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Baci

Mente & cervello 134 – febbraio 2016

M&C_134_febbraio_2016Innato e appreso non sono in contraddizione ma costruiscono insieme la continuità dell’umano e di molti altri animali. L’intelligenza ha certamente delle basi biologiche e genetiche -che la costituiscono per il 40% circa- ed è poi «ovvio che un potenziale cognitivo su basi genetiche si esprime in un ambiente adatto, vale a dire dipende da fattori sociali scolastici, dal crescere in un ambiente stimolante e via dicendo» (A. Oliverio, p. 18)  Per questa e per altre ragioni, la tesi di Noam Chomsky sulla grammatica interna -e quindi innata- del linguaggio è assolutamente plausibile, nonostante le critiche che da più parti le vengono rivolte: «Una ricerca pubblicata su ‘Nature Neuroscience’ sembra però offrire una prova alla presenza di un meccanismo cerebrale che consente di costruire un’organizzazione gerarchica per comprendere il linguaggio» (V. Daelli, 20).
Innato è il sentimento amoroso, nella varietà assai complessa delle sue forme storiche e strutture psichiche. Tra di esse le più importanti sono quelle che i Greci definivano Eros, Philia e Agape, l’amore passionale, l’amore materno e amicale, il sentimento universale di condivisione del medesimo destino.
Al tema è dedicato il dossier di questo numero della rivista. Uno degli articoli si occupa del bacio, pratica non così universale come di solito si ritiene: «Nel complesso, Jankowiak ha osservato 77 culture in cui il bacio romantico era presente e 91 in cui era assente» (F. Sgorbissa, 34). Nata molto probabilmente in India tra il 1500 e il 1200 a.C., la pratica del bacio venne diffusa tramite le conquiste di Alessandro il Grande e divenne poi dominante a Roma. Da qui è transitata ovunque in Europa e nel Mediterraneo. Le ricerche di Jankowiak mostrano che c’è una correlazione tra la pratica del bacio e le condizioni economiche e culturali di una società: «Più è complessa una cultura maggiore è la probabilità che gli individui si bacino». Il piacere erotico ha infatti «una componente di provocazione e ‘attesa’ […] e solo le società che possono permettersi di perdere tempo in attività di intrattenimento possono aver sviluppato il bacio» (Id., 34). Questo dato non è affatto in contraddizione con la constatazione che molti altri animali, in particolare i nostri cugini primati, si bacino. Le ragioni sono ovvie e legate al piacere che il bacio offre e scatena ma si può anche aggiungere che le società composte da altri animali hanno di solito molto più ‘tempo libero’ di quelle umane -«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre» (Mt., 6,26). Espressione della Philia è anche la compassione, l’essere sensibili alla sofferenza degli altri, unita al desiderio di alleviarla. Più che l’autostima, è l’autocompassione a costituire una condizione di equilibrio, purché naturalmente non diventi un alibi: «Essere aperti alla propria sofferenza e gentili con se stessi, non condannarsi ed essere consapevoli che la sofferenza accomuna tutti, così da non sentirsi soli e non provare vergogna» (F. Cro, 54).
In questa nostra debole e dolorosa esistenza possiamo comunque contare su molte e differenti risorse. La prima è il corpo stesso che siamo, un dispositivo fragile ma anche potente, come è confermato dagli studi sulla neuromodulazione, i neurotrasmettitori, gli endocannabinoidi che il corpo genera per affrontare i momenti più delicati della vita e dei giorni. Kevin Tacey sostiene giustamente che «il nostro corpo è un’enorme industria farmaceutica. Chi scoprirà il modo per modulare la produzione endogena dei neurotrasmettitori in maniera precisa e accurata avrà trovato la chiave per curare un gran numero di patologie neurologiche e psichiatriche» (98).

