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Tempo e Materia

SSCLa Scuola Superiore di Catania organizza per i suoi allievi delle serate dedicate alle Pillole di Ricerca. Un docente spiega (in un quarto d’ora) gli argomenti dei quali si sta occupando nei propri studi e poi si continua a discuterne a cena. Giovedì 4 giugno 2015 parlerò delle mie ricerche in un incontro che inizierà alle 20,00 e avrà come titolo Tempo e Materia. L’abstract pubblicato sulla pagina del sito della SSC dedicata a questo appuntamento non è corretto (sarà modificato domani) e quindi ne pubblico qui la versione completa.

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L’ambito proprio della filosofia è l’essere/tempo; il tempo è tema filosofico per eccellenza: è antidogmatico, è plurale, è capace di coniugare scienze empiriche e metafisica, è infinito e incoglibile -e dunque asintotico- è sempre aperto, è sempre oltre, metà. Il tempo è il contenuto della metafisica. Prima e dopo l’umano, a esistere è il tempo della materia. La materia che in un suo intervallo sarà stata anche protoplasmatica, vegetale e animale, sarà stata materia artificiale e macchinica. Rimarrà la materia minerale e cosmica, la sua potenza. Rimarrà la materia e basta. Non più gli umani, e neppure soltanto gli altri animali, vertebrati o invertebrati, di terra o di mare, volatili e insetti. Nemmeno le piante, i fiori, il grano. Rimarrà soltanto la materia, le rocce, le lave. E le stelle. La pura luce. Le trasformazioni elettromagnetiche che invadono di fulgore lo spazio silenzioso e perfetto nel quale di tanto in tanto la materia si raggruma in polvere, pianeti, astri.
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Essere è tempo

Past, Present, and Future
A philosophical essay about Time
di Irwin Chester Lieb
University of Illinois Press
Urbana and Chicago 1991
Pagine 260

We are temporal, through and through (p. 40)

Past-Present-and-Future-Lieb-IrwinComprendere il tempo implica la conoscenza della mole di informazioni, di dati, di certezze e di interrogativi che le scienze della natura offrono, coniugandole tra loro mediante un linguaggio e una metodologia che del tempo intendono capire l’essere, la verità, l’identità/differenza.
Il Saggio filosofico sul tempo di Irwin C. Lieb è un esempio assai chiaro di questa metodologia. Il suo titolo è tanto semplice quanto impegnativo: Past, Present, and Future. La tesi fondamentale di Lieb è che passato, presente e futuro esistano. Che esistano davvero, che possiedano una densità ontologica e non soltanto una modalità psichica o epistemologica. Il tempo sarebbe quindi una realtà piena, totale e pervasiva. Il tempo infatti «not derived from anything else and its reality is most evident in the continuous passing in everything that moves, changes, lasts, or even remains the same» (p. 4); c’è «something continuous, steady, and indipendent of other motions, and this can be called time self», questo qualcosa è insieme «in the things themselves and in their relations to one another» (6).
Ciò che per lo più impedisce di intendere tale realtà piena, sostanziale e relazionale del tempo è il riduzionismo ontologico che ritiene esserci una e una sola forma di esistenza reale, identificata con la massa/volume/peso. Contro tale monoteismo metodologico dobbiamo capire che «the distinction we need is not between what is and not real but between kinds of reality. Everything is real, but things are real in different ways» (3). La natura scaturisce infatti da una continua produzione d’essere, da una costante e indefinita generazione del nuovo. Tale potenza creativa produce i due elementi fondamentali dei quali l’esseremondo è composto: Time e Individuals. Entrambe le parole non si riferiscono a degli enti ma a dei processi, i quali rendono possibile l’esistenza degli enti e ne garantiscono la comprensibilità.

