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Salute, tristezza, iPhone

Mente & cervello 95 – Novembre 2012

 

Salute e malattia non sono dei concetti universali, non sono dei dati di fatto assoluti. Tanto più questo è vero nell’ambito complesso del corpomente. Lo confermano i mutamenti anche radicali del concetto di malattia mentale e della catalogazione dei disturbi della psiche. Nel maggio del 2013 uscirà la quinta edizione del DSM, Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, pubblicato per la prima volta nel 1952. In questi sessant’anni il DSM ha cancellato numerosi comportamenti prima definiti patologici, dichiarando o la loro “normalità” -l’omosessualità, ad esempio, dal 1974 non è più una malattia- o l’insufficienza dei dati clinici necessari a darne una definizione psichiatrica. In questa nuova edizione viene eliminata dalla nosografia ufficiale la “personalità isterica”, sostituita da vari disturbi di personalità borderline. In compenso, si procede alla patologizzazione di una condizione umana tanto diffusa quanto naturale: la tristezza. Essa viene sempre più spesso classificata come depressione e in questo modo segnata da un crisma patologico che non le appartiene. A mettere in guardia da questi sviluppi tipicamente biopolitici sono importanti psichiatri quali Allen Frances o Allan Horwitz, i quali paventano il rischio di medicalizzare «momenti dell’esistenza e comportamenti non necessariamente patologici, come il lutto, i capricci, gli eccessi alimentari, l’ansia e la tristezza, il lieve declino cognitivo dell’anziano» (F. Cro, p. 66).
Un’altra prova del fatto che «tutta la letteratura sui disturbi di personalità è fondata sulle sabbie mobili» (Id., 62) è fornita dalla sindrome autistica. Rispetto al passato, infatti, si tende oggi a sostenere che «essere autistici è una differenza, non un deficit. Essere autistici è avere un’altra mente» (M. Cattaneo, 3), anche se si ammette che «quale che sia la sua forma, la sindrome autistica dà luogo, per tutta la vita della persona che ne è colpita, a difficoltà di adattamento importanti, che hanno un impatto negativo sulla qualità della vita del soggetto e su quella del suo ambiente familiare» (L. Mottron, 26).

Se e quando esisteranno, le Intelligenze Artificiali saranno sottoposte anch’esse al rischio della malattia mentale? Herbie, il robot protagonista di uno dei racconti di Isaac Asimov, posto di fronte a un dilemma insolubile, a un circolo vizioso logico, impazzisce e muore dopo aver lanciato un urlo «acuto, lacerante, come pervaso dallo strazio di un’anima perduta» (I. Asimov, Io, robot, Mondadori 2003, p. 153). Prima di eventualmente ammalarsi, però, queste IA dovrebbero esserci. Crearle è l’obiettivo di numerosi laboratori di ricerca, i quali tentano di produrre dei robot da compagnia in grado di sostituire gli umani nella cura di anziani e bambini. Le difficoltà sono naturalmente enormi. Tali macchine, infatti, dovrebbero essere senzienti, vale a dire dovrebbero avere «la capacità di integrare percezione (stimoli provenienti dall’esterno), la cognizione (ciò che noi chiamiamo pensiero) e l’azione in una scena e in un contesto coerente, in cui l’azione stessa può essere interpretata, pianificata, generata o comunicata» (D. Ovadia, 71). In altri termini, i ricercatori lavorano non più sull’intelligenza logico-formale (che l’ampio dibattito nato a proposito dell’esperimento mentale della Stanza cinese di Searle ha mostrato essere del tutto insufficiente) ma sulla Embodied Cognition, «la capacità del corpo di avere una mente a sé, di essere l’elemento di cerniera tra il pensiero e l’ambiente» (Id., 72). Paolo Dario osserva giustamente che «esiste già un perfetto robot da compagnia, ed è molto più diffuso di quanto si pensi: è l’iPhone» (Id., 71); lo è in molte delle sue funzioni e in particolare in Siri, il programma che è capace di parlare con l’interlocutore umano comprendendo -entro certi limiti- il nostro linguaggio naturale.
Daniela Ovadia ha chiesto a Siri “mi vuoi bene?”, «ricevendo in cambio la criptica risposta “non ho molte pretese”» (Id., 74). Io ho cercato di intavolare con Siri una conversazione sul tema dell’amore, al che -in modo direi piuttosto intelligente, non foss’altro che per la sua umiltà- l’IA mi ha risposto così: «Per questo tipo di problemi ti consiglio di rivolgerti a un umano, possibilmente esperto». Al di là di queste provocazioni di chi lo usa, Siri è davvero utile. Quando cammino in bicicletta, ad esempio, le chiedo (la voce è femminile) che ore sono, qual è la temperatura, di farmi ascoltare un determinato brano. Le sue risposte sono sempre immediate ed esatte. Se la ringrazio dicendole che è molto brava, mi risponde in vari modi, tra i quali «Lo sai che vivo per te». L’ironia (o la paraculaggine) di quest’ultima risposta sarebbe un segno sicuro di intelligenza se Siri fosse consapevole di ciò che sta dicendo. Ma non lo è. E la mia previsione è che le IA non lo saranno mai, a meno di essere implementate su dei corpi protoplasmatici, “di carne e sangue”.
Solo l’unità del corpomente, infatti, è intelligente. E cangiante. Ed ermeneutica. «La nostra memoria», afferma Donna Bridge, «non è statica. Se ricordiamo un evento alla luce di un nuovo contesto e di un periodo diverso della nostra vita, la memoria tende a integrare dettagli differenti e inediti» (22). Non basta quindi neppure la corporeità, è necessario che essa sprofondi nel tempo.

