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La mente scultorea

Fondazione Puglisi Cosentino – Palazzo Valle – Catania
Louise Nevelson
A cura di Bruno Corà
Sino al 19 gennaio 2014

Nata a Kiev nel 1899, Louise Nevelson ha percorso il Novecento assimilando dal cubismo ciò che lei definiva «la quarta dimensione» della scultura/pittura, che consiste «non in ciò che si vede ma nella facoltà di completare ciò che si sta vedendo». Anche per questo scelse probabilmente la scultura, poiché in essa l’opera diventa viva nello spazio ambiente e nello spazio della mente. Nevelson raccoglieva da ogni parte pezzi di legno e attraverso un’azione di riciclaggio e assemblaggio li trasformava in totem, colonne, dischi, cerchi, pareti. Legno ridipinto quasi sempre di nero e questo dà alla sua opera grande uniformità e rigore. Il legno è un materiale corroso, frammentato, vissuto. E quindi immerso nel tempo assai più del marmo o del bronzo. Ne scaturisce un’arte dinamica al modo di una città -«Vedo New York come un’immensa scultura»- che a volte si amplia a una dimensione cosmica, come nella potente parete dal titolo Homage to the Universe (1968) dove la materia diventa una struttura seriale, un’armonica alternanza che trasforma il legno in musica.
La mostra presenta anche numerose immagini che ritraggono l’artista. Tra queste, una terribile fotografia di Mapplethorpe (1986) nella quale Nevelson appare una divinità della determinazione, un’Erinni. Divinità consapevole di che cosa sono fatti gli umani, del loro legno: «Penso che la cosa più grande che abbiamo sia la consapevolezza della mente» poiché -aggiunge- è mediante essa che costruiamo il mondo, come lo scultore fa con l’opera.

 

Impermanenza

Mente & cervello 107 – novembre 2013

Non sono pochi gli umani che sognano di azzerare l’esistenza sinora trascorsa e ricominciare una nuova vita in qualche altrove. Persone anche famose e ricche, le quali concludono spesso nel suicidio il loro sogno. Nulla di strano, dato che la depressione è l’altra faccia del narcisismo, «soprattutto nei suoi aspetti di vulnerabilità -vissuti di inferiorità, incapacità di tollerare le critiche, tendenza a conformarsi alle aspettative degli altri- nei quali il perfezionismo gioca un ruolo preminente» (F. Cro, p. 21). Tutto si tiene nel nostro esistere. Gli eventi e il corpomente costituiscono un vero network. L’ambiente conta ma è un ben preciso corpomente che vive in quell’ambiente; la società permea il singolo ma la biologia è intranscendibile.
Lo dimostrano in modo clamoroso e drammatico i casi di persone irreprensibili, le quali a un certo punto del loro percorso cominciano a scatenare le proprie pulsioni erotiche, anche verso i bambini. Come mai? Spesso perché dei tumori cerebrali hanno leso alcune aree dell’encefalo, mutando completamente la personalità. Asportato il tumore, ritornano a comportarsi come prima. «Ciò che siamo, quindi, è solo in parte determinato dall’ambiente in cui siamo cresciuti e, per quel che riguarda la sessualità, ha anche una forte componente biologica contro la quale è difficile andare» (D. Ovadia, 81). Tutto questo mostra ancora una volta la superficiale parzialità del Diritto moderno, con il suo presupposto di una volontà totalmente libera e ‘capace di intendere e di volere’. Sono i nostri organi a decidere quello che scegliamo o che evitiamo, per la semplice ragione che i nostri organi siamo noi, per la chiara ragione che il Leib costituisce il coordinamento nello spazio e nel tempo della magnifica molteplicità del Körper. Non siamo colpevoli di nulla perché non siamo liberi di volere ciò che vogliamo. E quindi il corpo sociale ha diritto di evitare il danno che le nostre azioni possono arrecare, non ha -invece- il diritto di giudicarci colpevoli o peccatori.
La potenza del corpomente è tale «che spesso i nostri pensieri sono in grado di ampliare i nostri limiti, sia fisici sia cognitivi» poiché «mente e corpo non sono entità separate; i nostri pensieri hanno un notevole controllo sul nostro corpo e il nostro atteggiamento mentale è in grado di migliorare le prestazioni dei nostri cervelli» (O. Atasoy, 103). Il buddhismo ha compreso tutto questo e da molti è ritenuto una possibile barriera allo strabordare dell’io e quindi anche a quel narcisismo depressivo che rappresenta una tipica rottura dei limiti che il mondotempo assegna a ciascuno di noi. «Ciò spiega l’interesse di numerosi psicoterapeuti contemporanei per il pensiero buddhista. La maggior parte dei principi del buddhismo ha in effetti un valore universale. Come l’impermanenza: al mondo nulla dura, né le nostre sofferenze, né i nostri dolori, né i frutti dei nostri sforzi, né gli oggetti a cui siamo più legati. Tutto passerà e svanirà, e l’accettazione di questa realtà ci renderà paradossalmente più felici. […] O ancora l’interdipendenza: tutto è legato, e anche il minimo dei miei atti si iscrive in una catena complessa di causalità e conseguenze. Credersi unici e indipendenti è un errore profondo, e una fonte di sofferenze, per sé e per gli altri» (C. André, 74).

