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Lentezza / Animali / Diritto

Mente & cervello 113 – maggio 2014

M&C_113_maggio_2014«Peggio ancora: il cervello si abitua alla velocità e ne vuole sempre di più» (S. Bohler, p. 27). A (quasi) tutto infatti si abitua il cervello. E specialmente alle caratteristiche che riguardano la sostanza temporale del corpomente. E pertanto via via che il nostro vivere si fa trafelato, via via che diventa pieno di stimoli elettronici -quelli veicolati dai computer, dai cellulari, dalle tavolette-, il cervello si adatta e anzi ne vuole di più. Un tempo breve ma vuoto di tale pungolo ci sembra non passare mai e soprattutto ci appare vuoto di sostanza oltre che di eventi. Gli studi sempre più numerosi sulla struttura temporale dell’umano ci dicono però che sarebbe meglio abituarsi anche «a premere il freno per recuperare la lentezza» (Ibidem). L’accellerite cronica, coniugata all’utilizzo pervasivo degli strumenti di comunicazione personale, sembra produrre un vero e proprio tecnostress poiché per un ente del tutto temporale qual è l’essere umano «la sensazione di non avere abbastanza tempo è già in sé fattore di stress», in quanto «molti compiti, professionali o domestici, sarebbero gradevoli se disponessimo di abbastanza tempo per eseguirli. Ciò presupporrebbe però che limitassimo molte attività annesse: che trascorressimo meno tempo su Internet o davanti alla televisione, che perdessimo meno tempo sui mezzi di trasporto e così via» (C. André, 38). È una conferma del fatto che l’equilibrio psicosomatico (la salute mentale) consiste  in gran parte in un rapporto armonioso con il tempo che siamo.
Tempo che in un malato di Alzheimer sembra progressivamente dissolversi nell’oblio di ciò che si è stati, nella chiusura dei sentieri dell’ha da essere e quindi nell’inconsistenza dell’istante che si è. Una struggente documentazione fotografica di Fausto Podavini lo conferma nei gesti colmi di dinamismo di Mirella e nella reazione immobile e spenta di suo marito Luigi (pp. 60 sgg).
Tempo che sembra improvvisamente rallentare nei pochi secondi che trascorriamo all’interno di un ascensore in compagnia di sconosciuti. Ci comportiamo esattamente come delle scimmie chiuse in una piccola gabbia. Per noi umani come per loro «l’obiettivo è evitare in ogni modo lo scontro, che in spazi così ristretti e soprattutto con un individuo mai incontrato prima, potrebbe avere esiti imprevedibili». Questa e moltissime altre esperienze dimostrano «che allo specchio guardiamo una scimmia nuda» (M. Motta nella recensione a A che gioco giochiamo noi primati, di Dario Maestripieri, pp. 104-105).
Anche questo nostro legame assoluto con gli altri animali spiega perché moltissimi dei soggetti che scatenano la loro violenza sui conspecifici hanno da bambini e adolescenti torturato e ucciso animali di altre specie. È ormai accertata l’esistenza di «un legame statisticamente significativo tra le condotte crudeli contro gli animali e la delinquenza grave», un legame tra «la maniera in cui trattiamo gli animali e quella in cui trattiamo le persone non sono più separabili» (L. Bègue, 90 e 93). Non a caso gli adulti crudeli nei confronti di bambini, donne, anziani sono assai spesso crudeli anche verso gli altri animali. Si tratta infatti di infierire su soggetti più deboli e poco difesi.
Il criminologo Massimo Picozzi nella sua rubrica analizza il caso di Desirée Polverini, che nel 2002 venne aggredita e uccisa senza alcun motivo da un gruppo di adolescenti guidati da un adulto. Durante i processi che seguirono questo efferato delitto, in nessuno dei colpevoli venne trovato «un vizio di mente che ne limitasse la responsabilità» (15). Tutti ‘capaci di intendere e di volere’, tutti in grado di decidere. Non è vero, naturalmente. È infatti nella natura stessa di tali soggetti che sta la causa delle loro azioni. Il diritto cristiano moderno -non quello greco/pagano- è molto lontano dalla comprensione profonda dell’umano. Non bisogna cercare responsabilità, che non esistono. Basta limitarsi ai comportamenti e al danno che producono. E quelli punire. Come Edipo, che non sapeva ciò che faceva. Ma che viene punito lo stesso per ciò che aveva fatto. È questo la giustizia.

