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La malinconia di Aristotele

Aristotele
La “melanconia” dell’uomo di genio
(Problemata, 30, 1)
a cura di Carlo Angelino ed Enrica Salvaneschi
Il Melangolo, 1981
Pagine 53

In un volumento assai bello, arricchito da riproduzioni di vasi greci e incisioni di Dürer, vengono presentati il testo originale e la traduzione di Problemata 30, 1. Si tratta di un frammento più probabilmente pseudo-aristotelico, che comunque nasce in ambito peripatetico. Il suo principale elemento di novità consiste, come scrivono i curatori, «nello svincolare la tipologia “melanconica” da un’ipoteca patologica che precedentemente gravava su di essa» (p. 36).
L’indagine si muove su un doppio e complementare livello:
l’osservazione fisiologica e la speculazione etico-psicologica. Il termine chiave –melancolicoi– possiede infatti una vasta valenza semantica e qui viene giustamente tradotto sia con «atrabiliare» sia con «melanconico». Fisiologicamente, la distinzione più importante è quella fra caldo e freddo, tra riscaldamento e raffreddamento. I soggetti intellettualmente versati soffrono spesso di una particolare oscillazione fra i due estremi, che li rende a volte depressi, altre volte euforici. Viene anche sottolineata la funzione che un agente esterno come il vino esercita su questi stati mentali. Se la costituzione fisica e il dosaggio fra i vari elementi «raggiunge un proprio equilibrio» i melanconici «sono uomini eccezionali» (954b, p. 23), tanto da risultare i migliori nei campi della cultura, dell’arte, della politica.
In tale concezione vi è una profonda integrazione fra i vari aspetti dell’unica natura umana: un’integrità psicosomatica lontana da ogni dualismo. Per Problemata 30, 1 l’uomo è anche una macchina soggetta a specifiche leggi cinetiche e organiche, indagabili con rigorose metodologie. Per una simile antropologia, la dinamica tra psichico e somatico è scandita in momenti diversi, sì, ma sempre integrati fra di loro. L’etica scaturisce da una fisiologia a-morale e come tale libera da gravami colpevolizzanti e aperta a sempre nuove complessità: «i “melanconici” sono persone eccezionali non per malattia ma per natura» (955a, p. 27).

Mente & cervello 67 – Luglio 2010

«In un certo senso siamo fatti per il bacio» (N.Guéguen, pag. 47), il quale produce moltissimi effetti positivi sull’intera corporeità e sulla sua salute. Non soltanto, come è evidente, «le coppie che si baciano spesso sono quelle più soddisfatte, con bassi livelli di stress e buoni risultati nelle analisi del sangue» ma baciarsi stabilizza il ritmo cardiaco, riduce il livello del colesterolo e persino «i disturbi digestivi, urinari, sanguigni e addirittura quelli che hanno a che fare con i denti»; darsi dei baci serve inoltre a perdere calorie (Id., 51). Ancora una volta, nulla è soltanto somatico e nulla soltanto psichico, nulla è frutto della sola razionalità o del solo sentimento.

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Sul tempo. Una prospettiva mentalistica

in Giornale di Metafisica
n. 32
1/2010 – Luglio 2010
Pagine 29-52

Abstract

Time is the tissue of which matter and minds are made, although it cannot be reducible to mere consciousness or to pure movement of things. Its multiple, heterogeneous, qualitative, unextended and continuous structure makes every physicalistic approach absolutely partial. A phenomenologic perspective can, instead, perceive in time the true root of mind and its complexity. Space, time and mind are, in fact, semantic realities, understanding of which makes an answer to many ontological questions possible.




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Recensione a:

David Hume
Sul suicidio e altri saggi
(pagine 169-170; liberamente scaricabile in formato pdf)


Mente & cervello 66 – Giugno 2010

Il dossier di questo numero di Mente & cervello è dedicato a un tema importantissimo e davvero centrale per la mente: la memoria. I cinque articoli in cui se ne parla costituiscono una buona sintesi della complessità della memoria, delle sue varie forme -a breve termine, episodica, dichiarativo-semantica, autobiografica, procedurale-, del suo costituire l’identità di ogni umano ma anche dell’altrettanto indispensabile capacità di dimenticare. Davvero, come scrisse Nietzsche, «per ogni agire ci vuole oblio», poiché «la capacità di dimenticare è una componente essenziale di una memoria funzionante» (S. Dieguez, p. 59).

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Segno

di Umberto Eco
Enciclopedia Filosofica ISEDI, 2
Istituto Editoriale Internazionale, Milano 1973
Pagine 174


Un segno è qualcosa -qualunque cosa- che sta al posto di qualcos’altro. Peirce esprime con chiarezza questa sua natura: «something which stands to somebody for something in some respect or capacity» (Collected Papers, [1931], 2.228, qui a pag 27). Tutto è quindi segno, o tutto può diventarlo se viene interpretato da qualcuno come un indicatore di qualcosa.
Morris ha quindi ragione a ritenere che «la semiotica non ha a che fare con lo studio di un tipo di oggetti particolari, ma con gli oggetti ordinari in quanto (e solo in quanto) partecipano al processo di semiosi» (Lineamenti di una teoria dei segni [1938], Einaudi 1959, p. 20; qui 34). La pervasività del segno nella vita sociale e nei rapporti interpersonali è data dal fatto che l’uomo stesso è «un segno. Vale a dire uomo e segno esterno sono la stessa cosa, come le parole homo e man sono identiche. Così il mio linguaggio è la somma totale di me stesso perché l’uomo è il pensiero» (Peirce, cit., 5.314; qui 138).

