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Il senso e la narrazione

Giuseppe O. Longo
Springer-Verlag Italia, 2008
Pagine XVIII-214

Condensare molto di ciò che si è imparato e che si è vissuto. E farlo non soltanto esponendo dei contenuti ma anche e soprattutto trasformando la propria scrittura in una dimostrazione di ciò che si sostiene, della tesi per la quale «sopprimere la narrazione non è possibile», poiché «gli umani sono creature della comunicazione» (pp. 164 e 1). L’impresa teoretica e letteraria di coniugare in modo rigoroso e appassionato il dire e i suoi modi è a Longo perfettamente riuscita.  In questo libro si intersecano, infatti, «matematica e poesia (…) estremi opposti della possibilità linguistiche» (p. 45), si uniscono competenze scientifiche di prim’ordine con una critica dura ma sempre argomentata alle pretese del linguaggio scientifico di esaurire l’ambito del dicibile, si trae il meglio dal monoteismo logico e matematizzante del metodo occamista e galileiano ma si punta decisamente al politeismo dei segni, a quell’impero di varianti, di molteplicità, di disseminazioni che è il reale. Un regno che noi stessi -dispositivi semantici- costruiamo respirando, vivendo, immergendo i corpi che siamo nel mare del senso, che è anche il luogo nel quale il presente scaturisce dai ricordi passati e dalle intenzioni future.
La nostra mente non si limita a registrare eventi, a incamerare dati, a collezionare percezioni ma partecipa attivamente alla costruzione del mondo. La dicotomia tra il soggetto e la realtà è uno degli ostacoli più persistenti e più gravi che si oppongono alla comprensione di quel sistema complesso di segni e processi dentro il quale esistiamo. Il limite forse più consistente delle scienze -quello dal quale scaturiscono anche gli altri- sembra abitare proprio qui: nell’approccio paradossalmente acritico con il quale esse pensano il vero. In realtà, anche le scienze sono forme dell’interpretazione. Il luogo da cui esse germinano è il soggetto nelle sue relazioni storiche, concettuali, professionali, economiche. La “libertà di ricerca”, ad esempio, trova il suo limite e le sue condizioni nei finanziamenti del capitale, nella capacità dei ricercatori di ottenere consenso e collaborazione, negli specifici modelli dentro i quali nascono i progetti e le ipotesi, negli scopi operativi e commerciali ai quali la ricerca serve, nell’utilizzo ideologico -e cioè esterno al proprio specifico ambito- della “scienza” come visione generale del mondo, nella stratificazione millenaria dei saperi. Anche di quelli che il metodo scientifico reputa oggi falsi -origini che tenta di nascondere come fanno i parvenu con i parenti più prossimi…- ma dai quali esso stesso è scaturito poiché «la scienza quantitativa e matematizzata oggi vincente si è distillata in un crogiolo ribollente di scorie, passioni e credenze, dalla quali ha tratto la sua forza creativa» (p. 11). Invece di ammettere con spirito davvero scientifico queste proprie origini, i ricercatori erigono spesso tribunali e barriere, costringendo chi voglia praticare le scienze ad abiure, ad autocensure, a forme di pensiero unico, poiché «la scienza seria è, per definizione, dei riduzionisti, quella dei riduzionisti» (p. 155).
Longo non dubita della fecondità di risultati e della potenza euristica del metodo galileiano ma sostiene che al di là degli ambiti e degli enti che le scienze quantitative sono in grado di cogliere e spiegare, c’è il mondo qualitativo dei soggetti, delle sensazioni, delle passioni e delle storie. Un mondo che il linguaggio matematico è per sua stessa definizione impossibilitato a indagare e sul quale quindi sono altri i linguaggi che possono far luce, mondi che vivono di tempo e che solo il narrare può dunque spiegare: «Norbert Wiener osservò che l’impoverimento associato alla formalizzazione sarebbe devastante per discipline che, come l’antropologia, la sociologia e la psicologia, si occupano di entità (umane) complesse, immerse in una rete di relazioni essenziali, molteplici e stratificate e in una storia imprescindibile. Per molte discipline (psicologia, sociologia, antropologia) è molto più adeguata un’impostazione di tipo “narrativo”, basata sui casi particolari, sugli eventi, anche sugli aneddoti, che non un’impostazione formalistica che ne ridurrebbe l’oggetto, complesso e sfaccettato, a una caricatura per difetto» (p. 69). La necessità del narrare non è una questione di stile o di comunicazione. È una necessità intrinseca alla scienza stessa, se intende comprendere la realtà. Perché la realtà è fatta di tempo. Alla staticità eleatica, al pensiero che reputa impura ogni contaminazione con il tempo, va opposta la verità mobile e cangiante che intride di sé ogni ente, evento e processo.