Che la mente umana abbia struttura e funzione ermeneutica è confermato dal fatto che «una rapida analisi visiva dell’andatura ci può informare sulla vulnerabilità di una persona», sul suo sesso, sull’età, sullo stato emotivo, sulla condizione sociale (N. Guèguen, 55). Il corpo parla, lo sappiamo, e lo fa ad alta voce quando cammina. Conosco un soggetto che dalla sola andatura è classificabile come una specie di guappo. E infatti lo è. Anche quando vorrebbe nascondere questa sua caratteristica, essa emerge con chiarezza dal movimento nello spazio.

Mente & cervello 93 – Settembre 2012

L’esperienza che più di ogni altra plasma di sé l’esistere è apparentemente una non esperienza. È il morire. Morire, appunto, e non morte. Se la propria morte non è per definizione esperibile, la consapevolezza di dover morire ci accompagna quasi sin dall’inizio del vivere. Non pensarci non serve a nulla, anzi peggiora la situazione, come mostra M. Weiderman. Intendendo per “motivi estrinseci” degli obiettivi puramente economici ed esteriori e per “motivi intrinseci” stili di vita che si soffermano sugli elementi gratuiti e immateriali della vita, si è scoperto che «le persone che perseguono obiettivi intrinseci riescono meglio di chi persegue cose materiali a tenere a bada l’ansia associata alla morte. […] Obiettivi di vita intrinseci e creazione di significato appaiono centrali nel venire a patti con la nostra mortalità» (p. 74).

