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Cervello / Realtà

Brain. Il cervello: istruzioni per l’uso
Museo di Storia Naturale – Milano
Sino al 13 aprile 2014

Brain. Giant neuron-DFIl magnifico e potente organo che sta nel cranio di noi tutti è una struttura/funzione estremamente ricca, che millenni di studi vanno indagando, scoprendo sempre qualcosa di nuovo e ignorando di essa ancora molto. Questa mostra interattiva permette di entrare nelle connessioni cerebrali, di saggiare all’istante alcune delle capacità dei nostri cervelli, di verificare la potenza della percezione mediante la quale «pezzo per pezzo, il nostro cervello mette insieme la scena che vediamo», riconoscendo dunque che esiste certamente la materia ma non invece la realtà, la quale è una nostra costruzione poiché «gli esseri umani non si limitano a reagire al mondo così com’è» [le citazioni sono tratte dai pannelli presenti in mostra]. I ricordi, ad esempio, «non sono come le fotografie,  i ricordi cambiano». Cambiano sino a creare eventi mai accaduti e a dimenticare circostanze, fatti, persone, incontri, nozioni, dato che «ci sono anche dei vantaggi nello scordare».
La mostra -dal carattere principalmente didattico- è divisa in sette sezioni. Dopo uno spazio e un teatro introduttivi abitati dalle sinapsi in azione, si passa al cervello sensibile (i cinque sensi e i loro centri di coordinamento), al cervello emozionale (con un’attenzione particolare dedicata al ‘cervello rettiliano’, che determina ancora tante delle nostre azioni e reazioni), al cervello pensante (con la possibilità di mettere alla prova le nostre facoltà astrattive e logiche), al cervello mutevole (che conferma la «costante apertura al cambiamento, il potenziale enorme del nostro cervello»), per chiudere con il cervello del futuro che è già il nostro presente di entità cibernetiche e ibridate.
Da questo istruttivo e piacevole percorso emergono ancora una volta sia la complessità del mondo del quale il cervello (umano e animale) è parte, sia l’importanza del tempo nei processi cerebrali, nella percezione, nella semantizzazione del percepito. La dimostrazione più raffinata dei «poteri sorprendenti del nostro cervello» sta nel fatto che noi «siamo in grado di vivere nell’attimo, riflettere sul passato e immaginare il futuro», sta nel fatto che il cervello è materia che comprende la struttura temporale dell’essere e in essa è capace di agire.

 

