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Corpo / Corporeità

Per coloro i quali, dalle prospettive più diverse, vogliano andare oltre il venerabile ma ontologicamente debole dualismo tra anima e corpo, indagare le tematiche relative alla corporeità è fondamentale. Ma, come scriviamo nell’editoriale del numero 26 di Vita pensata (gennaio 2022), «corpo» è un termine polisemantico, che non si riferisce soltanto all’umano né soltanto al vivente, vegetale o animale che sia.
In filosofia corpo è anche sinonimo di ‘ente’, ‘cosa’, ‘oggetto’. E così lo hanno inteso gli autori di questo numero della rivista. I quali si occupano certamente in gran parte della corporeità biologica ma anche delle sue strutture fisiche e metafisiche. Confidiamo in questo modo di aver ribadito un invito che si fa sempre più urgente: l’invito a pensare la complessità, ad affrancarsi dalle varie forme di riduzionismo che ancora pervadono le filosofie e la vita collettiva, a comprendere la varietà delle strutture individuali e sociali che stanno alla base di un’esistenza non ridotta e non riducibile al solo inspirare/espirare e non ridotta né riducibile alla sola vita dello spirito.
Ai corpi come li intende la fisica è dedicato un vivace saggio del fisico Alessandro Pluchino; del significato metafisico dei corpi ho cercato di occuparmi io in una recensione dedicata a un libro del filosofo statunitense Graham Harman, uscito nel 2018 e da poco tradotto in italiano. Per una forse comprensibile ma in ogni caso implausibile e bizzarra abitudine e tendenza, gli esseri umani ritengono che nell’innumerabile insieme di corpi, enti, oggetti e cose uno di essi occupi un luogo speciale, possieda un’ovvia centralità, sia il parametro del significato e del valore di tutti gli altri enti, tanto che, in particolare dal pensiero cartesiano in avanti, ha preso forza «la strana convinzione moderna secondo cui la nostra specie umana, pur essendo alquanto minoritaria, meriti di occupare un buon cinquanta percento di tutta l’ontologia» (Harman, p. 68). Convinzione strana, triste e anche un poco patetica «visto che esiste un numero infinito di composti che non hanno al loro interno nemmeno una componente umana» (85).
Sono stati numerosi nel corso della storia i momenti e le forme nelle quali questa tendenza antropocentrica è stata in vari modi decostruita. La Object-Oriented Ontology critica tale tendenza con argomenti originali, alcuni evidenti e altri più complessi, dei quali la mia recensione cerca appunto di discutere.
Corporeità biologica, fisica, metafisica e poetica. Il numero si chiude infatti con una silloge di Eugenio Mazzarella: sei composizioni dal titolo Corporea / Stare nel corpo.
L’auspicio è che ogni testo di questo numero della rivista possa contribuire a fare luce sul labirinto, la bellezza e il dramma dello stare al mondo.

 

Età

Manlio Sgalambro
Trattato dell’età
Una lezione di metafisica 
Adelphi, 1999
Pagine 130

Il fondamento metafisico di questo trattato è il fatto che la realtà, tutta la realtà, è distruzione. Esattamente «una distruzione continuata. […] È come se alla realtà corrispondesse (o qualcosa facesse corrispondere) quel minimo indispensabile affinché la ‘distruzione’ possa compiersi. L’individuo vive quel tanto che è necessario per morire. […] Le cose hanno quel tanto di realtà che consente loro di essere distrutte» (pp. 10-11). Un’affermazione del tutto corretta e lontana da ogni ‘pessimismo’ o atteggiamento ‘apocalittico’, come con chiarezza Sgalambro scrive nelle pagine finali: «‘Io non sono un apocalittico, ma un termodinamico’, afferma l’esponente della conoscenza tarda, lo spirito freddo, colui che abbiamo chiamato il ‘vecchio’; ‘La vecchiaia sopravviene per perdita di calore’, Stoicorum veterum fragmenta, B, f, 769» (106).
L’errore di Sgalambro sta nel rifiutare per questa dinamica fisica e metafisica il nome di divenire. Che «la realtà si disgreghi, non ‘diviene’. Non c’è divenire» (12) significa semplicemente chiamare in un modo diverso –disgregazione– la potenza della materia: la termodinamica appunto, l’entropia, il fatto che niente sia e tutto divenga.
Chiarita e rimossa questa opzione lessicale, il trattato va al nucleo reale del tempo e dell’età, che del tempo è un altro nome. Il tempo reale è per Sgalambro non il tempo vissuto, la durata interiore, il flusso di una coscienza, tutte forme queste di un tempo antropocentrico e come tale infimo e inferiore, ma il tempo «esteriore e trascendente […] tempo ‘inumano’» (16), il tempo della Φύσις, dell’intero, il tempo «di una roccia, o quello che si oggettiva nella scorza rugosa di un albero» (ivi), il tempo oggettivo, il tempo del cosmo:

Il tempo non serve a niente, ma siamo noi che ‘serviamo’ il tempo quando esso, dissoltasi la durata, sopravviene come tempo immutabile. Il tempo non va avanti né indietro. Il tempo è pieno ma di se stesso. […] Il tempo è della natura delle cose, non delle coscienze (122).

L’essere, il tempo sono dunque il κόσμος , o – come si esprime Sgalambro – il ‘sistema solare’. Il cosmo la cui legge è appunto la termodinamica, l’entropia, l’incessante distruzione e trasformazione di ogni ente, evento e processo.
Dentro questa ontologia gli umani e tutti i viventi sono poco più di niente, il risultato di una mescolanza di liquidi che produce qualcosa di simile alle feci:

Adorare le proprie fetide evacuazioni o i propri parti è la stessa cosa, metafisicamente parlando. […] Una malattia, un’infermità che la specie si procura semplicemente col riprodursi, viene ritenuta in maniera fuorviante il suo scopo eterno. […] Mia cara, noi sappiamo invece – vero? -che l’amore raggiunge il suo apice allorquando è ‘sterile’ (63).

Amore sterile che viene definito come «l’estrema purezza che si astiene dalla vita, che non dà seguito a questa orrida malattia!» (85). Il filosofo afferma di detestare «quell’atto genitale da cui germina la vita, anche se vi ho ceduto tante volte»1 (64) e formula una assai chiara valutazione della nostra specie:

Devo dire che la malattia più perversa, un flagello più iniquo della peste, è quella che si trasmette col seme e, generando, riempie di ‘dannati’ la terra. Questo è il virus più nefando. Portatori di questa infezione mortale sono coloro nei quali trionfa ‘rebellio membri genitalis contra imperium voluntatis’ Baio, De peccato originis et equa remissionis, cap. III (41-42).

A questo male si contrappone «l’uomo di conoscenza» (il modo in cui Sgalambro definisce il filosofo), in particolare il vecchio e la sua possibilità di un «amore tardo», fatto di parole e di conoscenza oltre che della calma forza del corpo e delle capacità delle quali è ancora intriso. L’amore tardo è in effetti il grande tema, insieme al tempo e alla vecchiaia, di questo trattato.
Gli umani sono amortali poiché «io non muoio, ripeto. Io sono amortale. La morte, la mia morte, è una fola raccontata per impaurirmi. È solo per gli altri che muoio. Sono essi che sanciscono la mia morte nello stesso tempo in cui affermano: è morto» (83). Se questo è vero per tutti i membri della specie, lo diventa in modo peculiare per il vecchio, al quale l’età aggiunge una identità teologica, sacra: «Il ciclo riproduttivo, quello lavorativo, quello sociale sono conclusi per sempre. La ‘vita’ è finita. Ora può cominciare a vivere. Ecco perché in ogni suo atto si coglie il numinoso, come se egli stesso fosse il numen» (110).
Significativo è che la saggezza antica e schopenhaueriana di Sgalambro riconosca tra i suoi maestri non soltanto Kant e Hegel ma anche un nome che in scritture e pensieri come questi fa l’effetto straniante di una luce proveniente da altre stelle: «Le Logische Untersuchungen, quest’opera che – voi lo sapete – è la pietra di paragone di ogni mia ambizione filosofica» (111).
Evidentemente Husserl insegna la filosofia anche a chi, come Sgalambro, pensa in forme e modi così diversi da quelli che Husserl definisce strenge Wissenschaft, scienza rigorosa, e così somiglianti, invece, allo sfogo di un vecchio. Una filosofia che troppo risente di tale vecchiezza non nell’indicare con fermezza che il Sole morirà e che ogni conformazione delle cose è, appunto, «una distruzione continuata» ma nel non sentire che questa è una notizia luminosa, che questa è la verità.