Tre questioni

Mente & cervello 132 – dicembre 2015

M&c_132Tre affermazioni contenute in questo numero di Mente & cervello ribadiscono la natura profondamente filosofica della riflessione sul corpomente.
La prima è che tale corpomente costituisca -ancora una volta- un dispositivo semantico volto a trovare e donare significato e senso al mondo. Persino lo stato iniziale delle allucinazioni costituisce un’espressione di tale necessità, essendo anche le allucinazioni una modalità di interpretazione di qualcosa che non si comprende: «Il nostro cervello tende infatti a interpretare il mondo attraverso conoscenze pregresse permettendoci di costruire in tempi rapidi una visione coerente dell’ambiente fisico e sociale col quale interagiamo. In particolare questo accade nella visione, un processo in cui il cervello ‘inventa’ quello che vediamo riempiendo i vuoti e ignorando ciò che non è idoneo all’immagine che ci aspettiamo» (G.A. Fornaro, p. 22).
La seconda affermazione corrobora la tesi kantiana della autonomia dell’ambito morale dalle religioni. Sembra infatti che «bambini i quali crescono in famiglie molto religiose tendono a essere meno altruisti dei loro coetanei», sulla base della ‘licenza morale’ che molte religioni danno a se stesse, «per cui se si fa qualcosa di ‘buono’, in questo caso si pratica una religione, ci si preoccupa meno delle conseguenze di un altro comportamento che non è morale». Ho conosciuto membri del movimento ecclesiale Comunione e Liberazione, i quali sostengono apertamente che ‘il fatto religioso’ ha diritto di infrangere -se necessario- le norme morali in nome della superiorità intrinseca di quel fatto stesso. Se ne può concludere che «la secolarizzazione della società e della morale può servire ad aumentare e non a diminuire la bontà umana» (S. Romano, 20).
La terza questione riguarda la consapevolezza del morire, che non è soltanto umana -come troppo spesso si ripete- ma è presente anche in molti altri animali, tra i quali una delle specie più vicine alla nostra intelligenza, vale a dire i corvi: «Creature straordinarie […] questi animali hanno una comprensione della morte dei conspecifici e la usano per valutare i pericoli per se stessi»; il testo di Federica Sgorbissa (p. 23) mostra le forme di tale consapevolezza.
Il dossier di questo numero è dedicato all’umorismo, al sorriso, al riso, alla loro necessità per la salute mentale individuale e collettiva. Come afferma Zarathustra, «questa corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: a voi, fratelli, getto questa corona! Io ho santificato il riso; uomini superiori, imparatemi – a ridere!» (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, IV, «Dell’uomo superiore», trad. di M. Montinari, Adelphi 1979, p. 359).

Intelligenze

Mente & cervello 130 – ottobre 2015

M6C_130_ottobre_2015La ‘scientificità’ della psicologia è assai scarsa, anche se molti psicologi pretendono che sia loro riconosciuta un’autorità simile a quella dei fisici, o almeno dei biologi: «Meno della metà di 100 studi di psicologia, pubblicati nel 2008 su tre riviste di primo piano, ha retto alla prova della replicazione. […] Anche in questi, poi, l’entità degli effetti trovati era in media della metà rispetto allo studio originale» (G.Sabato, p. 19). Si tratta, insomma, di una scienza umana a tutti gli effetti.
Tra i testi di psicologia, uno dei più noti è Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza (1983). Delle otto principali forme di intelligenza descritte e analizzate da Howard Gardner -e che possederemmo tutte, anche se ciascuno in modo assai differenziato- «sotto l’influenza del nostro bagaglio genetico, della cultura, delle nostre esperienze e della nostra storia personale abbiamo sviluppato alcune dominanze o preferenze che si manifestano attraverso la nostra personalità, le scelte di vita e il nostro stile di apprendimento» (G.Sirois, p. 30). Questo significa anche che l’interazione tra la mente e il mondo è completa e profonda.
Lo conferma una tesi di Heidegger sul linguaggio, secondo la quale si abita in una lingua come si vive in un mondo. Mutare lingua significa dunque cambiare la modalità e le forme del nostro esserci. Un cambiamento che arriva a toccare gli stessi principi morali. Sembra infatti che le valutazioni sui comportamenti espresse in una lingua ben posseduta ma diversa dalla lingua madre siano piuttosto differenti rispetto a quelle pensate e comunicate in quest’ultima: «I bilingue a volte usano la lingua materna quando vogliono sentire appieno l’impatto di un argomento, e passano invece all’altra lingua per distanziarsene emotivamente», poiché «l’effetto lingua straniera trae la sua influenza dal retroterra etico della cultura cui ciascuna lingua si riferisce» (C. Caldwell-Harris, 84).
Differenze, varietà, molteplicità, rendono del tutto illusoria ogni gerarchia tra gli enti e dunque tra i saperi e i loro linguaggi, poiché non esiste «una specie di scala del progresso, che culmina in Homo sapiens. Si tratta di un assunto scientificamente insostenibile, che contraddice ciò che da tempo sappiamo, e cioè che non esistono scale dei viventi, ma ramificazioni nel cespuglio evolutivo» (A.R. Longo, 104).
L’antica intuizione di Senofane, sulla comunanza di tutte le specie nel mondo, viene confermata di continuo. Soltanto lo stolto antropocentrismo di alcune filosofie e di molte religioni può sostenere la superiorità ontologica della materia umana rispetto alla materia tutta.