Fatti / Interpretazioni

Mente & cervello 108 – dicembre 2013

M&C_108Provate a guardare con attenzione la copertina qui a sinistra del numero 108 di Mente & cervello. Che cosa notate? Lo scaffale di un supermercato. Certamente. Guardate  meglio e troverete dell’altro.
In filosofia esiste un segnale quasi sempre efficace per individuare la stanchezza teoretica o la subordinazione della filosofia stessa a esigenze esterne. Questo segnale è l’approccio ingenuo che presume di poter indagare una realtà assoluta. Il realismo insomma. Basta, infatti, tener conto della grande complessità del corpomente e delle sue relazioni con la materia nella quale è immerso e in cui consiste per rendersi facilmente conto che «quello che vediamo non è un’immagine fedele della realtà, ma la ricomposizione eseguita dal cervello di molti dettagli colti dagli occhi in rapida successione. E il modo in cui il cervello crea la realtà […] è fonte di innumerevoli inganni, o per lo meno di clamorosi errori di interpretazione» (M. Cattaneo, p. 3). Il corpomente non è una videocamera che registra qualcosa a essa esterno ma costituisce piuttosto una lampada che fa essere la strada mentre la illumina percorrendola. Ecco perché da scienziati e quindi anche da filosofi si può sostenere -come fa Cattaneo citando Enrico Bellone, entrambi fisici di chiara impronta scientista- che quanto definiamo realtà è una materia grezza plasmata dalla nostra percezione e ordinata dalla nostra attività cerebrale. Si può dunque concludere con serena razionalità che fatti e interpretazioni sono tra di loro inestricabili e dalla loro convergenza deriva la complessità -e anche l’interesse- del mondo. Se, infatti, «vedessimo effettivamente ciò che incamerano i nostri occhi, il mondo sarebbe un luogo confuso», che diventa ordinato perché quella umana «è una specie di cercatori visivi, costantemente a caccia di novità, di bellezza, di compagnia, di cibo e di significato» (M.C. Hout e S.D. Goldinger, 26 e 31); un elenco che mi sembra sintetizzi bene gran parte di ciò che siamo: dispositivi semantici.
Lo dimostra anche la memoria, che è sempre dinamica, cangiante, creativa, ermeneutica per l’appunto. Lo studio delle strutture mnemoniche del cervellomente è tra gli ambiti più aperti e più difficili, nel quale le interpretazioni sono diverse e interessanti. Una di esse sostiene che «nel tempo, l’ippocampo insegnerebbe come rappresentare un ricordo alle parti circostanti del cervello: la corteccia. Quando il ricordo è maturo, l’ippocampo lo scaccia, ed esso va a risiedere nella corteccia. […] Una teoria alternativa spiega queste discrepanze proponendo che l’ippocampo immagazzini selettivamente un certo tipo di memoria -quella ‘episodica’- mentre la corteccia circostante ne immagazzinerebbe un’altra, quella ‘semantica’» (E. Reas, 102). Quando si torna a un certo ricordo esso viene trasformato, ricontestualizzato, ancora una volta interpretato. E questo è una conferma della dimensione e della funzione costruzionista, e non semplicemente rappresentativa, della vita mentale.
Una struttura così complessa non può funzionare sempre alla perfezione. Bizzarrie, errori, eccessi e tristezze sono parte ineliminabile e sana della vita. E invece la convergenza di interessi tra le case farmaceutiche e la pretesa egemonica della psichiatria sta medicalizzando la vita. L’ho scritto anche qui più volte ma adesso è uno degli stessi autori del Manuale Diagnostico Statistico -lo psichiatra Allen Frances- a denunciare tale gravissimo andazzo. Si assiste a una vera e propria «epidemia di autismo o di disturbo bipolare infantile, o nuove malattie inventate di sana pianta. La normale timidezza può essere ‘fobia sociale’, la tristezza che segue un lutto diventa depressione clinica» (M. Capocci recensendo Frances, 105)  e così via medicalizzando, prescrivendo farmaci e terapie, arricchendo gli innumerevoli avvoltoi che pretendono ci sia un solo modo di vivere una condizione mentale che dichiarano assoluta, mentre si tratta anche in questo caso e in gran parte di interpretazioni. Lo dimostra la diversa reazione che si può avere di fronte agli stessi eventi: «Chi non rumina e non si rimprovera per le difficoltà che deve fronteggiare presenta minori livelli di ansia e va meno incontro alla depressione, anche quando nella sua vita si sono verificati eventi negativi» (A. Oliviero, 18). Nei termini come di consueto chiarissimi di Schopenhauer: «Il mondo in cui un uomo vive dipende anzitutto dal suo modo di concepirlo. […] Quando ad esempio degli uomini invidiano altri per gli avvenimenti interessanti in cui si è imbattuta la loro vita, dovrebbero piuttosto invidiarli per la dote interpretativa che ha riempito siffatte vicende del significato, quale si rivela attraverso la loro descrizione» (Parerga e Paralipomena, tomo I, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, p. 426). È in questa direzione semantica, prima che ermeneutica, che il mondo è un’interpretazione.

 

Pensieri, parole, memorie

Mente & cervello 105 – settembre 2013

Ha poco senso subordinare il linguaggio al pensiero o viceversa. Ha poco senso perché entrambi sono la manifestazione privata e pubblica, interiore e oggettiva, della potenza semantica che caratterizza la nostra specie. Il linguaggio è scandito nel tempo, le parole vengono pronunciate l’una dopo l’altra a formare delle frasi che compongono a loro volta una descrizione, un’analisi, delle narrazioni. Il carattere sequenziale del linguaggio è anche un dato tecnico, che però si fonda sulla struttura della mente umana, la quale non è nel tempo ma è essa stessa temporalità vivente, rammemorante, intenzionale.
Ha quindi ragione Charles Fernyhough a ritenere che il pensiero sia «fatto di parole tanto che i bambini prima di imparare a parlare non hanno veri e propri pensieri» (cfr. R. Fulci, p. 21). Il pensare  è un fatto intrinsecamente linguistico, che produce sia le percezioni sia la memoria. Lo dimostra anche il celebre esperimento del “gorilla invisibile” che passa in mezzo a dei giocatori di basket e che pochi spettatori vedono, poiché «le nostre intenzioni, i bisogni e le aspettative influenzano ciò che percepiamo. […] Il cervello è tutt’altro che passivo nei confronti dell’ambiente: seleziona, sceglie e rinforza solo quello che vuole vedere» (D. Ovadia, 81-83). Non esiste insomma alcuna «immacolata percezione», per ricordare la battuta di Robert Kaplan, nonostante l’imperversare mediatico di realismi vecchi e nuovi.