 

La mente pittorica

Pollock e gli irascibili
La Scuola di New York

Palazzo Reale – Milano
A cura di Carter E. Foster e Luca Beatrice
Sino al 16 febbraio 2014

Che cos’è un dipinto? Che cosa un brano musicale? O una poesia? Impasti di materia su un qualche supporto, tela o altro. Movimenti di tasti battuti, corde pizzicate, tubi nei quali viene spinta dell’aria. Inchiostro o pixel distribuiti nello spazio. E basta? Robert Motherwell, uno dei pittori in mostra, afferma che «la pittura è la mente che realizza se stessa nel colore e nello spazio». Sì, è questo. E non soltanto la pittura ma tutte le arti. Della musica si potrebbe infatti dire che essa “è la mente che realizza se stessa nei suoni e nel tempo”. E quindi la grandezza della pittura cosiddetta astratta sta nel liberarsi da ogni ingenua illusione realistica, da ogni enfatica descrizione del mondo, da ogni pretesa fotografica, per invece cogliere e cercare di esprimere il modo in cui la realtà si struttura come costruzione della mente.
Le tecniche utilizzate da Jackson Pollock e dagli altri artisti che negli anni Cinquanta del Novecento intuirono che l’arte è altro rispetto a ogni figurazione, queste loro maniere di dipingere sono non il senso della loro opera ma dei semplici strumenti inventati allo scopo di trasmettere la vibrazione semantica che la pittura e le altre arti sono. È anche per questa loro natura così interiore e mentalistica che le riproduzioni di tali opere -per quanto di qualità- non possono restituirne il senso. L’occasione quindi di accostarsi fisicamente a esse non va perduta. Soltanto avendolo di fronte si comprende quanto Number 27 di Pollock sia un dipinto pensato e costruito sulla base della profondità e della prospettiva che avvolgono chi gli sta davanti in una vera avventura dello sguardo. Analogo lavoro la mente compie rispetto a Universal Field di Mark Tobey: una fitta scrittura iconica fatta di geroglifici dalla quale sembra deflagrare la pura energia della materia.
Esplosione che continua in Addition II di Louis Morris, le cui forme e intensissimi colori somigliano a quelli della sezione conclusiva di 2001. Odissea nello spazio, in particolare la colonna verde che scende dall’alto. Energia che sembra placarsi nella quasi monocromatica Promessa di Barnett Newman -un magnifico nero sul quale si stagliano due righe che sembrano somigliarsi ma che sono assai diverse tra di loro- e nei segni neri/bianchi di Franz Kline. Simili a tali segni è il Landscape Abstract di De Kooning, la cui dinamica è tuttavia assai più aerea, come se fosse il lieve inizio di ciò che in Kline diventa l’arduo spessore del colore.
Splendide nella loro semplice complessità mi sono sembrate le due opere di Sam Francis in mostra: Abstraction e Senza titolo (1956). Il bianco occupa quasi per intero la tela. Soltanto ai lati o in alto colano dei colori forti e infantili, come l’eco della pienezza che può sempre riempire le nostre vite. «Vi sono tante aurore che ancora devono splendere» (Rigveda).

 

Deliri e trapianti

Mente & cervello 106 – ottobre 2013

 