Infantilizzati / Sottomessi

Mente & cervello 129 – settembre 2015

M&C_129Trentenni visti e trattati -da genitori, coetanei, istituzioni- come se fossero degli adolescenti; caratteri timidi ai quali la V e recente edizione del Diagnostic and Statistical Manual affibia l’etichetta di «fobia sociale»; giovani e adulti dati in pasto alla fuffa infinita e al nulla della bacheca di facebook. Questi e tanti altri sono i diversi modi con i quali l’autorità e il Capitale (sì proprio quello, anche se ad alcuni appare ormai disdicevole pronunciare tale parola) si assicurano acquiescenza, tranquillità, dominio. L’esistenza individuale e collettiva è patologizzata, infantilizzata, sottomessa.
Della ricchezza dei linguaggi rimangono le grottesche parodie dei social network, resta un lessico sempre più povero e banale, rimane un’immensa ondata di stupidità collettiva. Il linguaggio, invece, «è sicuramente una Babele, ma dai confini invalicabili» (P. Garzia, p. 105), è una ricchezza culturalmente feconda e biologicamente preziosa. Ricchezza di significati che deve essere quanto più possibile impoverita da chi comanda, poiché ogni parola nuova e soprattutto ogni parola difficile è di per sé una parola ribelle all’ordine della facilità con cui si vorrebbe nascondere la complessità del mondo, delle relazioni, della natura, della politica.
Complessità la quale fa sì che «se vogliamo capire come funziona la mente umana, dobbiamo prendere in considerazione il modo in cui entriamo in relazione non solo con altri esseri umani ma anche con ogni genere di essere vivente» (Redazione, 25). Siamo infatti gregari obbedienti all’ordine del branco, ma siamo anche corpimente capaci di smascherare la menzogna di cui quest’ordine è intessuto.

Felicità

Mente & cervello 127 – luglio 2015

Essere tristi è un diritto dell’umanità e dei singoli umani, gettati in un mondo di tristezza e di morte. Il dovere degli umani è tuttavia essere felici, cercare di esserlo in tutti i modi che non moltiplichino gratuitamente e insensatamente il dolore del mondo. È quanto pensano anche alcuni psicologi, come Christophe André il quale afferma che «proprio perché la vita è dura la felicità, in alcuni momenti, è indispensabile. Ed è proprio perché la nostra esistenza ci riserverà di sicuro una serie di momenti bui che la felicità non è un lusso né un accessorio, ma una gioiosa necessità» (p. 68).
La felicità è un’esperienza assai complessa, che richiede elementi caratteriali, tra i quali la resistenza a un troppo facile sentimento di negatività dal quale alcuni soggetti vengono travolti. Altre condizioni riguardano la pienezza degli eventi, nel senso che non è possibile trovare gioia in situazioni o eventi troppo banali -«i livelli più alti di felicità non si raggiungono mai guardando la televisione» (69)- e soprattutto nel senso che a essere determinante non è ciò che ci succede ma l’interpretazione che ne diamo. Il maestro Arthur scrive infatti che «quando ad esempio degli uomini invidiano altri per gli avvenimenti interessanti in cui si è imbattuta la loro vita, dovrebbero piuttosto invidiarli per la dote interpretativa che ha riempito siffatte vicende del significato, quale si rivela attraverso la loro descrizione» (A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, Tomo I, a cura di Giorgio Colli, Adelphi 1981, p. 426).
L’ultima e la prima condizione della felicità umana è la conciliazione con il tempo che va e con il tempo che si è. Perché il tempo intesse tutta la materia e la materia che noi stessi siamo. Alla lettera. Infatti «uno studio pubblicato su ‘Currenty Biology’ sostiene di aver individuato una regione nel cervello che tiene traccia dell’informazione tempo, del suo scorrere, e questa zona si troverebbe nello striato» (M. Maccarone, 19). Il cervello è tempo in azione, il cervello non è soltanto un ente ma è anche un evento.