Nota
1. In effetti non soltanto vi ha ceduto ma ha generato anche cinque umani, a conferma della separazione – da Sgalambro teorizzata – tra la vita e l’opera del filosofo; cfr. D. Miccione, «I molti nomi del filosofo», in Manlio Sgalambro. Breve invito all’opera, LetteredaQALAT, Caltagirone 2017.

Sarah Dierna su Tempo e materia

Sarah Dierna
Recensione a Tempo e materia. Una metafisica
in Il Pequod / n. 4 – Novembre 2021 / pagine 96-101

«Tempo e materia. Tempo è materia. È questo il nucleo intorno al quale si condensa e a partire dal quale si dipana la metafisica di Biuso. Una metafisica che parte dall’evidenza che “il mondo è” e che “l’umano è in esso” soltanto come sua parte. […]
Lontano anche da ogni prospettiva soggettivistica, la materia della quale si parla è una materia che “c’è indipendentemente da qualunque sguardo” come i Greci, anch’essi sullo sfondo della metafisica dell’autore, avevano già avvertito, esenti da quella hybris che ha invece caratterizzato la modernità, la quale ha ridotto la realtà ad un “canto solitario e monocorde dell’umano”. […]
Tutto questo non vale solo per l’umano. Un simile ‘inconveniente’, quello di essere nati, coinvolge infatti l’animalità tutta, dunque anche quella non umana poiché, benché il primo (l’umano) abbia rivendicato un salto ontologico rispetto al secondo (l’animale non umano), “la finitudine, il tempo, la morte” sono comuni a tutti i viventi dotati di sensibilità, dunque anche a quelli non umani. Una metafisica, pertanto, non solo del tempo, non solo materialistica, non solo metaetica, una metafisica anche antropodecentrata».

Hegel

Luca Illetterati – Paolo Giuspoli – Gianluca Mendola
Hegel
Carocci Editore, 2017
Pagine 355

Il lavoro del concetto è volto anche a superare «la scissione e la lacerazione che attraversano tutti i livelli della vita» (p. 18). Superamento dal quale possa emergere «la struttura razionale del mondo» (11), elaborando una prospettiva e un sapere che cerchino di intendere razionalmente la molteplicità, varietà, negatività e incomprensibilità dell’esperienza umana. «La filosofia costituisce per Hegel anche la risposta al problema avanzato da Aristotele sulla possibilità umana di partecipare a una dimensione di pura scienza, libera dalle strutture spazio-temporali che vincolano il pensiero agli oggetti finiti e instabili dell’esperienza ordinaria» (298). Prima ancora che aristotelico, questo è un gesto eleatico, fiducioso nella identità del pensare con l’essere, della logica con la metafisica. Una logica metafisica il cui motore teoretico consiste in «un incessante e mai concluso processo di autorealizzazione e di autocomprensione» (325).
Per questo è necessario comprendere la necessità del negativo, il suo costituire una dimensione intrinseca alla razionalità dell’intero. Se omnis determinatio est negatio, è anche perché il presentarsi di un ente rende impossibile il presentarsi di ogni altro ente nello stesso luogotempo; perché l’evento che sta accadendo esclude una quantità innumerevole di altri eventi, perché ogni processo è sempre e solo l’attualizzazione di una determinata potenzialità a esclusione di molte altre che pure sarebbero state possibili. Il non, la negazione, il nulla sono quindi impliciti nell’essere non come suo residuo, non come sua accidentalità, non come suo ostacolo ma come la condizione stessa nella quale e attraverso la quale enti, eventi e processi sono resi possibili, si danno, ci sono. Questo nulla intrinseco alle strutture dell’essere è la differenza, è «die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt», la magica forza che volge il negativo nell’essere, una forza posta a coerente conclusione di una delle più chiare affermazioni del negativo che siano state pensate:

«Aber nicht das Leben, das sich vor dem Tode scheut und von der Verwüstung rein bewahrt, sondern das ihn erträgt und in ihm sich erhält, ist das Leben des Geistes, Er gewinnt seine Wahrheit nur, indem er in der absoluten Zerrissenheit sich selbst findet. Diese Macht ist er nicht als das Positive, welches von dem Negativen wegsieht, wie wenn wir von etwas sagen, dies ist nichts oder falsch, und nun, damit fertig, davon weg zu irgend etwas anderem übergehen; sondern er ist diese Macht nur, indem er dem Negativen ins Angesicht schaut, bei ihm verweilt. Dieses Verweilen ist die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt»

(Die Phänomenologie der Geistes, «Gesammelte Werke», IX, p. 27)

«Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo: come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere»

(Fenomenologia dello Spirito, trad. di E. De Negri, La Nuova Italia 1985, vol. I, p. 26)

Negativo significa anche che ciò che era si è dissolto e ciò che sarà ancora non è. Per questo il tempo è una delle più chiare forme, forse la più chiara, della necessità, vastità e potenza del negativo. Il cui nome necessario e fecondo è il divenire che non mira ad alcun risultato definitivo ma costituisce il processo in cui l’essere accade, è la struttura dentro la quale l’essere si rende visibile. La verità, qualunque elemento si intenda con tale parola, è la concretezza e dunque il limite del divenire. Per questo la verità non potrà mai darsi in forma definitiva ma sempre come processo. Per questo rispetto alla quieta e apparente stabilità dello spazio il tempo «è l’assoluta inquietudine di ciò che, mentre è, non è, e mentre non è, è» (213). Per questo la finitudine è intrinseca alla condizione ontologica del cosmo fatta di enti che sono eventi e la cui natura è quindi il dileguare.
Pertanto non è solo alla del tutto trascurabile componente biologica dell’essere che è intrinseca la finitudine. Ciò che per il vivente – vegetale o animale che sia – si chiama morire, è in realtà l’esperienza universale del trapassare in altro, del metabolismo, della metamorfosi, dell’entropia. La struttura biologica aggiunge piuttosto all’universale potenza del dileguare la particolarità di farlo in quel «tentativo essenzialmente ‘disperato’» (230) che è la riproduzione di una copia somigliante a sé, nella quale due entità entrambe del tutto finite presumono di differire il loro dileguarsi. Questo tentativo è una delle espressioni più chiare, drammatiche e banali della schlechte Unendlichkeit, della cattiva infinità che non smette mai di aggiungere vite a vite e dunque morte a morte:

«Dieser Prozeß der Fortpflanzung geht hiermit in die schlechte Unendlichkeit des Progresses aus. Die Gattung erhält sich nur durch den Untergang der Individuen, die im Prozesse der Begattung ihre Bestimmung erfüllt [haben] und, insofern sie keine höhere haben, damit dem Tode zugehen»

(Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in «Gesammelte Werke», XIX, § 370)

«Questo processo della propagazione riesce alla mala infinità del progresso. Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno altra più elevata, vanno così incontro alla morte»,

(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori, 2008, § 370, p. 363).