 

Cervello / Realtà

Brain. Il cervello: istruzioni per l’uso
Museo di Storia Naturale – Milano
Sino al 13 aprile 2014

Brain. Giant neuron-DFIl magnifico e potente organo che sta nel cranio di noi tutti è una struttura/funzione estremamente ricca, che millenni di studi vanno indagando, scoprendo sempre qualcosa di nuovo e ignorando di essa ancora molto. Questa mostra interattiva permette di entrare nelle connessioni cerebrali, di saggiare all’istante alcune delle capacità dei nostri cervelli, di verificare la potenza della percezione mediante la quale «pezzo per pezzo, il nostro cervello mette insieme la scena che vediamo», riconoscendo dunque che esiste certamente la materia ma non invece la realtà, la quale è una nostra costruzione poiché «gli esseri umani non si limitano a reagire al mondo così com’è» [le citazioni sono tratte dai pannelli presenti in mostra]. I ricordi, ad esempio, «non sono come le fotografie,  i ricordi cambiano». Cambiano sino a creare eventi mai accaduti e a dimenticare circostanze, fatti, persone, incontri, nozioni, dato che «ci sono anche dei vantaggi nello scordare».
La mostra -dal carattere principalmente didattico- è divisa in sette sezioni. Dopo uno spazio e un teatro introduttivi abitati dalle sinapsi in azione, si passa al cervello sensibile (i cinque sensi e i loro centri di coordinamento), al cervello emozionale (con un’attenzione particolare dedicata al ‘cervello rettiliano’, che determina ancora tante delle nostre azioni e reazioni), al cervello pensante (con la possibilità di mettere alla prova le nostre facoltà astrattive e logiche), al cervello mutevole (che conferma la «costante apertura al cambiamento, il potenziale enorme del nostro cervello»), per chiudere con il cervello del futuro che è già il nostro presente di entità cibernetiche e ibridate.
Da questo istruttivo e piacevole percorso emergono ancora una volta sia la complessità del mondo del quale il cervello (umano e animale) è parte, sia l’importanza del tempo nei processi cerebrali, nella percezione, nella semantizzazione del percepito. La dimostrazione più raffinata dei «poteri sorprendenti del nostro cervello» sta nel fatto che noi «siamo in grado di vivere nell’attimo, riflettere sul passato e immaginare il futuro», sta nel fatto che il cervello è materia che comprende la struttura temporale dell’essere e in essa è capace di agire.

 

Seneca. Sul Tempo

Il tempo è un dono ignorato. Gli umani sono gelosi dei propri beni, avidi di acquisirne altri, prudenti nel prestare le loro cose. Pochi, invece, si curano del tempo che regalano, che dilapidano, che utilizzano male: «Nemo aestimat tempus; utuntur illo laxius quasi gratuito» (Nessuno dà valore al tempo, lo si usa con superficialità, quasi non costasse niente. De Brevitate Vitae, 8). Perché accade questo? Poiché il tempo è inseparabile dall’interiorità. Viviamo il tempo che siamo per come siamo fatti. Con ansia, se siamo deboli; con indifferenza se il vuoto ci domina; con intensità se siamo saggi; sprecandolo se manchiamo di intelligenza. Ecco perché possedere il tempo implica il controllo del sé, la conoscenza e il dominio della nostra propria persona: «Id agamus, ut nostrum omne tempus sit: non erit autem nisi prius nos nostri esse coeperimus» (Cerchiamo di agire come se fossimo padroni del tempo: ma non sarà possibile se non saremo padroni di noi stessi. Epist. LXXI, 37)
Al di là della cadenza degli astri, dei ritmi del sole, dell’ordine del movimento secondo il prima e il poi, al di là della fisica, il tempo è per Seneca la proiezione non soltanto delle strutture cognitive della mente ma anche della sua tonalità emotiva. Il saggio, pertanto, non può che essere signore del tempo. Dentro di lui la temporalità si tinge del suo colore stesso, diventando carne del suo corpo, espressione dell’unico dominio possibile e reale: quello della mente. La filosofia coincide davvero con la decifrazione del tempo, con il suo scioglimento nella gioia disincantata del vivere: «Sapientis ergo multum patet vita; non idem illum qui ceteros terminus cludit; solus generis humani legibus solvitur; omnia illi saecula ut deo serviunt […] Longam illi vitam facit omnium temporum in unum collatio. […] Illorum brevissima ac sollicitissima aetas est qui praeteritorum obliviscuntur, praesentia neglegunt, de futuro timent» (E dunque si estende la vita del saggio; non sta chiusa in confini, come quella degli altri; libera da norme e da leggi comuni, gli evi sembrano stare al suo servizio come fosse la vita di un dio. […] La capacità di coniugare in uno la varietà temporale rende questo esistere lungo. […] Assai breve e angosciante è invece la vita di chi dimentica il passato, trascura il presente, del futuro ha paura. De Brev. Vit. 15-16).