La manifestazione delle emozioni è pressoché identica non soltanto tra tutti gli umani -al di là delle etnie, dei luoghi, delle culture- ma anche tra gli umani e i primati. Gli studi più recenti confermano la correttezza anche della classica catalogazione darwiniana delle emozioni primarie: rabbia, paura, disprezzo, felicità, tristezza, sorpresa e disgusto. Lo sviluppo e le dinamiche di queste e di altre emozioni possono condurre a sindromi che sono state definite nel corso dei secoli con espressioni e termini quali follie demoniache, dementia praecox, schizofrenia ma che non costituiscono una sola malattia bensì un insieme differenziato di disturbi talmente complesso da resistere sinora a una spiegazione completa e quindi a delle terapie adeguate. In generale, sembra che «nel delirio depressivo l’esperienza tende a orientarsi sulla propria persona, nel delirio schizofrenico sull’ambiente circostante» (P. Garlipp, p. 45). Le manifestazioni di tali deliri sono davvero molto numerose, gravi, anche bizzarre. Ne ricordo soltanto alcune: «Delirio d’amore. Lo so che lui mi ama. Solo che non può dirmelo, altrimenti sua moglie se ne accorge. […] Delirio di gelosia. So che mia moglie mi tradisce. Ne sono sicuro proprio perché lei insiste a negare. […] Delirio genealogico. Lei non sa con chi sta parlando. Io sono imparentato con la famiglia reale di Danimarca. […] Delirio di grandezza. Il mondo mi appartiene. […] Sindrome di Cotard. Sono un cadavere già decomposto». E così via (Id., 46-49). La psicologa Eleanor Longden ha subìto (e ancora a volte subisce) una delle espressioni più antiche della schizofrenia: sentire voci terribili, minacciose, autorevoli. Ne è in gran parte uscita e ha compreso «che le voci più negative e aggressive rappresentavano le parti più ferite di me stessa», quelle il cui paziente ascolto le ha consentito di maturare un «crescente senso di compassione, accettazione e rispetto verso me stessa» (E. Longden, 43). Un’esperienza, questa, che conferma come amare noi stessi -o almeno avere misericordia nei confronti dei nostri limiti- sia una delle condizioni per amare anche gli altri e, più in generale, per affrontare con razionalità la durezza dell’esistere. Non dobbiamo inventarci alibi ma non dobbiamo neppure accanirci contro di noi.

Una delle più odiose mancanze di misericordia è quella che riguarda la predazione di organi che si scatena quando una famiglia viene colpita dalla tragedia di una morte improvvisa. L’articolo di Daniela Ovadia che ne parla su questo numero di Mente & cervello mi sembra davvero lacunoso perché, nonostante qualche segnale lessicale di tipo neutro, sta tutto dalla parte delle lobby mediche e ospedaliere che speculano sui trapianti. Il titolo dell’articolo –Donare una parte di sé– accompagnato dalla tenera immagine di un uomo che tiene in mano la riproduzione di un cuore, è poco scientifico e molto ideologico. Ovadia informa correttamente che se «la persona ha espresso parere negativo» quando era sana, allora «non si può fare nulla, nemmeno con l’assenso dei familiari» e ricorda anche che nel caso, invece, di mancata manifestazione della propria volontà, la famiglia ha un potere di veto (p. 78). In realtà il Decreto attuativo previsto dalla L. 91/99 art. 5 non è stato emanato, quindi l’opposizione della persona in vita non ha modo di esprimersi secondo legge con le dovute garanzie, tanto più che alle Disposizioni Transitorie art. 23 il Centro Nazionale Trapianti ha agganciato vari artifici contro legge (Asl, anagrafe, carta d’identità, associazioni varie, medici di famiglia, tesserino Bindi, e altro) che non offrono alcuna garanzia alla persona, in particolare ai soggetti privi di famiglia; famiglia la quale mantiene -per chi non si è espresso in vita- il diritto di opposizione scritta entro le 6 ore dall’accertamento di morte cerebrale. Un diritto di veto molto importante nei confronti della volontà biopolitica che vede in ogni cittadino un fornitore di organi sostitutivi. E invece l’autrice stigmatizza il fatto che «le famiglie sembrano essere l’ostacolo principale alla donazione d’organi non solo in Italia, ma un po’ in tutto il mondo» (Ibidem).

Ovadia prosegue poi cercando -come sempre e banalmente avviene in questi casi- di suscitare sensi di colpa in coloro che non mettono a disposizione i propri organi. Sensi di colpa che vengono esplicitamente teorizzati da alcuni studiosi come utilissimi al fine di aumentare il numero dei cosiddetti donatori: «Bisognerebbe quindi puntare anche sui sensi di colpa di chi si rifiuta a priori di aderire alle campagne di donazione» (82). Viene auspicata la presenza di psicologi “esperti in donazioni” e si raccomanda di distanziare l‘«annuncio  di morte dalla richiesta di donazione», allo scopo di far crescere le possibilità di una risposta consenziente da parte della famiglia (80). L’articolo giudica eccessivo il timore di molti «che, in caso di gravi incidenti, chi ha autorizzato l’espianto degli organi dopo la morte non riceva gli interventi che potrebbero salvargli la vita» (81). E invece è proprio questo che troppo spesso accade, come documentano ampiamente i casi raccolti e denunciati dalla Lega Nazionale Contro la Predazione di Organi e la Morte a Cuore Battente .