Porsi a questo livello di comprensione del mondo non può che lasciare dietro di sé ogni etica in quanto effetto e manifestazione dello sguardo parziale sull’intero. Qui sta certamente uno dei gesti più spinoziani, e quindi radicali, di Hegel, il quale «è fermamente convinto che una considerazione filosofico-scientifica della storia sia incompatibile con una sua valutazione etica sulla base dei principi astratti e che la considerazione scientifica della storia consiste invece nel comprendere le ragioni per cui la situazione mondiale è così com’è» (292).
Questa radicalità salva la dialettica hegeliana dal rischio intrinseco a ogni idealismo e ben presente, nonostante il suo mirare all’oggettività, a chi ritiene in modo inevitabilmente cartesiano («mit Cartesius […]  können wir sagen, sind wir zu Hause», ‘con Cartesio possiamo dire d’essere a casa’, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza 2009, p. 469) che il pensare preceda cronologicamente e soprattutto logicamente l’essere e che dunque il pensare non debba né possa presupporre nulla prima di sé: «Questo carattere di ‘autofondatività’ – carattere che costituisce l’elemento insieme più specifico e più problematico del discorso filosofico hegeliano – è quello che consente alla scienza di essere a differenza del sistema delle conoscenze, un sapere della totalità» (104).
L’antropocentrismo idealistico hegeliano rimane comunque sempre un tentativo di pensare l’oggettività dell’essere, del nulla e del divenire; tentativo nel quale la filosofia è certamente «scienza in un senso più radicale rispetto a quanto non lo siano le scienze positive» (104), è certamente scienza del mondo nel senso che essa pensa il mondo ed è il mondo che nella filosofia pensa se stesso.

Metafisica dell’immanenza

In occasione del II Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica, che si è svolto dal 14 al 16 ottobre 2021 a Napoli, i filosofi italiani hanno reso omaggio a Eugenio Mazzarella offrendogli un’opera in tre volumi dal titolo Metafisica dell’immanenza. Scritti per Eugenio Mazzarella, pubblicata dall’editore Mimesis.
Faccio parte del gruppo di allievi di Mazzarella -Pierandrea Amato, Vincenzo Bochicchio, Maria Teresa Catena, Felice Masi, Valeria Pinto, Nicola Russo, Simona Venezia– che ha curato quest’opera imponente alla quale hanno collaborato 115 autori. Allievi che hanno posizioni ed elaborano prospettive con molti elementi in comune ma anche assai diverse tra di loro, come diversi siamo tutti da Eugenio, segno certo -questo- del valore del suo magistero, se è vero che «si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari» (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte prima, «Della virtù che dona», § 3; trad. di M. Montinari, Adelphi 1979, p. 92).

Pubblico qui gli indici di ciascuno dei tre tomi e l’Introduzione generale, nella quale abbiamo cercato di indicare e riassumere la «specifica maniera di abitare il mondo – problematica, critica, amichevole – da parte di Eugenio Mazzarella».
Questo il testo della quarta di copertina:
«In occasione del suo settantesimo compleanno, amici, colleghi e allievi esplorano – in tre volumi che restituiscono il panorama del dibattito filosofico contemporaneo non solo italiano – i molteplici sentieri che caratterizzano l’impegno teorico di Eugenio Mazzarella. L’opera è organizzata attorno a tre diadi: ontologia e storia, etica e politica, poesia e natura, ciascuna indagata nel suo sviluppo storiografico e nella sua articolazione concettuale. Occasione più di confronto che di celebrazione, Metafisica dell’immanenza ben rappresenta il magistero di Mazzarella, che dell’incontro tra prospettive, talora all’apparenza anche poco compatibili, ha fatto il centro del suo pensiero, della sua poesia e della sua prassi politica».

Vol. I, Ontologia e storia (Indice e Introduzione)

Vol. II, Etica e religione (Indice)

Vol. III, Poesia e natura (Indice)

La Realtà

Il 30.9.2021 ho tenuto una relazione nell’ambito del Convegno internazionale organizzato dai colleghi del Dipartimento di Scienze della Formazione di Unict. Convegno dedicato a L’invenzione della realtà. Scienza, mito e immaginario nel dialogo tra realtà psichica e mondo oggettivo.
Metto qui a disposizione l’audio del mio intervento, nel quale ho cercato di delineare forme, statuto e strutture di ciò che chiamiamo realtà. Più sotto, alcuni dei temi che ho affrontato.