Individuals è il termine chiave di questa ontologia poiché con esso Lieb intende qualcosa che esiste nel passato, nel presente e nel futuro. Qualcosa dunque che non c’è soltanto spazialmente ma che possiede perduranza (per usare la definizione/distinzione di D.K.Lewis): «Individuals are conceived to extend from the present into the future and the past, and each state of them is different from the others. […] Individuals are always changing, through and through. Their fundamental change is to reconstitute themselves. […] Not being confined wholly to a moment, individuals are spread through time. Time and individuals are inseparable» (11). Come si vede, individuals non sono degli enti ma della attività, delle strutture ontologiche che esistono perché accadono. Incessantemente accadono. Questo costante accadere è la struttura ontologica di base. È il fondamento. Il mutamento consiste nel diventare passato di qualcosa che continua a esistere anche nel presente, proprio perché «the being of an individual is not wholly present» (191).
Il presente è quindi il tempo degli enti singoli, degli enti astrattamente intesi perché privi di relazione.  Senza questa modalità del tempo non potrebbero naturalmente esserci le altre -«the present is nodal for the other parts of time» (12)- ma non bisogna da ciò concludere che le altre siano soltanto un ricordo, un’attesa. È esattamente tale errore categoriale e ontologico a produrre molti equivoci sulla temporalità, a partire da quelli -fondamentali- della estensione del tempo e dunque sostanzialmente della sua spazializzazione. Il presente non è un punto nel tempo poiché il presente da solo è un’astrazione. Ma anche il passato da solo è un’astrazione, così come il futuro. Il tempo è unitario, sono le azioni nel tempo a poter essere presenti, passate e future. Se l’accadere è possibile è perché il presente, il passato e il futuro sono tutte strutture e modalità reali della natura. In modi diversi, certo, ma tutti reali. Ciò che rende possibile l’identità del tempo e la differenza dei suoi modi è l’intreccio indissolubile di essere e divenire.

There are two fundamental realities and they are together. […] There are beings and becoming; realities that are together are also distinct. There should therefore be a twining of the traditions: because individuals and time are each real and are inseparably together, being and becoming are equally fundamental and, by being so, they ensure that the change of the world. (81)

Dato che le azioni e gli eventi non esistono soltanto come presente e nel presente, la struttura del mondo è assai più complessa, più creativa e insieme più ordinata rispetto a come il monoteismo temporale la immagina. Gli individuals sono eventi singoli e separati nel presente, là dove sono anche parziali. Essi diventano completi nel passato mentre le parti del loro essere non ancora compiute costituiscono il futuro.
Ciò che chiamiamo spazio è questo presente che estrapola dall’intero dell’essere una sua parte e la rende visibile qui e ora. Passato e futuro sono dunque modalità diverse rispetto al presente anche perché è soltanto nel presente che gli enti/eventi (individuals) sono discreti, diventano singoli. Nel passato e nel futuro gli stessi enti/eventi sono coniugati con il tutto -«in the past and future parts of them individuals are merged together»- e costituiscono l’intero. (31) Gli individuals diventano passato mentre stanno diventando presente e anche questo rende il passato del tutto reale. Non soltanto, quindi, perché ciò che accade ora è conseguenza e séguito di ciò che è accaduto prima ma anche e soprattutto per altre due ragioni. La prima è che «what is in the past is like a possibility that that has been affected by being actualized» (115), a conferma della struttura dinamica dell’essere; la seconda è che «the past has mighty effects in the present, not by acting on it -the past has no agency- but in the way in which we shape and form ourselves on it» (255), a conferma della struttura mentale dell’essere.
Il futuro è per Lieb altrettanto reale per due ragioni. La prima riguarda l’apertura degli enti/eventi alle loro stesse possibilità; se il futuro non fosse reale, infatti, non potremmo comprendere che cosa gli enti sono, come possono agire, quali sono le loro possibilità. La seconda ragione concerne la comprensibilità del cambiamento: è evidente che senza la realtà del futuro non potremmo descrivere nessun movimento e mutamento.
L’esistenza in sé di passato, presente e futuro è mostrata per Lieb anche da ragioni assiologiche oltre che da quelle ontologiche ed epistemologiche. Gli eventi possiedono nel futuro un valore estetico, essendo costituiti anche dall’immaginazione come possibilità; nel presente un valore etico, dato che comportarsi significa sempre valutare alternative e scegliere quelle che vengono ritenute buone, le migliori; nel futuro un valore storico, frutto della sedimentazione dell’accaduto nei parametri del tempo in cui è accaduto e in quelli del tempo in cui viene valutato, in modo da trovare e dare loro un significato razionale.
Da ogni punto di vista, dunque, e in ogni struttura del reale l’essere è tempo, «whatever is cannot but be in time» (183) e «our final reality is not something apart from time but is instead the whole of the past, the present, and the future and all the value there is and can be in them» (251).