[Consiglio di ascoltare una breve e interessantissima intervista radiofonica rilasciata da Longo a proposito dei temi affrontati nel libro. Una versione più ampia di questa recensione si può leggere in Nuova Civiltà delle Macchine, anno XXVI, numero 1/2008, pagine 108-109]

Etologia umana

Irenäus Eibl-Eibesfeldt
ETOLOGIA UMANA
Le basi biologiche e culturali del comportamento

(Die Biologie des menschlichen Verhaltens Grundriss der Humanethologie
R.Piper GmbH e Co. KG München, 1984)
Edizione italiana a cura di Rossana Brizzi e Felicita Scapini, con gli aggiornamenti dell’autore per l’edizione USA, 1989.
Bollati Boringheri, Torino 1993
Pagine XII-554

«L’etologia umana può essere definita come la biologia del comportamento umano» (pag. 4) dove si definisce comportamento ogni azione che abbia uno scopo e sia consapevole, pianificata e intenzionale. Studiare la biologia del comportamento vuol dire analizzarne le componenti innate, quelle insite nell’organismo, sapendo comunque che nei mammiferi gli elementi innati e quelli acquisiti cooperano sempre nel produrre l’una o l’altra azione. Dal punto di vista etologico innatismo non vuol quindi significare che la natura umana sia immutabile, proprio perché la capacità di apprendere e quindi adattarsi meglio all’ambiente è costitutiva della nostra specie. «La vecchia contrapposizione tra empirismo e innatismo è oggi senz’altro superata. I tentativi del behaviorismo di ricondurre ogni comportamento a semplici collegamenti stimolo-reazione che si formano attraverso l’esperienza, possono considerarsi falliti. Il nostro sistema nervoso centrale non viene riempito di contenuti solo attraverso le percezioni sensoriali. Esso, al contrario, è predisposto a percepire, e dunque non è una tabula rasa. Il behaviorismo sopravvive tuttavia nelle idee di molti profani e le sue tesi semplicistiche sono accolte da una certa parte delle pedagogia, psicologia e sociologia» (380).
L’unità profonda di corpo e psiche fa sì che la cultura sia «per l’uomo una seconda natura e ciò influisce in maniera determinante sul destino della nostra specie» (441). L’invenzione della cultura ha aperto nuove prospettive nel percorso umano, tanto che Eibl-Eibesfeldt arriva a ritenere probabile «che cambiamenti culturali dello stile di vita possano indurre in futuro anche cambiamenti genetici; a favore di questa ipotesi vi sono già buoni indizi» (12). È stata l’intelligenza l’elemento più adattativo della specie e quindi un’evoluzione di grado superiore potrebbe riguardare le caratteristiche più tipicamente umane come la creatività, l’eticità, la razionalità. Le nostre possibilità di estinzione sono elevate quanto quelle di una ulteriore evoluzione e noi potremmo davvero rappresentare «un missing link, ossia un ipotetico anello di congiunzione» (437) a condizione che si riesca a sopravvivere.

La gravità della condizione umana oggi è data anche dal fatto che nel corso della filogenesi non vi è stata alcuna pressione selettiva contro la guerra, contro l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, contro l’esplosione demografica del Novecento -quando è chiaro che «se proseguirà anche in futuro la crescita esponenziale della popolazione terrestre, che fino ad oggi sembra inarrestabile, si profila per i prossimi decenni una catastrofe generale» (IX)- contro il potere delle immagini televisive -fenomeno evidentemente nuovissimo e il cui impatto è ancora difficile da valutare in termini evolutivi anche se è possibile fin d’ora coglierne i rischi di omologazione politica e culturale. Vicino alle riflessioni di Nietzsche, l’antropologo indica il compito primario della scienza -oggi- nell’«insegnare a pensare rigorosamente, a giudicare prudentemente e a ragionare conseguentemente», dando spazio alle speranze evolutive della specie «purché lo sviluppo della ragione umana non si arresti!». (Umano, troppo umano I, af. 265 e Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra , af. 183). Anche Eibl-Eibesfeldt, infatti, individua nell’ethos scientifico «l’unico ethos culturale di portata universale. Esso si basa sull’accettazione del realismo scientifico, sul presupposto della libertà di pensiero e di ricerca, e anche sull’idea che la conoscenza sia un bene e quindi che il sapere sia sempre meglio dell’ignoranza» (477). Non a caso l’autore conclude il suo libro ricordando la necessità socratica di diffondere almeno la consapevolezza dei problemi di fronte ai quali la specie umana oggi si trova e delle conoscenze che possono renderne più concreta la soluzione, in questo rimanendo «fedele all’invito che si trovava anticamente inciso sul tempio di Apollo a Delfi: “Conosci te stesso” » (479).