La sperimentazione animale non è una pratica scientifica

Mente & cervello 126 – Giugno 2015

topi«La mente umana è un prolifico generatore di credenze sul mondo» (D. Ovadia, p. 28). La mente umana è dunque, come spesso in questo spazio si ripete, un complesso dispositivo semantico, il cervello è una potente macchina ermeneutica. La mente non è una res ma è un fieri, non è ciò che fa la struttura cerebrale ma è ciò che accade all’intero corpo che nel mondo è immerso. Si va sempre più affermando anche in ambito neurologico e medico ciò che molti filosofi (non tutti, certo) sostengono da millenni, vale a dire l’unità dell’essere vivente, non riducibile a nessuna delle sue funzioni e strutture. «Infatti i processi cognitivi  non sono separati dal corpo, ma nascono solo quando percepiamo il mondo e ci muoviamo al suo interno. Questo approccio prende il nome di embodiment o embodied cognition, ossia ‘cognizione incorporata’. Questa teoria non è nuova. Da tempo filosofi e psicologi si chiedono che rapporto abbiano corpo e mente. La ricerca sulla embodied cognition propone una spiegazione nuova: nei primi anni della nostra vita facciamo esperienze concrete, per esempio impariamo che cosa significa la pulizia del corpo. È su questa base che poi sviluppiamo concetti simili ma astratti, come le idee della pulizia morale e della virtù. Questi concetti però restano legati alle proprietà fisiche» (K. Kaspar, 99). Recensendo un volume di Norman Doidge, Pierangelo Garzia conferma che «così come abbiamo fatto con il dualismo corpo-anima, dovremmo una buona volta deciderci a non vederci più neppure come corpo-cervello. Ma come un tutt’uno» (p. 104).
Queste antiche e rinnovate convinzioni confliggono in modo persino stridente con le superstizioni riduzionistiche che tendono a uniformare la complessità e la differenza della vita in paradigmi che ne smarriscono la molteplicità, la non riducibilità l’una all’altra di strutture, funzioni, modelli, specie. Un appiattimento che ai suoi sostenitori costa sempre più fatica, dubbi, performance dialettiche (assai poco scientifiche, in verità). E così, pur convinto che «i test con gli animali saranno inevitabili anche in futuro» (p. 94), Christian Wolf analizza i limiti dei modelli animali e ammette che essi sono spesso sbagliati e radicalmente  insufficienti. Una delle ragioni è che i ricercatori, pur di ottenere ancora i finanziamenti necessari ai propri progetti, nascondono i fallimenti terapeutici dei farmaci testati su altre specie e applicati agli umani. Fallimenti che sono assai frequenti. «Anche uno studio del 2010 sospetta che gli studi su animali con risultati negativi siano repentinamente messi nel cassetto. […] Questi studi vengono dunque esclusi dalle rassegne panoramiche, e la terapia sarà vista sotto una luce più positiva del dovuto» (p. 95). Un’altra ragione dei fallimenti è costituita dalla semplice ma decisiva circostanza «che alcuni meccanismi cellulari dell’uomo e dell’animale sono molto differenti» (92) e che di conseguenza i topi (vittime predilette di tali pratiche) non sviluppano spontaneamente alcune malattie che negli umani sono invece frequenti e gravi. Una di esse è il morbo di Parkinson, che bisogna dunque indurre artificialmente nella struttura fisiologica dei topi. Il risultato è che «i pazienti non miglioravano con la terapia. In definitiva, i topi erano serviti solo come modello della formazione della placche amiloidi nel cervello» (95). Vale a dire che il loro sacrificio non era stato soltanto inutile ma anche sviante rispetto a dei farmaci davvero adeguati.
«Alla luce di queste argomentazioni, è plausibile che buona parte degli interventi efficaci negli animali si siano rivelati un fiasco nella realtà clinica» (92). Ma inerzie metodologiche, pregiudizi epistemologici, paradigmi errati ed enormi interessi finanziari in gioco continuano a mettere a rischio la salute umana e a causare inaudite sofferenze ad altri animali.