Per un continuista come me è sempre una soddisfazione trovare conferme ai nessi profondi tra l’animale umano e gli altri. In questo numero di Mente & cervello ce ne sono due piuttosto significative, che riguardano entrambe la memoria, persino quella “involontaria” analizzata da Bergson e Proust. Scimpanzé e orangutan sembrano in grado di «ricordare immediatamente in quale scatola cercare uno strumento visto in un’unica occasione, un’esperienza ripetuta solo quattro volte e vissuta tre anni prima» Davvero «l’elenco delle straordinarie affinità con i nostri cugini primati continua ad allungarsi» (E. Melotti, 22). Se i primati sono filogeneticamente vicinissimi all’Homo sapiens, non altrettanto si può dire della planaria, un piccolo verme piatto del quale è nota da tempo la capacità di rigenerare la propria testa dopo che essa è stata tagliata, «il bello è che l’individuo con la testa nuova ricorderà le nozioni imparate prima della ghigliottina» (R. Fulci, 23). Il biologo Michael Levin, che insieme ad altri colleghi ha verificato questa capacità, afferma che «una cosa è certa: abbiamo dimostrato lo straordinario fatto che la memoria sembra essere conservata da qualche parte al di fuori del cervello» (cit. da Fulci, 23).
Gli studi di Antonio Damasio, e in generale la filosofia della mente, sanno che a pensare è l’intero organismo. La mente dipende dalle interazioni tra il cervello e il corpo e quindi è dall’intero corpo che essa scaturisce e non soltanto da un suo specifico organo. La mente, in altri termini, è pienamente e integralmente embodied, incorporata, e non costituisce solo una funzione del cervello. Di questa mentememoria corporea Nietzsche era del tutto consapevole:

Non esiste un organo specifico della “memoria”; tutti i nervi, per esempio della gamba, si ricordano di precedenti esperienze. Ogni parola, ogni numero è il risultato di un processo fisico che in qualche posto si è stabilizzato nei nervi. Tutto quello che è stato assimilato organicamente nei nervi, continua a vivere in essi. Vi sono onde condensate di eccitazione, quando questa vita ulteriore penetra nella coscienza, quando cioè ci ricordiamo di qualcosa.
(Frammenti postumi 1879-1881, in «Opere» Adelphi, vol. V/1, fr. 2 [68], p. 301)

 

Streghe interiori

In Trance
(Trance)
di Danny Boyle
Con: James McAvoy (Simon), Rosario Dawson (Elizabeth), Vincent Cassel (Franck)
Gran Bretagna, 2012
Trailer del film

Le aste dei dipinti più preziosi sono blindate come e più delle banche. Ma dei ladri ben decisi riescono ugualmente a farcela, tanto più se vengono aiutati da qualcuno che lavora all’interno, come il banditore Simon. Oggetto del furto è un capolavoro inestimabile (venticinque milioni di sterline): le Streghe nell’aria di Francisco Goya. Il problema è che il dipinto sparisce. Dopo aver sottoposto Simon a tortura, i suoi complici devono ammettere che egli non ricorda effettivamente dove abbia nascosto la tela. Decidono quindi di ricorrere a una psicologa, specialista in ipnosi. La cura raggiunge il suo obiettivo ma ha effetti devastanti su tutti i personaggi. Ciò che lentamente affiora dalla mente di Simon è molto più di quanto si potesse immaginare. Al centro della ragnatela mnemonica sembra stagliarsi proprio Elizabeth, che si rivela snodo centrale della vicenda.
Sontuoso nei colori, intricatissimo nel plot, abbastanza corretto -anche se inevitabilmente grossolano- nella descrizione degli stati mentali, Trance è un film come tanti ma piacevole soprattutto per chi si aspetta dei colpi di scena a ripetizione. Il merito maggiore, da un altro punto di vista, è l’intuizione della radicale complessità del corpomente e delle sue memorie profonde. La presenza -discreta ma centrale- di Goya aiuta. È con questo artista che l’illusione della realtà si sfalda e trasmuta nell’universo interiore in cui ogni umano deve fare i conti con i propri fantasmi. A rischio della follia ma ottenendo come premio la pace della conoscenza. Non è un caso che il quadro intorno al quale tutto ruota abbia come titolo Streghe nell’aria.