Qualunque sia lo specifico tema e ambito di una ricerca scientifica, essa presuppone almeno due elementi: 

  1. che l’oggetto di indagine esista in qualche modo, non soltanto e non necessariamente nella modalità fisico-chimica dell’occupare un volume nello spazio attraverso una massa di atomi o mediante tutto ciò che viene identificato con l’elemento empirico-fisico; 
  2. che di tale oggetto si possa conseguire una conoscenza spiegabile con il linguaggio, una conoscenza dunque che non sia soltanto ineffabile e interiore-psicologica. 
  3. Un terzo elemento consiste nel convergere di ontologia e linguaggio in un ambito che è possibile definire con il termine di verità. 

Ciò che chiamiamo realtà, mondo, essere è una struttura semantica asintotica, che non può essere colta con la certezza assoluta che le vecchie metafisiche e i più giovani scientismi pretendono di raggiungere.
I più avvertiti filosofi materialisti si rendono conto che metafisica e naturalismo non sono in contraddizione, che nozioni e concetti come sostanza, causa, potenza, qualità, quantità, verità, possiedono una densità ontologica e una complessità epistemologica che sarebbe del tutto impoverente disconoscere e negare. Si può partire dall’assunto che tutto ciò che esiste sia di natura fisica e da qui dispiegare metafisiche e ontologie molto articolate, complesse, aperte.
La metafisica è una scienza trascendentale, nel senso che gli oggetti che indaga non possono essere accostati e colti direttamente dalla percezione sensibile ma emergono dalle relazioni che la pluralità di enti che compongono il mondo, lo spazio, il tempo, la materia intrattengono tra di loro; enti che anche altre scienze studiano e che la metafisica riconduce a unità di senso – diventando epistemologia – e a unità di struttura – diventando ontologia.
Un atteggiamento metafisico implica anche l’andare oltre la dualità realismo / trascendentalismo. Il realismo si illude di poter pensare il mondo senza transitare dalla complessità del corpomente che ne elabora i significati. Il trascendentalismo si illude di poter rendere conto dei modi e dei limiti della conoscenza senza ammettere che essa inizia sempre dalla materia che c’è e rimane immersa nella prassi esistenziale ed ermeneutica in cui la vita procede e si raggruma.
Non potremmo esistere se non fossimo parte di un mondo che ci precede e che c’è indipendentemente da qualunque sguardo.
L’essere è insieme e inseparabilmente flusso e permanenza, poiché ogni mutamento ha senso in quanto qualcosa rimane e, di converso, il permanere di un ente si staglia sull’orizzonte del suo mutare, si staglia nel tempo. 

 

Sul reale

La mattina di giovedì 30 settembre 2021 terrò una relazione nell’ambito del Convegno L’invenzione della realtà. Scienza, mito e immaginario nel dialogo tra realtà psichica e mondo oggettivo, organizzato dal Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Catania.
Il Convegno si aprirà il 29 settembre e si concluderà il primo ottobre. Come si vede dal programma qui sotto, si tratta di un Convegno internazionale davvero imponente, con varie sessioni parallele che affronteranno tematiche molteplici ed essenziali.
Il mio intervento ha come titolo Sul realismo e in esso tenterò un approccio metafisico e fenomenologico al concetto e all’esperienza della realtà.
La fenomenologia sostiene l’ovvietà del realismo, poiché tutti gli atti di conoscenza si fondano su intuizioni sensibili, sull’apparire, appunto, di enti e processi di varia natura, che sono autonomi da qualunque coscienza percipiente. Altrettanto ovvio è che tali enti si danno in una coscienza che li intende, li comprende, li accoglie come manifestazioni di un eidos, di strutture universali delle quali gli enti sono espressioni parziali e senza le quali gli enti né esisterebbero né sarebbero conosciuti.
Nella coscienza il dato assume il suo significato, sempre cangiante, percorribile, aperto. È anche per questo che la fenomenologia non poteva che diventare ontologia. Il tema chiave della fenomenologia non è la coscienza ma è l’emergere del mondo in una coscienza alla quale il mondo si perché c’è.
È stato naturale, inevitabile e fondamentale che dal cuore stesso del rispetto di Husserl per l’apparire del mondo e degli enti, la fenomenologia sia stata ripensata come ontologia e possa essere sviluppata come metafisica. Pensare oltre e al di là del limite del reale rimanendo nell’immanenza del reale, anche questo infatti significa metafisica.

 

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