Medea / Münchausen

Mente & cervello 125 – maggio 2015

Amphora with Medea Ixion PainterIl cognitivismo ha rappresentato una spiegazione della mente condivisa da molti studiosi. Ma ormai mostra crepe sempre più evidenti e lo fa in una miriade di campi. Uno dei più importanti è il linguaggio, un tempo roccaforte dei cognitivisti. E invece si scopre che nell’apprendimento di una lingua «ciò che è cruciale è che alla capacità computazionale di tipo statistico sia affiancato un ambiente sociale, che è naturalmente il contesto primario e la ragion d’essere per lo sviluppo del linguaggio» (S.Gozzano, p. 9). Parlare è un’attività olistica, insomma, come tutte le funzioni umane, comprese quelle più specificatamente mentalistiche. La memoria, ad esempio, non è fatta di un accumulo cognitivo di dati ma di una complessa dinamica di «dimenticanza adattativa», di ricordo e di oblio (M.Semiglia, 20). L’apprendimento, poi, è una struttura insieme unitaria e costituita da molteplici componenti, tanto da risultare impoverita dall’utilizzo di strumenti veloci ma passivi -come i computer- rispetto a strumenti più lenti che però permettono di selezionare, riflettere, ricreare l’appreso. Il titolo dell’articolo di Cindi May –In aula meglio la penna del pc (102)- è persino irridente nei confronti dei molti pedagogisti e didatticisti, tutti presi da un patetico entusiasmo nei confronti delle macchine per imparare. In realtà, «anche quando consente di fare di più in meno tempo non sempre la tecnologia serve a imparare. Nell’apprendimento c’è qualcosa di più che ricevere e ingurgitare informazioni- […] Per prendere appunti, agli studenti servono meno gigabyte e più cervello» (103).
Un ambito tanto delicato quanto colmo di pregiudizi è quello della maternità. La figura della madre ‘buona’ per definizione è del tutto falsa. Una miriade di esperienze lo dimostra. Medea è davvero una metafora efficace di quanto di oscuro si muove nella maternità. Clamorosi e drammatici sono i casi di Münchausen Syndrome by Proxy (MSbP), la sindrome di Münchausen per procura, nella quale le mamme attribuiscono ai figli malattie inesistenti, allo scopo di concentrare l’attenzione su se stesse. Nei casi più gravi, tali madri mettono a rischio la vita stessa dei figli, sino a ucciderli. Non si tratta di semplice ipocondria per procura -quando la madre è davvero convinta che il figlio sia malato, anche se non è vero-, «le mamme Münchausen sanno perfettamente che il bambino non ha niente, e cercano deliberatamente il dramma, nel quale sono protagoniste […] in una sarabanda di bugie che sempre più spesso oggi si avvale di Internet e dei social media per amplificare l’attenzione coinvolgendo più persone. E senza preoccuparsi delle possibili conseguenze sul bambino» (P.E.Cicerone, 92). Forse non è balzana la richiesta «che i genitori siano dotati di una sorta di patentino prima di essere autorizzati a procreare» (D.Ovadia, 55). In tutto questo c’è una magnifica ironia: si tratta infatti di un’antica proposta platonica, che oggi viene ripresa nell’ambito dei diritti umani, in questo caso il diritto del bambino ad avere dei genitori decenti.

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