 

Pensieri e parole

Mente & cervello 109 – gennaio 2014

M&C_109_gennaio_2014Poche parole, quasi sempre le stesse, e costruzioni sintattiche elementari. E tuttavia, tra i 25 e i 28 mesi della vita di un cucciolo di Homo sapiens, ascoltando tali espressioni il bambino comincia a parlare. Come può accadere una cosa simile? Da così pochi elementi nasce infatti la forza della comunicazione verbale, la sua potenzialmente infinita produzione -definita ricorsività-, la sua capacità di creare significati sempre nuovi, i quali eccedono «la somma semantica dei singoli elementi» -la compositività. (R.V. Solé, B. Corominas Murtra, J. Fortuny, p. 38). È il cosiddetto ‘problema logico dell’acquisizione del linguaggio’. Nonostante il grande sviluppo degli studi, risposte certe non ce ne sono. Risolvere, o almeno chiarire meglio, la questione consentirebbe di comprendere più a fondo non soltanto lo statuto della mente ma anche lo stesso processo dell’ominazione e l’identità della nostra specie.

Secondo molti scienziati fu l’apparizione del linguaggio a cambiare per sempre il nostro modo di adattarci al mondo. […] In fisica, si chiamano sistemi complessi quelli formati da un gran numero di elementi che esibiscono proprietà «emergenti». Queste ultime si distinguono perché, pur risultando dall’interazione di singoli elementi del sistema, non sono spiegabili come la semplice somma degli stessi. Il linguaggio umano appartiene a questa categoria di sistemi: come un formicaio non può essere descritto alla stregua di un semplice ammasso di insetti, così il linguaggio non è la mera giustapposizione di un insieme di parole [ma è un] sistema di comunicazione efficiente, flessibile e dotato di una capacità informativa illimitata. (Id., 33)

Il linguaggio umano è dunque una struttura olistica e non atomistica, legata in modo indissolubile alle facoltà mentali, alla capacità di elaborare rappresentazioni, concetti, scenari di realtà empiricamente non esistenti. Tra pensiero e linguaggio la dinamica è continua, incessante, anche se tra le tante cose che ignoriamo c’è anche la concreta modalità con cui tutto questo accade. Wernicke, ad esempio, riteneva che pensiero e linguaggio fossero due processi indipendenti; Vygotsky attenua la radicalità di tale distinzione con l’immagine di due cerchi sovrapposti, nella quale soltanto una parte dei due processi coincide; Jackendoff ritiene invece che «il linguaggio serve all’uomo non solo per esprimere i suoi pensieri, ma si riflette anche sui suoi pensieri, come una sorta di impalcatura che gli permette di creare ragionamenti più complessi rispetto agli organismi non linguistici» (cit. da C. Weiller, 26).
Anche dalla relazione che si istituisce tra pensiero e linguaggio nascono le diverse risposte date a un’altra questione fondamentale, quella del rapporto tra linguaggio e comportamenti. Per i sostenitori del ‘relativismo linguistico’ il linguaggio influenza il pensiero e dunque linguaggi diversi generano differenti concezioni della realtà e diversi modi di vivere in essa; a tale concezione di oppongono i sostenitori dell’universalismo linguistico, i quali affermano «che il linguaggio, pur con differenze superficiali, ha radici universali, e che i processi cognitivi sono gli stessi per tutti gli esseri umani» (F. Sgobissa, 48).
In realtà credo che anche questa discussione sia inficiata da un eccesso di dualismo. Pensiero e linguaggio sono espressioni diverse e profondamente correlate del corpomente immerso in uno specifico ambiente. Tale ambiente influenza quindi il pensiero che lo conosce, le parole che lo dicono, l’azione che in esso accade. E questo non in una direzione soltanto ma sempre in tutte. Mondo → Pensiero → Linguaggio diventano nel concreto esistere umano una sola realtà che si fa incessantemente Linguaggio → Pensiero → Mondo. E così via, senza fine sino alla fine.

 

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