Partito da una serie numerosa e serrata di interrogativi essenziali -ad esempio: «Why, how, when, and in what ways do they change, and is their having to change connected with each moment’s having to be new?» (9-10)-, l’analisi di Lieb si pone in modo franco e coraggioso contro le risposte di moltissimi filosofi. Non soltanto di coloro che hanno negato esplicitamente il tempo; non soltanto contro la lunga tradizione parmenidea che intesse il pensiero occidentale; non soltanto contro le prospettive riduzionistiche -antiche o contemporanee che siano- volte a confinare la temporalità dell’essere alla misurabilità dei tempi della fisica; ma anche contro numerosi fra coloro che vengono di solito ritenuti sostenitori della realtà del tempo, i quali pensano il tempo come flusso in cui soltanto il presente è davvero reale e il resto è realtà degradata, derivata, seconda.
A tali prospettive Past, Present, and Future oppone una peculiare forma di platonismo e di spinozismo dinamico, per il quale «the passage of time and the activity of individuals are strands of process inside the unchanging totality of the real» (12). Il mondo delle forme e dei paradigmi non sta, come Platone ritiene, al di là del tempo e separato dal tempo. È piuttosto l’accadere senza posa e ordinato del mondo a produrre le forme, i paradigmi e il loro intreccio. Infatti, «the most general idea in this essay is that what is real is an unchanging totality; there can be no additions to it, and nothing can be taken from it. This does not mean, however, that things do not change and that there are no novelties. It means that all processes and the passage of time itself take place inside the otherwise unchanging totality» (257).

In tale profonda e feconda compresenza di essere e divenire traluce la struttura metafisica e gnoseologica che sola permette di comprendere ciò che è perché di ciò che è costituisce la forma naturale e il riflesso mentale: la dinamica di identità e differenza. Se la capacità che il corpomente umano e animale ha di riconoscere regolarità e identità nel mondo «depends on our ability to remember what has occurred and to recognize important kinds of similarities» (216), è perché «the natures of individuals also change; they are modified but remain the same. These natures are the general ways in which individuals change and act» (193). Essere, verità, identità/differenza, tempo vengono così coniugati nel profondo delle loro relazioni costituenti la natura. È anche questo che fa della metafisica la più radicale e profonda conoscenza che del tempo sia possibile nel tempo maturare.

Deus sive Natura

Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento
(Spinoza. A Life, 1999)
di Steven Nadler
Trad. di Davide Tarizzo
Einaudi, 2009 (2002)
Pagine XV-410