La questione scientifica ruota intorno al concetto di morte cerebrale, che molti studiosi danno per indiscutibile e che invece è soltanto una delle possibili letture di un fenomeno assai complesso qual è il morire. Ovadia scrive che «secondo gli standard medici attuali, la morte cerebrale è considerata il segnale certo del decesso di una persona. La legge italiana consente l’espianto degli organi solo se la morte cerebrale è constatata da tre medici -tra cui un neurologo- facenti parte di un’apposita commissione e dopo 24 ore di osservazione senza modificazioni dello stato del paziente» (79). In realtà le ore richieste dalla legge sono 6 e non -come scrive Ovadia- 24 e di fatto accade regolarmente che persino tempi così ristretti non vengano rispettati; accade che la fretta –nel caso dei trapianti la velocità è tutto-, le menzogne, gli interessi economici, lo sciacallaggio conducano a macellare dei corpi vivi. Il concetto di morte cerebrale è infatti sottoposto in ambito scientifico a discussioni e a critiche radicali e invece nella pratica lo si utilizza per legittimare comportamenti gravissimi per la dignità delle persone.

Sulla questione dei trapianti convergono elementi assai diversi quali: slanci etici da parte dei singoli; interesse personale nel caso prima o poi si avesse bisogno di organi altrui; grave disinformazione da parte del mainstream mediatico; pressappochismo e incompetenza dei decisori politici (e a volte anche corruzione); indecidibilità scientifica e filosofica sull’esatto statuto ontologico del morire; enormi -e preponderanti- interessi finanziari da parte di una varietà di soggetti.
Non si tratta di stabilire statisticamente se e quanti escano dal coma cerebrale. Si tratta di impedire che il bisogno di organi e il loro scambio medico-affaristico prendano il sopravvento sul diritto di ciascuno di essere curato con la massima attenzione possibile, senza che i corpimente ancora pulsanti diventino un semplice materiale di ripristino di corpimente altrui, anche con le migliori intenzioni. Accettare un simile punto di vista apre infatti la strada all’affermarsi di una posizione che vede i singoli esseri umani come parte di un tutto che è lo Stato, il quale sarebbe autorizzato a entrare -letteralmente- dentro i corpi umani, dopo aver stabilito già da molto tempo il suo diritto a fare di questi corpi uno strumento di lavoro (sfruttamento), uno strumento di guerra (servizio militare), uno strumento di arricchimento (i corpi come destinatari dall’inarrestabile flusso pubblicitario televisivo), uno strumento di discriminazione specista (la vivisezione sui corpi degli altri animali e le pratiche a essa correlate). Si tratta di ciò che Michel Foucault ha ben descritto come biopolitica, vale a dire il culmine del potere e dei suoi strumenti di controllo sul singolo e sulle comunità.

 

Cantiere del ‘900 – 1963

1963 e dintorni.
Nuovi segni, nuove forme, nuove immagini

Gallerie d’Italia – Milano
Sino al 27 ottobre 2013

Milano ha un nuovo spazio dedicato all’arte contemporanea. Nel cuore della città una banca ha voluto dedicare all’arte le sale di un magnifico palazzo di sua proprietà. I nuovi signori si ricordano ogni tanto del mecenatismo praticato dai ricchi di altre epoche. L’ingresso in questo spazio è infatti naturalmente gratuito. Il Cantiere del Novecento si affianca al Museo del Novecento e ne completa la parabola cronologica sino agli sviluppi ultimi del secolo. Si possono dunque ammirare opere di autori italiani di ogni corrente, tra i quali Lucio Fontana e Alberto Burri. Fontana -del quale è presente anche una struttura in metallo che supera di slancio la distinzione tra pittura e scultura- preferiva definire le proprie opere non ‘quadri’ ma ‘concetti spaziali’ poiché, diceva, «per me la pittura sta tutta nell’idea». A questo proposito, in una delle sezioni campeggia una frase di Italo Calvino: «Lo spazio che occupano queste opere è soprattutto uno spazio mentale».

All’interno del Cantiere è stata allestita una mostra temporanea dedicata a 1963 e dintorni. Il 1963 fu un anno di svolta nelle pratiche artistiche e letterarie. Qui lo si ricorda attraverso delle opere realizzate in quell’anno o poco prima e poco dopo. Aperta da due quadri di Piero Manzoni e Francesco Lo Savio, la mostra presenta una grande varietà di materiali, forme, idee, intenzioni, ironie, drammaticità, ma tutte caratterizzate dal gioco geometrico e simbolico in cui consiste l’arte. Enrico Baj intitolò un suo dipinto del 1951 «Vedeteci quel che vi pare», in questo modo rispondendo a quanti ingenuamente vogliono sapere ‘che cosa significa’ un’opera; Giuseppe Uncini scrisse che «le forme non ‘stanno’ nello spazio ma ‘sono’ lo spazio». Immersi nel Cantiere, tra la creatività molteplice dell’invenzione artistica novecentesca, quest’affermazione risulta del tutto evidente.

 

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