattutto di profonda miseria che accomuna molti degli accusatori di Heidegger. Ai quali va però riconosciuto il merito di confermarci nell’onore di  conoscere, leggere e studiare questo filosofo.

Malattia, moneta, guerra

Capire le società significa anche e in gran parte capire le loro metafore. La guerra è anche una metafora. La quale può però essere applicata a fenomeni di conflitto reale o, invece, fantasmatico.
Reali sono i conflitti tra le nazioni, le classi, le identità etniche. Negare queste guerre nell’illusione di un’umanità nella quale «tutti siano uno» è tra i dispositivi culturali e religiosi più rischiosi che si siano mai dati. Accettare le differenze come differenze che rendono possibile lo scambio e il confronto sulla base di identità che ci sono, è invece la strada difficile ma feconda della pace. Chi proviene dall’esercizio di un lungo dominio sugli altri non accetta facilmente di riconoscere il diritto altrui di essere ciò che si è senza diventare ciò che il dominatore vuole.

La moneta, ad esempio, può essere sinonimo di pace o di guerra. Del complesso statuto ontologico, simbolico e prassico della moneta e della sua storia, ciò che di certo si può dire nel presente è che la moneta costituisce un grave rischio che soltanto un’informazione anestetizzata e anestetizzante può ancora una volta tentare di nascondere. Dal 1971 la principale moneta internazionale di scambio, il dollaro USA, non ha più alcun rapporto – neppure minimo – con un bene solido e fisico, che sia l’oro o altro. La decisione fu presa dall’allora presidente Richard Nixon e da quella data gli scambi monetari fluttuano nel vuoto della pura finanziarizzazione, della struttura soltanto «scritturale» e ora del tutto digitale della moneta e dunque della ricchezza. La creazione di cripto-monete, delle quali il Bitcoin è soltanto la più nota, costituisce sia un sintomo dell’inquietudine che aleggia sulla moneta sia un tentativo di affrancarsi da una uniformità – quella appunto del dollaro – che non potrà durare all’infinito.
Naturalmente creare moneta senza ancorarla a una base reale di ricchezza è uno dei modi più efficaci per distruggerne il valore. Questa dinamica si chiama debito, non a caso una delle parole peggio utilizzate dall’informazione contemporanea: «Si vedono solamente i segni monetari nuovi, l’illusione dell’abbondanza, e si trascura tutto quello che si vede meno (gli effetti ridistribuivi dell’inflazione, e così via). Se la stampatrice di banconote è così popolare, è perché offre un’eco ad un sogno sepolto nel cuore dello spirito umano. È la ricompensa che non richiede né sforzi né sacrifici, che si ottiene con un clic. […] Sul piano simbolico, la moneta staccata da qualunque bene reale non è soggetta ad alcun limite. Non ha ovviamente nessun limite fisico, perché non si incarna in niente di concreto. Inoltre la moneta disincarnata diventa perfettamente anonima, priva di territorio. […] L’indifferenziazione monetaria contribuisce all’appiattimento generale del mondo. […] Il capitale finanziario avrà allora raggiunto un vertice nella derealizzazione e nell’uniformizzazione del mondo» (Guillaume Travers, in Diorama Letterario, n. 356, p. 18). Se la moneta è così pervasiva è perché anch’essa esiste sotto il segno e dentro la natura del tempo. Le scelte di politica monetaria veicolano infatti «una relazione con il tempo, con la soddisfazione immediata dei nostri desideri, con la nostra libertà fino a quando sfuggiamo alla trappola del sovraindebitamento» (Id., p. 19).