Il metodo utilizzato da Eibl-Eibesfeldt è quello comparativo, reso possibile dalla grande quantità di dati raccolti dallo scienziato nel corso di lunghi e ripetuti soggiorni presso alcune popolazioni dell’Africa, del Centro America e dell’Oceania: i Boscimani, gli Yanomani, gli Eipo e altri ancora. Verso di loro lo studioso rivolge uno sguardo scientifico e oggettivo ma anche e soprattutto empatico e partecipe: «al loro ricordo provo un forte senso di nostalgia per quella che è stata quasi la mia seconda patria» (459).

Alberto Burri

Milano – Palazzo della Triennale
Sino all’8 febbraio 2009

La densità materica di Burri (1915-1995) dimostra che l’arte consiste in qualcosa di inseparabilmente fisico e mentale: il rapporto tra le forme e gli spazi, la coerenza interna dell’opera. Ciascun particolare dei quadri di Burri preso da solo perde ogni senso, si sfalda, si cancella, ma tornato all’insieme mostra tutta la propria necessità. L’utilizzo dei celebri sacchi non è quindi fine a se stesso ma indica come l’armonia sia una realtà interiore che la mente umana applica alla materia. E questo accade sempre, non soltanto agli artisti.

Il fuoco è un altro dei principi costitutivi di Burri. La fiamma utilizzata per dare forma ai Cellotex plasma i materiali arrivando alla combustione, elemento che Burri indica esplicitamente come parte dell’opera. La quale deve essere viva, anche se fatta di ferro, di iuta, di catrame, di colla. In questa vibrazione della materia scompare anche la differenza tra pittura e plastica. Il quadro diventa tridimensionale e le grandi sculture sorgono dai quadri. L’esempio più clamoroso è forse il Cretto con il quale Burri compattò e coprì le rovine di Gibellina. Dalla superficie del dipinto transitando per la scultura la mente si fa architettura. E attraversare i corridoi di Gibellina, le rughe e gli intervalli di quel grande Cretto, è un’esperienza da compiere per intuire la forza profonda, ctonia, dell’arte contemporanea.
Ma il segreto forse più intimo di Burri è Piero della Francesca, i suoi colori (non a caso in questa mostra milanese sono presenti molti ori), la prospettiva, il suo fuoco.