Non temiamo solo la morte. Tra le altre numerose ragioni di inquietudine c’è l’insicurezza costante sull’integrità del corpo che siamo. Insieme alla propriocezione -la percezione della condizione del corpo a ogni istante- è sempre attivo anche lo spazio peripersonale, i circa dieci centimetri intorno a noi nei quali non deve entrare nessuno senza il nostro permesso, né persone né altri animali né oggetti. «È come una bolla di sicurezza, che espande i bordi del corpo percepito oltre i suoi limiti fisici, in modo non cosciente» (G. Sabato, 51). Lo spazio peripersonale è una delle strutture fondamentali del Leib, del corpo proprio, vivente e vissuto. È una condizione che discende direttamente dal meno valorizzato dei sensi ma che forse è il più importante di tutti, il tatto. Aristotele ne aveva ben compreso la rilevanza. Nel II libro del De Anima scrive infatti che «in tutti gli animali la prima facoltà sensitiva è il tatto»; «anche a proposito dei sensi accade qualcosa di simile, perché alcuni animali li possiedono tutti, altri ne possiedono alcuni, e altri infine solo uno, quello cioè che è il più necessario, il tatto» (413b); «senza la facoltà tattile non esiste alcun altro senso, mentre il tatto può esistere senza gli altri sensi, perché molti animali non possiedono né vista né udito né il senso dell’odorato» (415a); «l’uomo ha quest’ultimo senso, cioè il tatto, in forma assolutamente acuta; negli altri sensi, infatti, l’uomo è inferiore a gran parte degli altri animali, ma per il tatto è particolarmente più acuto rispetto agli altri animali; perciò è anche l’animale più saggio» (421a) [traduzioni di Giovanna R. Giardina].
Un ampio articolo dà ragione ad Aristotele mostrando come il tatto «non solo ci procura una varietà di informazioni vitali sull’ambiente, ma è anche alla base della rappresentazione che costruiamo del nostro corpo, dell’autocoscienza fisica»; «la pelle è il confine del corpo, e ogni contatto con un oggetto circostante non ci informa solo sull’ambiente esterno ma anche sul corpo stesso» (G. Sabato, 48 e 50).
In generale tutti i sensi sono tra di loro profondamente intrecciati e su tale unione si fonda la percezione dell’esistere e la possibilità di pensare. La “memoria involontaria” di Bergson e di Proust scaturisce da tale intrico di sensibilità e ricordo, come numerose ricerche neurobiologiche vanno confermando. Siamo tutti un po’ sinestetici, tutti intrecciamo in forme blande e inconsapevoli le differenti percezioni. Anche per questo le intelligenze artificiali rimangono così stupide, perché sono incapaci di vedere suoni o toccare odori: «È proprio ai sensi, prima che alla velocità di elaborazione, che dovranno guardare gli esperti di intelligenza artificiale per riuscire a costruire una macchina pensante» (M. Cattaneo, 3).

Un altro importante tema discusso in questo numero di Mente & cervello è il rapporto tra empatia e violenza. Rispondendo alle domande di P.E. Cicerone il ricercatore britannico S. Baron Cohen spiega che «ci sono tre disturbi psichiatrici che possiamo definire a empatia zero, un termine che uso per indicare un livello negativo per gli individui stessi e per la società. Il disturbo borderline di personalità, che porta chi ne soffre a frequenti sbalzi di umore e ricatti affettivi. Poi la personalità psicopatica o antisociale: chi ne soffre è una persona apparentemente attraente, che però usa il proprio fascino per ottenere dagli altri ciò che vuole. E una patologia meno nota, il disturbo narcisistico di personalità, che spinge gli individui a preoccuparsi solo di se stessi. Queste sono le classificazioni ufficiali, ma potremmo definire questi disturbi anche in relazione alla mancanza di empatia» (69). Dato che il grado di empatia di un soggetto è un fattore sia ambientale sia genetico, ritorna -inesorabile come il convitato di pietra presente in tutte le discussioni etiche- la questione del libero arbitrio: «Se qualcuno commette un crimine a causa dello sviluppo o del funzionamento del suo cervello, fino a che punto possiamo considerarlo responsabile?» si chiede Baron Cohen (71). La risposta, come più volte ho ripetuto anche su questo sito, consiste nel separare la colpa dal danno. Non è necessario che un soggetto sia responsabile di ciò che fa perché se ne limiti l’eventuale azione dannosa. Come anche Spinoza ha chiarito assai bene, la confusione tra questi due concetti -danno e colpa- è grave e ingiustificata.

Vedere la crudeltà, vedere le illusioni (come il libero arbitrio). Vedere è la capacità prima dell’umano. E anche questo i Greci sapevano. Theorein vuol dire insieme osservare e pensare. E «ora si sta scoprendo che alcuni dati visivi sono sfruttati per usi differenti dalla vista, magari per scandire interiormente il tempo e per controllare inconsciamente il movimento. In effetti, i meccanismi sensoriali potrebbero essere del tutto differenti, e avere inizio da minuscoli sensori luminosi della retina» (A. Bleicher, 28).
Luce e tempo sono forme diverse della stessa realtà, come tutti i saggi hanno sempre saputo.