 

Antirealismo

La grande bellezza
di Paolo Sorrentino
Con: Toni Servillo (Jep Gambardella), Carlo Verdone (Romano), Carlo Buccirosso, Massimo Popolizio, Sabrina Ferilli (Ramona), Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari,  Massimo De Francovich, Franco Graziosi, Sonia Gessner, Luciano Virgilio, Serena Grandi, Lillo Petrolo
Italia – Francia, 2013
Trailer (da vedere, un film in sé)

Vuota, notturna e luminosa, cafona e splendente, edonistica e mistica. Irreversibilmente corrotta e del tutto inventata. Questa è la città che scorre tra le parole di Jep Gambardella, colui che non voleva essere soltanto il re delle feste ma chi le feste le faceva fallire. Scorre Roma tra i pensieri di quest’uomo, i suoi desideri finiti, la sua profonda saggezza e la totale calma. Scorre rassegnata ed eterna tra attrici fatte e disfatte, cardinali gastronomi, presuntuose performer, chirurghi taumaturghi e cialtroni, mafiosi in incognito, sessantottini ricchissimi, drammaturghi delusi, badanti cosmopolite, turisti morenti, industriali danzanti, sante spente e centenarie, candide spogliarelliste, padri infantili, nane giornaliste, maghi e giraffe, aristocratici a noleggio.
Scorrono i ricordi di Jep Gambardella, le sue memorie di un amore lontano dentro il mare. Il soffitto si trasforma in acqua, solcata dalla nostalgia e dal sogno. Il Tevere scorre tra palazzi irreali, tra argini lenti, tra sogni perduti e incanti mai avuti. Scorre il film tra musiche raffinatissime e banali. Scorrono gli occhi dello spettatore immerso nella placenta che il cinema è sempre stato e che qui trionfa, grembo colorato, suadente, onirico e ironico.
Una Babilonia nichilistica.
Se fossi un regista, vorrei girare in questo modo i miei film. Pura forma, puro linguaggio, puro miraggio. Trionfo sulla volgare ingenuità di ogni realismo cognitivo e metafisico. Grande bellezza della mente.
L’epigrafe è tratta da Céline.

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15.6.2013

Ho rivisto il film e ne ho gustato ancor di più la profondità antropologica e la bellezza formale. Di essa è parte essenziale la colonna sonora. Senza la musica sarebbe un altro film. L’alternarsi di composizioni raffinatissime -come quelle di Zbigniew Preisner, David Lang, Magnus Perotinus, Henryk Górecki, Arvo Pärt- e di brani pop esprime perfettamente la cifra duplice dell’opera. Che, ribadisco, è un’opera sulla mente, sui ricordi, sul mondo interiore che la memoria corporea produce.

Credo che uno degli equivoci di molti critici e di numerosi spettatori sia stato confrontare La grande bellezza con i film felliniani. Si è trattato di un riflesso quasi condizionato ma radicalmente errato. Rivedendolo, mi è stato ancor più chiaro che al centro del film non c’è Roma ma «la grande bellezza che ho cercato, senza trovarla» come afferma verso la fine il protagonista. Non è un film sulla Roma barocca ma è un film barocco. Un’opera quindi sul tempo, sulla morte e sui loro simboli.

Du côté de chez Swann

La strada di Swann
di Marcel Proust
(Du côté de chez Swann, 1913)
Trad. di Natalia Ginzburg
Einaudi, 1978 (1964)
Pagine LXXIX- 491

Il massiccio edificio del reale si sgretola nella luce di una prosa, di un linguaggio, di un ritmo narrativo che è aurora e insieme è l’imbrunire. Ricchezza sempre eguale e sempre nuova di paesaggi, sfumature, ombre, amori, infanzie, viaggi. L’affresco di un’aristocrazia che è tale non soltanto per il ceto. Dipinti, scritti, sonate che diventano il tessuto dei giorni. La passione di Charles Swann per Odette de Crécy come archetipo di ogni innamorarsi.