Più l’Olanda del Seicento che Spinoza in questo libro. Per esplicita ammissione del suo autore, l’oggetto è non tanto la filosofia spinoziana quanto la vita e l’epoca, e soprattutto l’ambiente ebraico, alla cui storia, credenze, usi, costumi sono dedicati i primi sei capitoli, vale a dire metà dell’intero libro, la cui tonalità è chiaramente filosemita nel ripetuto tentativo di spiegare e giustificare i rabbini (Mortera, in particolare) e la comunità sefardita di Amsterdam. Giustificarli rispetto all’inaudita violenza del cherem che i capi religiosi e laici della comunità pronunciarono il 27 luglio 1656 contro il ventiquattrenne Spinoza, senza e prima che questi avesse pubblicato alcun testo. «Non esiste nessun altro documento di cherem emesso dalla comunità in quel periodo da cui trasudi la stessa collera» (p. 141). Una delle ragioni di tanto odio starebbe secondo Nadler nel fatto che un simile bando «oltre ad avere una funzione disciplinare interna, aveva pure il senso di un messaggio diretto alle autorità olandesi: gli ebrei erano una comunità in ordine, che -come previsto dagli accordi presi con la città- non tollerava infrazioni della condotta o della dottrina ebraiche. […] E forse la singolare animosità del bando contro Spinoza si spiega proprio con la volontà del ma’ amad di non dare l’impressione di proteggere individui che negavano non tanto i principî della fede ebraica, quanto quelli della religione cristiana» (167).
Le comunità ebraiche erano comunque abituate all’utilizzo costante e ripetuto delle scomuniche contro i propri membri. Le ragioni potevano essere le più varie e minuziose, visto che erano e sono migliaia i precetti disobbedendo ai quali si commette peccato. Ma è l’intera esistenza quotidiana di tali comunità a essere permeata di un formalismo totale ed esasperante, contro il quale si era infatti già pronunciato l’ebreo fondatore del cristianesimo e nei cui confronti anche Spinoza ritiene che «i seicentotredici precetti della Torah non hanno nulla a che fare con la virtù e la beatitudine» (303).
Dopo la scomunica Spinoza cessò di considerarsi un ebreo e parlò dei suoi antichi correligionari come di un’alterità con la quale nulla aveva a che fare. Non presentò ricorso -come sarebbe pur stato suo diritto- alle autorità civili della città «e neppure chiese aiuto a un’altra congregazione, come fece Prado. In effetti, non domandò neppure alla congregazione di rivedere il proprio giudizio. Abbandonò semplicemente la comunità» (171).
Forse anche per questo il testo di Nadler è percorso da una sottile avversione nei confronti del suo oggetto e verso la stessa filosofia intesa come esercizio di assoluta libertà razionale. Numerose potrebbero essere le conferme. Ad esempio, quasi a giustificare ancora una volta il cherem, «se Spinoza andava a dire cose simili […] e a stranieri per giunta! […] stava davvero giocando con il fuoco» (151-152); «Il suo scopo è nientemeno che la completa desacralizzazione e naturalizzazione  della religione e dei suoi concetti […] Perfino l’immortalità dell’anima è considerata niente più che una ‘durata eterna’» (211); «Le parole di Spinoza [nell’Appendice alla I parte dell’Ethica] sono assai pesanti, ed egli non era del resto inconsapevole dei rischi che correva» (258); «Ma nessun altro filosofo ha mai neppure identificato Dio con la Natura» (262), affermazione non rispondente al vero, dato che la concezione immanentistica del divino è un’antica posizione filosofica, pur variamente declinata, e sostenuta qualche decennio prima di Spinoza pure da Giordano Bruno (anch’egli scomunicato e la cui morte rimarrà per sempre uno dei peggiori crimini della chiesa papista).
Le fonti di Spinoza furono assai varie: la mistica ebraica; forse l’eretico (anch’egli bandito con un cherem) Uriel da Costa; il suo maestro di latino e di varia umanità Franciscus Van den Enden; certamente Descartes; Euclide; gli stoici; e anche -è una delle affermazioni più interessanti di Nadler- l’intera comunità della città dove nacque: «Ex gesuiti radicali in politica, collegianti con tendenze sociniane, ebrei apostati, forse persino quaccheri e pensatori libertini -se si dovesse davvero accusare qualcuno di essere stato il ‘corruttore’ di Spinoza forse bisognerebbe a questo punto accusare la città di Amsterdam nel suo complesso, una città liberale, in cui fiorirono di continuo idee eterodosse» (163).
Furono naturalmente il suo carattere e la sua intelligenza a renderlo immune da qualunque tentativo di corruzione -«gli erano stati offerti mille fiorini ‘per fare presenza in sinagoga di tanto in tanto’. Spinoza, a quanto pare, rispose che ‘potevano anche offrirgli diecimila fiorini’ ma lui non avrebbe comunque mai accettato una simile ipocrisia, ‘poiché si preoccupava solo della verità, e non delle apparenze’» (170)-; a farlo vivere con grande frugalità e in profonda coerenza con le proprie idee -rifiutando sia gli onori sia le polemiche- e a rimanere sempre sereno, come testimonia Jean Maximilian Lucas uno dei suoi primi biografi: «A qualunque ora lo si trovava sempre di ottimo umore…Possedeva una grande e penetrante intelligenza, e trasmetteva un senso di appagamento» (218).
Anche alla luce di questo carattere equilibrato e sicuro di sé, la ‘solitudine’ di Spinoza è davvero una leggenda priva di fondamento, come Nadler suggerisce quando sottolinea le ottime relazioni dal filosofo intrattenute con una varietà di soggetti sia in presenza sia per corrispondenza; il suo tornare spesso ad Amsterdam anche dopo essersi trasferito a Rijnsburg prima e all’Aia poi; il grande numero di persone che seguì il suo feretro il 24 febbraio 1677, quattro giorni dopo la morte. «Lungi dall’essere quell’antipatico e misantropo recluso di cui si è tramandata leggenda, Spinoza era invece, una volta messo da parte il lavoro, una persona di compagnia, moderata e piacevole, sempre calma -come ci si poteva aspettare del resto dall’autore dell’Etica. Era gentile e pieno di riguardi, e si divertiva molto in compagnia degli altri così come gli altri si divertivano con lui» (319). Ovunque vivesse, Spinoza venne cercato da molti, o di persona o per lettera. Il suo Epistolario è uno dei filosoficamente più densi che si possano leggere, un vero specchio della mente e del carattere di quest’uomo.
Avversato sino all’odio, giudicato, empio, blasfemo, sovversivo, depravato, pericolosissimo (anche da Leibniz) e persino «di essere un agente di Satana, se non addirittura l’Anticristo in persona» (324), Spinoza ha offerto una delle più plausibili interpretazioni dell’essere e del posto che ogni ente -umani compresi- occupa in esso. Lo fece in tutte le sue opere e nell’Epistolario ma specialmente nel Tractatus Theologico-Politicus, che «è uno dei manifesti più eloquenti che siano mai stati scritti a favore di uno Stato democratico e laico» (315) e nell’Ethica ordine geometrico demonstrata, «un’opera ambiziosa e sfaccettata. Un testo davvero audace per la critica spietata e sistematica cui vengono sottoposte le correnti nozioni filosofiche di Dio, dell’uomo e dell’universo, con tutte le credenze teologiche e morali allegate. Nonostante la scarsità di riferimenti a pensatori del passato, il libro dà prova di una grande erudizione e di una approfondita conoscenza degli autori classici, medievali, rinascimentali e moderni -pagani, cristiani ed ebrei. Platone, Aristotele, gli Stoici, Maimonide, Bacone, Cartesio e Hobbes (tra i tanti) appartengono tutti allo sfondo culturale dell’opera, che rimane comunque, ciononostante, uno dei trattati più originali dell’intera storia della filosofia» (250-251).
Il disincanto sulle vicende umane si coniuga alla certezza di una razionalità invincibile che intride gli eventi. Per Spinoza la filosofia è il tentativo di comprendere questo significato e, una volta compreso, lasciarsene attraversare.