Mente & cervello 92- Agosto 2012

Siamo ricordi che camminano nello spaziotempo. I ricordi però non descrivono l’accaduto bensì come l’accaduto appare di volta in volta alla nostra mente. La memoria, infatti, è un processo dinamico: «Rievocare un ricordo lo riporta temporaneamente in una condizione di instabilità, in cui la ricerca può essere arricchita, modificata o addirittura cancellata» (A. Piore, p. 86). Ogni volta che ricordiamo un evento esso si modifica un poco nella nostra mente. Questa caratteristica della memoria rende per principio possibile la cancellazione dei ricordi traumatici, eventualità resa in modo assai chiaro e intrigante nel bel film di Michel Gondry Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004). E tuttavia Paul Root Wolpe afferma giustamente che «“La memoria, i ricordi, sono una parte fondamentale della nostra natura. Perciò dobbiamo andare davvero cauti prima di modificarli o cancellarli” […] Wolpe teme, inoltre, che alcune persone spinte da loschi motivi facciano abuso di una medicina che induce altre persone a dimenticare» (Id., 93).
Come sempre, nulla ha un solo aspetto nella vita degli umani. Le possibilità sempre più praticabili di ibridazione tra il corpomente e le strutture artificiali possono migliorare le nostre facoltà di percezione e di attenzione ma possono anche costituire una via per progettare e realizzare dei soldati-macchine, privi di paura, di sensibilità e di memoria, un incrocio tra il biologico e il macchinico sempre pronto allo sterminio [ne parla D. Ovadia in questo numero di Mente & cervello].
La nostra dotazione naturale è vasta ma non è illimitata. Ce ne accorgiamo ogni giorno con i comportamenti multitasking, quelli che ci inducono a fare cose diverse nello stesso momento. In realtà, molte ricerche indicano «che un multitasking troppo frequente porta a prestazioni peggiori» (D.L. Strayer e J.M. Watson, 48) come nel caso, tanto frequente quanto pericoloso, di chi guida e insieme parla al telefono: «in coloro che guidavano parlando al cellulare o inviando sms il rischio d’incidente era spesso superiore addirittura a quello osservato nei guidatori al limite legale del tasso alcolico nel sangue» (Id., 51).
Siamo animali complessi, siamo colonie di animali, come quelli che a miliardi abitano la nostra pancia, i microrganismi che ci aiutano a digerire e ci proteggono da sostanze dannose: «le conoscenze più recenti ci confermano fino a che punto corpo e mente sono collegati. Anche i miliardi di microrganismi che ospitiamo dentro di noi hanno un posto stabile in questo sistema e potrebbero contribuire a risistemare una mente che aveva perso il suo equilibrio» (S. Reinberger, 39).
Marco Cattaneo, direttore di Mente & cervello, sostiene che Feuerbach aveva ragione a «predicare l’inscindibile unità tra psiche e corpo, per cui per pensare meglio dobbiamo alimentarci meglio» (3). Un’unità che fa sì che dei maschi eterosessuali provino piacere se pensano che ad accarezzarli siano delle femmine oppure provino fastidio se ritengono che a toccarli siano altri maschi, anche se le carezze  -senza che loro lo sappiano- provengono sempre da una donna: «I partecipanti potevano vedere chi li toccava solo su uno schermo, e l’immagine condizionava le loro reazioni: quando vedevano una donna giudicavano la carezza piacevole, il contrario se nello schermo appariva un uomo. Eppure, le carezze venivano sempre fatte da una donna. […] Non è vero che ci sono circuiti cerebrali separati per l’elaborazione delle proprietà fisiche del tocco e per la sua interpretazione emotiva- spiega Michael Spezio- la corteccia somatosensoriale è sensibile anche al significato sociale delle carezze» (M. Saporiti, 24).
Nell’unità dinamica e molteplice che siamo ogni evento è legato a tutti gli altri. Antichi avvenimenti ci seguono per anni e determinano le nostre reazioni a fatti e persone del tutto nuovi. Così un «eccessivo senso di colpa», che magari affonda nella nostra infanzia, «e l’autobiasimo avrebbero un ruolo chiave nella depressione» (C. Visco, 23). Ma tutto è molto più complesso di quanto appaia anche agli schemi psicologici e neurologici. Un uomo tra i più famosi al mondo –Mozart– visse l’ultimo suo anno di vita, il 1791, intrecciando «insieme gloria e disonore, vergogna e opere musicali immortali» (V. Andreoli, 17).
Siamo uno -Identità- ma siamo anche tanti -Differenza-, disseminati nello spazio e nel tempo.