La natura simbolica e psicologica della moneta – psicologica perché fondata sulla fiducia – costituisce un rischio intrinseco che però diventa ancora più concreto se opera all’interno di una struttura anch’essa aleatoria qual è il ‘mercato’ «poiché nel compromesso concluso due secoli fa fra diritto, politica e storia, compare un invitato inatteso in questa forma: il mercato, che fa di pace e guerra, fame e sete, vita o morte, un prodotto come gli altri, una prestazione come un’altra, che si pagheranno al loro prezzo» (Hervé Jurvin, p. 38).
Il mercato è una delle principali scaturigini della questione migratoria. Esso infatti cerca di realizzare i massimi profitti con il minimo investimento, anche sul costo del lavoro. L’arrivo in Europa da altri continenti di intere popolazioni ha distrutto il potere contrattuale dei lavoratori, ha abbassato i salari, ha contribuito a creare precarizzazione, miseria, negazione dei diritti.
Ho scritto ‘intere popolazioni’. Di questo infatti si tratta. Lo confermano due studiosi che si pongono su versanti ideologici per molti versi opposti ma la cui diagnosi del fenomeno migratorio è significativamente convergente in molti aspetti: l’italiano Umberto Eco e il francese Renaud Camus. Entrambi infatti propongono di distinguere tra immigrazione e migrazione. «La prima riguarda individui, pochi o molti, e può essere programmata, controllata, incoraggiata o scoraggiata, a seconda delle esigenze dei paesi di arrivo. Le migrazioni riguardano invece interi popoli e sono una faccenda del tutto diversa» poiché non riguarda degli individui ma intere collettività. Eco sostiene che l’accoglienza non deve arrivare sino al punto di trasformarsi in accettazione relativistica di qualunque modo di vivere, costume, consuetudine, credenza, «non significa dover accettare ogni visione del mondo e fare del relativismo etico la nuova religione europea» (U. Eco, Migrazioni e intolleranza, La nave di Teseo  2019, p. 54). Di più: come Camus, anche Eco prevede che dalle migrazioni nasceranno scontri assai gravi e sanguinosi, guerre in pratica. Scrive infatti che «questo confronto (o scontro) di culture potrà avere esiti sanguinosi, e sono convinto che in una certa misura li avrà, saranno ineliminabili e dureranno a lungo» (Ivi, pp. 26-27). Una delle differenze è che Camus ritiene che si debba difendere la cultura europea, Eco sembrava invece rassegnato al suo tramonto.

Una guerra del tutto fantasmatica, metaforica e strumentale è invece quella che si riferisce all’epidemia Covid19. L’espressione ‘siamo in guerra contro il virus’ è infatti tanto insensata quanto rivelatrice della natura politica e non sanitaria di questa sedicente ‘guerra’. «La guerra è uno scontro di volontà configgenti, ma attribuire una ‘volontà’, intesa in senso umano ad un virus, è di una assurdità inenarrabile» (Archimede Callaioli, DL 356, p. 40). Ma direi, anche, che è un ulteriore segno del modo superstizioso e non scientifico con il quale media, social network e decisori politici affrontano la questione sanitaria. È quindi vero: «la guerra, con il virus non c’entra nulla. Parlare di guerra è soltanto una spettacolarizzazione, una narrazione capace di catturare l’attenzione del destinatario del messaggio più e meglio di altre. È realtà virtuale evocata per tenere gli utenti davanti allo schermo, è wrestling» (Id., 40).
Applicata a una questione tragica come la vita e la morte da virus, la modalità spettacolare dimostra che i media sono, essi sì, in guerra con la verità e non soltanto contro i cittadini. Quella che si è diffusa, infatti, è «una epidemia della paura» (Alain de Benoist, ivi, p. 11), che ha consentito alle classi liberali e liberiste al potere di prendere tempo e affrontare senza troppi rischi la propria impreparazione prima di tutto filosofica al dominio della morte che sempre l’esistenza è. Da tema tabù, il morire si è infatti trasformato in ossessione spettacolare: «Il lugubre becchino che ogni giorno contabilizza i decessi in televisione, le inchieste quotidiane sui mortori, ci richiamano alla nostra condizione. Ieri si nascondeva la morte, oggi se ne fa ogni sera il conteggio quotidiano» (Id., p. 10). In questa drammatica temperie, l’Unione Europea è insieme lo zombi e l’assassino, è il morto che cerca di trascinare con sé i vivi: «Non è stata l’Europa a venire in aiuto all’Italia, ma la Cina, la Russia e Cuba. L’Unione Europea si è rivelata per quel che è: un non-essere, che sa solo far funzionare la stampatrice di banconote per fabbricare indebitamento» (Ibidem).

Torniamo così alla natura anche simbolica della malattia, della moneta, della guerra.

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