Il materialismo antiumanista di Leopardi

Il giovane favoloso
di Mario Martone
Italia, 2014
Con Elio Germano (Giacomo), Michele Riondino (Antonio Ranieri), Massimo Popolizio (Monaldo), Valerio Binasco (Pietro Giordani), Paolo Graziosi (Carlo Antici), Sandro Lombardi (precettore di casa Leopardi), Isabella Ragonese (Paolina Leopardi), Anna Mouglalis (Fanny Targioni Tozzetti), Federica De Cola (Paolina Ranieri)
Trailer del film

Il problema sono le biografie. Le quali possono essere a volte utili alla comprensione ma che nel caso di artisti, filosofi, scienziati costituiscono per lo più un equivoco. L’equivoco della dipendenza dell’opera dal fattore biografico. È evidente che le esistenze di tutti gli esseri umani -compresi coloro che hanno lasciato qualcosa di duraturo, di fecondo, di bello nel tempo- sono segnate anche da contraddizioni e da miserie. Poiché sono segnate dal limite. Il problema è la riduzione dell’opera a tale limite. Il film di Martone cade in questo errore. E dire che ne è consapevole. Uno dei momenti chiave del film è infatti l’incontro di Leopardi con dei letterati in un caffè di Napoli. Alcuni di costoro criticano il tono eccessivamente «malinconico» delle sue composizioni. Qualcuno cerca di difenderlo ricordando i problemi di salute del poeta e facendo dipendere da questo elemento tale tono. Leopardi risponde con determinazione che questo non c’entra nulla, che -se riescono- debbono smontare i suoi ragionamenti e non le sue malattie, che non debbono ridurre a una questione di salute o di umore ciò che è frutto «del mio intelletto». Esatto. Ma il film naviga in direzione opposta. E lo fa anche esagerando, inserendo scene -come l’incontro con le prostitute- del tutto superflue e tendenti solo a titillare l’inevitabile voyeurismo di ogni biografia.