Mente & cervello 90 – Giugno 2012

Il corpo parla, sempre. Comunica non soltanto con le parole esplicite e neppure solo con il tono, il timbro, l’inflessione della voce. Quando ad esempio siamo arrabbiati [alla rabbia è dedicato il dossier di questo numero di Mente & cervello] incominciamo tutti a somigliare a dei piccoli “incredibili Hulk”, il cui corpo vorrebbe azzannare i soggetti e le situazioni che hanno causato la nostra ira. Quanto più vicino e conosciuto è l’oggetto della rabbia, tanto più ci si scatena: «È noto che in ogni rapporto d’amore ci sia una zona d’ombra, un lato oscuro popolato da sentimenti ostili, ma quella tra fidanzati, coniugi, genitori e figli sembra ormai una guerra dal bollettino sconfortante» (M. Picozzi, p. 43). Famiglia che diventa poco raccomandabile soprattutto quando «trasforma un’intenzione generosa in un meccanismo dannoso, perché non sempre l’affetto è abbastanza rispettoso dell’identità separata dell’altro», come dimostra il caso di una ragazza succube dell’affetto paterno sino alla morte del genitore e anche oltre (M.G. Antinori, 54). Gli ambienti di lavoro sono spesso permeati di una violenza latente, sottile e ancor più devastante proprio per i rapporti gerarchici che li intridono. Si parla in questi casi di una vera e propria psicopatia industriale: «Per un corporate psychopath l’altro non è mai un individuo, ma una risorsa da sfruttare, un cliente da catturare, un avversario da sconfiggere» (Picozzi, 36).  Eppure la rabbia non è di per sé soltanto distruttiva. Aristotele ne distingue varie forme e sostiene che arrabbiarsi con la persona giusta, nel momento opportuno, nel modo adeguato e con uno scopo positivo è del tutto legittimo, anche se certamente non facile. La rabbia può quindi «essere una forza positiva e costruttiva, un’emozione che permette di far valere le proprie ragioni e negoziare i propri bisogni» (29). Arrabbiarsi rimane però un atteggiamento quasi sempre volgare e profondamente negativo per chi ne è pervaso.

Non si arrabbiavano ma si limitavano a ubbidire coscienziosamente i soggetti che nel celebre esperimento di Stanley Milgram (1961) colpivano con scariche elettriche sempre più letali dei volontari (in realtà degli attori) soltanto perché a chiederglielo era un “esperto” dall’aria gelida e vestito con un camice. Anche se l’articolo che qui se ne occupa cerca di fornire interpretazioni più sfumate di questo e di altri analoghi esperimenti (come quello di Zimbardo del 1971), mi sembra evidente che la natura gregaria dell’Homo sapiens produrrà sempre la ferocia dell’esecutore se non si pongono degli argini formali alle azioni che possono essere oggetto di un comando. In caso contrario, “ho obbedito agli ordini ricevuti” sarà sempre una buona giustificazione della violenza inflitta ad altri umani e animali (è il caso della vivisezione).

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Cassandra, la memoria

Cassandra
Da Christa Wolf
Teatro elfo puccini – Milano
Trad. di Anita Raja
Scene, costumi, video e regia di Francesco Frongia
Con Ida Marinelli
Produzione: teatridithalia
Sino al 12 febbraio 2012


La memoria. Non la visione, non il futuro, non la profezia ma la memoria. È in essa che affonda la Cassandra di Christa Wolf. Affonda nel ricordo degli orrori vissuti, della dolcezza gustata con Enea, dell’abbandono, dell’irrisione, del massacro subìto da Troia, da lei, dai suoi fratelli e dalle sorelle. I Greci si condensano tutti nella figura di Achille «la bestia», colui che dopo aver sconfitto Pentesilea, regina delle Amazzoni, la uccide una seconda volta stuprandola pur morta. Elena, invece, non è causa di nulla. Elena non esiste. È l’infinito e molteplice fantasma per il quale gli umani combattono la loro guerra perduta. Il cavallo fatale con il quale gli Achei riescono infine ad aver ragione di Troia non è che l’ultimo atto di ciò che Cassandra seppe ma che non poté comunicare: «Quando Apollo ti sputa in bocca significa: tu hai il dono della veggenza, tuttavia nessuno ti crederà». Con queste parole comincia lo spettacolo, e con alcuni video nei quali Cassandra sembra annaspare e annegare nell’acqua sacra della follia e del sogno. Le parole conclusive, invece, si interrogano su «was bleibt», su che cosa rimane della vita vista, sofferta, pagata. Della vita feroce. Un teatro della crudeltà che il regista Francesco Frongia dispiega attraverso degli elementi scenici enigmatici e arcaici -carro, prigione e bara in un unico oggetto- e che Ida Marinelli interpreta attraverso un monologo di grande tecnica teatrale che tuttavia non afferra, che lascia un’impressione di gelo profondo. Forse lo stesso gelo che prese Cassandra a Micene quando la morte tante volte intravista diventava finalmente memoria.