Pervasività, varietà e universalità del segno sono state da sempre oggetto del discorso filosofico. Platone indaga le relazioni tra il referente (iperuranio), l’imitazione (gli enti), i concetti che riassumono gli enti e le parole che li esprimono. Per i neoplatonici, poi, è l’intero cosmo a costituirsi in forma di segno, in teofania. Traducendo come sempre la metafisica del maestro in discorso tecnico su ciò che appare, Aristotele distingue tra onoma, il segno/nome che significa qualcosa; rema, un segno al quale si aggiunge un fondamentale riferimento temporale; logos, segno complesso e discorso significativo. Quindi /Mario/ è onoma; /Mario è arrivato e sta lavorando/ è rema; la descrizione del viaggio di Mario è logos. Gli Stoici individuano a loro volta il semainon come segno fisico, linguistico o di altra natura; il semainomenon, la parte immateriale del segno, il suo significato concettuale; il pragma e cioè l’oggetto/referente al quale il semainon si riferisce, che può essere un ente fisico ma anche un evento o un processo. Lo schema è dunque: significante-significato-referente e spiega la compresenza nel segno di una forma-significante e di un contenuto-significato, inseparabili come due facce della stessa moneta. I filosofi antichi e quelli medioevali sanno anche che tra le parole e le cose si pone il concetto. Per Ockham la parola rimanda non alle cose direttamente ma ai loro concetti-significati, i quali a loro volta diventano dei significanti il cui significato-referente sono soltanto le cose singole.

Con Locke la semiotica inizia ad acquistare un proprio statuto autonomo, oltre che il nome che la indica. La svolta fondamentale è costituita naturalmente da Peirce, dalla sua stupefacente e articolata costruzione estremamente tecnica e insieme pansemiotica, all’incrocio tra pragmatismo e platonismo. Le Ricerche logiche di Husserl -in particolare la prima, la quarta e la sesta- sostengono una posizione radicale, che intende «lo stesso significato percettivo come un risultato di processi semiotici» (111), le percezioni come dei costrutti, la conoscenza come una sintesi attiva che trasforma il dato (Gegenstand) in oggetto (Objekt). «Questa nozione di una costruzione percettiva del mondo, in sé aperto a vari esiti possibili, come continua donazione di senso a cui partecipo non solo col linguaggio verbale ma con l’intera espressività della mia corporeità, è presente in tutto il pensiero di Merleau-Ponty. La fenomenologia della percezione si salda quindi con una fenomenologia della semiosi» (114). Rimanendo in ambito fenomenologico, Eco critica con asprezza l’ermeneutica heideggeriana in quanto essa sarebbe l’esatto opposto di una teoria dei segni e costituirebbe invece «una pratica, continua e appassionata di interrogazione dei segni» (97) e tuttavia discutendo della Semantica Generale di Korzibsky e di Sapir-Whorf, ricorda che per questi studiosi «la lingua non è ciò attraverso cui si pensa, ma ciò con cui si pensa o addirittura ciò che ci pensa o da cui siamo pensati» (106), che è tesi anche heideggeriana.

Sui rapporti tra pensiero e linguaggio, la posizione di Roland Barthes è che «la verbalizzazione sia la forma stessa del pensiero, che non si possa pensare senza parlare: quindi la semiologia sarebbe solo un capitolo della linguistica» (93). In ogni caso è chiaro che la complessità della semiotica è tale da tenere lontano ogni riduzionismo logicistico. La logica formale, infatti, «si applica a linguaggi appunto formalizzati e assolutamente non equivoci e entra in crisi quando vuol farsi logica dei linguaggi naturali, che sono invece il luogo dell’equivocità, della polisemia, della sfumatura e dell’ambiguità» (82). Il neopositivismo presenta lo stesso limite, giudicando «come strumento accreditato di comunicazione quell’uso di segni assolutamente univoci che si verifica così di rado nella vita umana e solo nel chiuso dei laboratori, mentre veniva discreditato il discorso quotidiano, il discorso della politica, dell’affettività, della persuasione, dell’opinione che non può essere ridotto ai ferrei parametri della verifica fisicalistica» (134).

La ricchezza della semiotica è data anche dal fatto che la creazione e lo scambio di segni costituiscono un ciclo senza fine, sono la vita stessa della comunicazione umana. Il processo fonte-emittente-canale-messaggio-destinatario richiede non soltanto la comunicazione di una serie di segnali che in quanto tali possono essere puro significante (flatus vocis) ma di una struttura semantica, un codice, che renda quei segni parte di un mondo condiviso e li trasformi immediatamente in prassi; «nel segno il significante si associa al proprio significato per decisione convenzionale e dunque in base a un codice» (142). Secondo Peirce, la società umana si mostra in questo modo e tutta intera come linguaggio e cultura, come un «sistema di sistemi di segni. Anche quando crede di parlare, l’uomo è parlato dalle regole dei segni che usa» (138).

«Ein Zeichen sind wir, deutungslos» (Hölderlin, Mnemosyne), siamo un segno che nulla indica. Nulla, al di là di se stesso, del proprio indicare, della vita come segno, parola, concetto, significato che abita in noi e non certo nelle cose e nella materia, che bisogno di senso non hanno.

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