Gli esseri ci sono di consueto così indifferenti che, quando collochiamo in uno di essi simili possibilità di sofferenza e di gioia, esso ci sembra appartenere a un altro universo, si aureola di poesia, fa della nostra vita come una commovente distesa in cui sarà più o meno vicino a noi. (p. 251)
[Les êtres nous sont d’habitude si indifférents que, quand nous avons mis dans l’un d’eux de telles possibilités de souffrance et de joie pour nous, il nous semble appartenir à un autre univers, il s’entoure de poésie, il fait de notre vie comme un étendue émouvante où il sera plus ou moins rapproché de nous. (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 194) ]

Innamorarsi significa vivere una meraviglia e un incanto senza pari, che hanno poco a che fare con la natura reale dell’Altro. Reale? Tutto avviene nella mente e quindi tutto è in qualche modo vero. È ben poco esperto di umanità chi, come la signora di Saint-Euverte, compatisce Swann -uomo molto intelligente- per essere tanto preso da «una persona di quel genere e che non è nemmeno interessante, poiché dicono sia idiota, -soggiunse con la saggezza di chi non è innamorato, che pensa che un uomo d’ingegno non dovrebbe essere infelice se non per una persona che ne mettesse conto; all’incirca è come stupire che ci si degni di soffrire del colera per opera d’un essere così piccolo come il bacillo virgola» (p. 363) [« “Je trouve ridicule au fond qu’un homme de son intelligence souffre pour une personne de ce genre et qui n’est même pas intéressante, car on la dit idiote”, ajouta-t-elle avec la sagesse des gens non amoureux qui trouvent qu’un homme d’esprit ne devrait être malheureux que pour une personne qui en valût la peine; c’est à peu près comme s’étonner qu’on daigne souffrir du choléra par le fait d’un être aussi petit que le bacille virgule» (Gallimard, pp. 275-276) ]

Germinazione, nascita, declino di vite e di storie, di eventi e di sogni, in uno sforzo immane di evocazione che ricrea il mondo. La Recherche, questa grande fenomenologia della vita, ha il suo nucleo pulsante nella dinamica di identità e differenza tra il passato e il presente, fra ciò che non è più e ciò che rimane ancora poiché tutto in realtà accade dentro di noi. Un umano è vivo sino a che altri restituiscono linfa alla sua persona, la linfa potente del ricordo.

Mi sembra molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le anime di quelli che abbiamo perduto son prigioniere entro qualche essere inferiore, una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perdute di fatto per noi fino al giorno, che per molti non giunge mai, che ci troviamo a passare accanto all’albero, che veniamo in possesso dell’oggetto che le tiene prigioniere. Esse trasaliscono allora, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l’incanto è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte e ritornano a vivere con noi. (p. 49)
[Je trouve très raisonnable la croyance celtique que les âmes de ceux que nous avons perdus sont captives dans quelque être inférieur, dans une bête, un végétal, une chose inanimée, perdues en effet pour nous jusqu’au jour, qui pour beaucoup ne vient jamais, où nous nous trouvons passer près de l’arbre, entrer en possession de l’objet qui est leur prison. Alors elles tressaillent, nous appellent, et sitôt que nous les avons reconnues, l’enchantement est brisé. Délivrées par nous, elles ont vaincu la mort et reviennent vivre avec nous. (Gallimard, p. 44) ]

La memoria, immensa, ricostruisce la vita, la parola, il senso enigmatico della favola umana, in una fisicità intrisa di luce:

Ma, quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo. (p. 52)
[Mais, quand d’un passé ancien rien ne subsiste, après la mort des êtres, après la destruction des choses, seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore longtemps, comme des âmes, à se rappeler, à attendre, à espérer, sur la ruine de toute le reste, à porter sans fléchir, sur leur gouttelette presque impalpable, l’édifice immense du souvenir. (Gallimard, p. 46) ]

La realtà non è il pratico e banale susseguirsi di istanti smarriti nel momento stesso in cui la vita fugge. La realtà è la scrittura che nell’infinito intrattenimento della memoria fonda l’esistere e il suo significato.

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