Il passato che non si vuole fare passare

Il debito
di John Madden
(The Debt)
Con: Helen Mirren (Rachel Singer), Jessica Chastain (Rachel da giovane), Jesper Christensen (Dieter Vogel), Ciarán Hids (David), Sam Worthington (David da giovane), Tom Wilkinson (Stephan), Marton Csokas (Stephan da giovane)
Usa, 2010
Trailer del film

Nel 1966 a Berlino Est tre agenti del Mossad (il servizio segreto israeliano) rapiscono e catturano Dieter Vogel (“il medico di Birkenau”) allo scopo di condurlo a Gerusalemme e sottoporlo a processo. Qualcosa però va storto e i tre rimangono imprigionati insieme al criminale nazionalsocialista in un appartamento berlinese, dove Vogel si mostra assai più abile di quanto avessero immaginato. Decenni dopo, la verità ufficiale che li ha resi eroi si scontra con una verità diversa. E la lotta sembra non finire, intrecciandosi ai rapporti affettivi mai sopiti tra la ragazza e i due uomini, adesso tutti maturi sessantenni.
Si tratta del remake di Ha-Hov di Assaf Bernstein (Israele, 2007), una Spy Story piuttosto improbabile, il cui elemento migliore sono le scene d’azione, appunto. L’andare e venire tra il passato di Berlino e il presente di Tel Aviv rimane meccanico nel rendere il peso della memoria e di una menzogna prolungata nel tempo. E alla fine si ha la sensazione di un’apologia del feroce servizio segreto israeliano. Un libro di Ernst Nolte criticava sin dal titolo il pietrificarsi del passato –Germania: un passato che non passa (Einaudi 1987)- ritenendolo un’assurdità storiografica e metafisica. Nietzsche ha difeso con molti argomenti la necessità del dimenticare per vivere ancora. Due grandi accordi di pace come l’Editto di Nantes (1598) e il Trattato di Vestfalia (1648) prevedevano delle esplicite “clausole d’oblio”. Esattamente l’opposto delle troppe “giornate della memoria”, uno dei cui effetti è mantenere vivo il rancore, la violenza, l’odio. Forse è bene che anche al cinema, che se ne è occupato in una miriade di modi, quel passato ebraico lasci il posto ad altri stermini, più recenti e non meno atroci.

Mente & cervello 81 – Settembre 2011

Che cos’è un rito? Come nasce? Quale funzione svolge? A queste domande cercano di rispondere da tempo discipline quali l’antropologia, l’etnologia, la sociologia della cultura, l’etologia. Un contributo importante può venire anche delle scienze della mente. Il ricco dossier di questo numero di M&C lo dimostra.
«Nella definizione dei rituali -specialmente di quelli che non riguardano la realtà quotidiana- spiccano di solito quattro caratteristiche fondamentali: ruolo del corpo, formalità, modalità e trasformazione» (A. Michaels, p. 54). A essere coinvolto in un rito è sempre l’intero corpomente in modi formalmente stabiliti e rigorosi, con modalità che differenziano lo stesso gesto se compiuto nel quotidiano o se invece inserito in una forma rituale, avendo come obiettivo una trasformazione di condizione interiore o di status comunitario.
I riti di iniziazione e di passaggio, ad esempio, sono tra i più importanti e prevedono tre fasi: di separazione dal luogo o dallo status precedente, liminale di transizione e di abolizione dell’ordine precedente, di integrazione nel nuovo luogo o nella nuova condizione. In generale, un rito fa parte di una ben precisa cultura e solo in quel contesto acquista il suo senso, si struttura in un linguaggio che spesso produce azioni -come quando un funzionario civile o religioso dichiara due persone marito e moglie-, ha una qualità estetica specifica e caratterizzante, segna una interruzione e un rallentamento del consueto flusso temporale attraverso il tempo della festa, del passaggio o del lutto. 

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