Giacomo Leopardi non c’entra nulla con tutto questo. Leopardi è uno dei più importanti filosofi europei dell’Ottocento. Un pensatore che come Kierkegaard, Schopenhauer, Heidegger, Cioran sa che l’esistere umano è un oscillare tra il dolore e la noia, il cui ultimo esito è l’essere per la morte. «Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono» (Cantico del gallo silvestre, in «Operette morali», Garzanti 1982, p. 287). La metafisica di Leopardi è radicalmente  materialistica. Egli vede nel mondo un continuo aggregarsi e sciogliersi di enti, in cui ciò che rimane costante è solo la quantità di energia e di sostanza. Nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco leggiamo che «le cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab eterno» (p. 294).
La logica conseguenza è il lucido e costante rifiuto di ogni antropocentrismo. L’infantile pretesa che il mondo sia stato fatto a esclusivo uso di una specie, che il volgere delle galassie e della materia sia finalizzato al progresso della vicenda umana, la dismisura antropocentrica -insomma- è deprecata da Leopardi con giusta ironia e a volte con ferocia. Prometeo riconosce di aver perduto la sua scommessa, di aver fatto un errore nell’esaltare le capacità dell’animale uomo, dato che il genere umano è sì sommo ma «nell’imperfezione» (La scommessa di Prometeo, p. 112). Nella chiusa del Dialogo di un folletto e di uno gnomo quest’ultimo splendidamente osserva che dopo la scomparsa degli umani «le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie» (p. 69). Leopardi si inserisce, così, in quella linea della filosofia europea che da Spinoza a Heidegger sottolinea la finitudine dell’ente uomo, il suo essere effimero in un mondo che si muove e vive in assoluta indipendenza rispetto alle sue componenti. La Natura risponde, gelida, all’Islandese che «se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvederei» (Dialogo della natura e di un Islandese, p. 155). Questa antica e sempre argomentata concezione teoretica si riduce nel film di Martone alla Natura che assume il volto della madre di Leopardi. Banale psicoanalisi, insomma.

Il primo a respingere con decisione il riduzionismo biografico è stato naturalmente lo stesso scrittore, il quale fu perfettamente consapevole della propria strategia ermeneutica e dei suoi fini e rifiutò con grande lucidità la tesi che voleva fare delle sue opere la mera conseguenza dei suoi malanni: «E sentendo poi…dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso…poi tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi» (Lettera a De Sinner, 24.5.1832). A chi gli vorrebbe negare la qualità teoretica e l’oggettività dell’analisi, Leopardi così risponde: «Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera» (Dialogo di Tristano e di un amico, in «Operette morali», p. 377).
Una filosofia dolorosa, ma vera. Leopardi non fu un uomo che soffriva, fu un corpomente che pensava. Ha quindi ragione Jaspers quando afferma che «un’opera deve essere valutata esclusivamente sulla base del suo contenuto spirituale: la causalità sotto il cui influsso qualcosa è creato, non dice nulla sul valore della creazione stessa» (Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia 1996, p. 104).
In questo film sono certamente suggestive la forma, il taglio delle inquadrature, la luce. Suggestivo e ben trovato è soprattutto il titolo. E però di questo «giovane favoloso» non si comprende in che cosa consista la meraviglia, lo splendore, la favola. La vicenda si conclude con la lettura di alcuni versi della Ginestra da parte di Leopardi di fronte allo «Sterminator Vesevo». Una lettura che però si interrompe insensatamente prima dei versi finali, che avrebbero potuto esprimere meglio l’ironia e l’antiumanesimo del pensiero leopardiano: «Ma più saggia, ma tanto / Meno inferma dell’uom quanto le frali / Tue stirpi non credesti / O dal fato o da te fatte immortali» (vv. 314-317).

Vedere il tempo

Ontologie del tempo e nichilismi atemporali
in Giornale di Metafisica
1/2013 Scrittura ed esistenza – Estate 2014
Pagine 31-48

Pdf del saggio

GdM_2013:1Abstract

The essay deals with some of the analytical and phenomenological proposals related to ontology of time and neo-platonic theology. About such opinions bedrock, it criticizes some kinds of timelessness nihilism, reaching the conclusion that – in opposition to neo-eleaticism, Ricoeur’s third aporia of time, and sometimes to hard sciences – not only time exists and can be analysed from a metaphysical perspective, but it is also visible, then investigating from a phenomenological perspective.

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