Mente & cervello 47 – Novembre 2008


La permanenza dei significati e delle intenzionalità è la memoria. Essa costituisce il nucleo più profondo della mente, quello in cui convergono la dimensione fisico-neuronale e quella coscienzialistico-immateriale. A questo tema sono dedicati alcuni degli articoli del numero di novembre 2008 di M&C. Anche il ricordare conferma che la mente non è una res ma è un fieri, non una sostanza ma una funzione. I ricordi, infatti, non vengono “depositati” in nessun cassetto ma «vengono creati modificando la forza delle connessioni tra centinaia, migliaia, se non milioni di neuroni, che facilitano la ricomparsa di schemi di attività specifici» (R.Stickgold e J.M.Ellenbogen, pag. 36); il sonno serve a consolidare -alla lettera- tali connessioni e quindi sembra finalmente chiarita la ragione per cui abbiamo bisogno di dormire: per fissare i ricordi e quindi per essere ancora noi stessi.
Anche altri animali e non solo mammiferi -i corvi, ad esempio- «hanno una memoria straordinaria, tanto da ricordarsi con precisione un volto umano, anche dopo parecchio tempo» (F.Sgarbossa, 21) e questo apre all’importante argomento della mente animale, affrontato da J.Vlahos dal punto di vista del disagio mentale, delle cure e dei farmaci che vengono erogati agli animali non umani. Il pregiudizio cartesiano è stato completamene smentito: gli animali «sviluppano malattie mentali che somigliano in maniera inquietante a quelle umane, e rispondono agli stessi farmaci» (52); e anche le ragioni sembrano analoghe, visto che molto del disagio mentale nasce «dalle vite innaturali che i proprietari li costringono a condurre» (56), vite, spazi e tempi innaturali anche per noi. Il sistema limbico, che controlla le emozioni, funziona infatti in modo assai simile in tutti i mammiferi. Darwin affermò giustamente che «la differenza tra la mente dell’uomo e quelle degli animali superiori, per grande che sia, certamente è una differenza di grado e non di genere» (cit. a p. 56).
L’animalità dell’Homo sapiens sapiens spiega anche la particolare attrazione dei maschi di questa specie -come anche di alcune scimmie- per la pornografia. La ragione è persino banale: «per i maschi è adattativo, cioè vantaggioso in termini evoluzionistici, essere reattivi di fronte alle possibilità di accoppiarsi, anche velocemente e senza troppo impegno, per diffondere i propri geni sul pianeta (…) E ai mammiferi maschi generalmente conviene tentare di fecondare il più alto numero di donne possibile e quindi essere veloce e ricettivo di fronte alla visione di una donna disponibile» (S.Bencivelli, 26-27).
Un argomento diverso e didatticamente assai utile è quello che concerne l’imperversare di psicologi e «neuromiti nelle scuole», come se presentarsi con un camice bianco o utilizzare un linguaggio neurobiologico attribuisse per ciò stesso una qualche verità ed efficacia alle affermazioni di molti sedicenti esperti dell’educare. E invece «gli insegnanti non devono abdicare la loro responsabilità di educatori delegando in modo acritico la loro competenza alle fandonie di divulgatori senza scrupoli» (R.Cubelli – S. Della Sala, 84). I due studiosi sostengono anche -e giustamente- che alla base di molti interventi inopportuni o dannosi delle neuroscienze in ambito didattico starebbe «la commistione tra mente e cervello diffusa anche tra gli addetti ai lavori, ossia l’idea che lo studio del funzionamento fisiologico e biologico del cervello sia sufficiente a comprendere i processi mentali e i meccanismi di acquisizione della conoscenza. Lo studio del cervello e lo studio dei processi cognitivi non sono sinonimi, non si pongono i medesimi obiettivi e rappresentano livelli di conoscenza diversi» (82).
Osservazioni critiche che ci riportano alla necessità di un approccio filosofico per la comprensione della mente e della memoria, come sostiene anche Nelson Cowan dell’Università del Missouri: «per determinare la verità sarà quindi necessario affiancare alle moderne tecniche di brain imaging i vecchi metodi comportamentali e il ragionamento filosofico sul funzionamento della mente. In un articolo del 1971 intitolato Art in Bits and Chunks, lo psicologo della percezione Rudolf Arnheim affermava che lo strumento più importante per uno psicologo è la sua poltrona. E questo sembra valido anche per le ricerche sul cervello» (49).
Segnalo, infine, una intrigante intervista di Loredana Lipperini a Francesco Dimitri, uno dei maggiori scrittori italiani di fantasy -che non è un genere per ragazzini o per sognatori…- autore di un romanzo dal titolo Pan ambientato in una Roma contemporanea attraversata dalla crudeltà orgiastica del dio greco. Dimitri sostiene che «i sogni scientifici stiano mostrando la corda e che siamo in tempi di risveglio: in questo senso l’arrivo di Pan è davvero imminente. Il che non significa diventare luddisti. Una parte degli avanzamenti scientifici sono stati non semplicemente anticipati dalla letteratura, ma condizionati. Penso a Verne. Al cyberpunk. E penso a Mark Pesce, l’inventore del Vrml (Virtual Reality Modeling Language), che è un occultista: e ha realizzato l’estensione tecnologica di una propria idea esoterica» (45). E comunque Pan non è mai morto, come ci ricorda Hillman, poiché egli è l’unità psicosomatica che siamo. È nel trionfo del corpo che -nonostante il grido riferito da Plutarco che pose fine al mondo antico- Pan è vivo e sempre lo rimarrà. Sempre, finché un corpo umano e animale pulserà del desiderio di vita e del suo terrore.

 

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