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Ždanov

Ždanov
Sul politicamente corretto
Algra Editore, 2024
«Contemporanea, 9»
Pagine 160
€ 14,00

In una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole
e di dire quello che pensa.
(Spinoza, Tratctatus Theologico-Politicus, titolo del cap. XX)

 

 

Questa la quarta di copertina, firmata da Davide Miccione, Direttore della collana nella quale il libro esce:
«Il politicamente corretto, l’oblio del corpo e della biologia, il crollo di ogni tentativo di trasmettere un’attitudine alla comprensione del reale, l’odio per la propria storia culturale e le sue feconde contraddizioni, il tentativo di operare ortopedicamente sul linguaggio. Questi sono alcuni degli argomenti di Ždanov. Evocando sin nel titolo i guardiani delle più ottuse ortodossie novecentesche Biuso compie una difesa solenne e dolente e a volte dura e beffarda della necessità di serbare il pensiero, la libertà e la nostra natura cercante di fronte a chi ha deciso di maneggiare la bontà e i valori come fossero un randello o un sudario» .

E questa è la pagina introduttiva:
«Andrej Aleksandrovič Ždanov (1896-1948) fu, tra l’altro, capo del Dipartimento per l’agitazione e la propaganda dello Stato Sovietico. In questa veste elaborò una Dottrina per la quale ciò che viene chiamato scienza, cultura e conoscenza deve essere sempre subordinato agli scopi supremi della pubblica autorità, a ciò che tale autorità ritiene essere un Valore, costituire il Bene. Questo libro intende mostrare che lo spirito di Ždanov, lo ždanovismo, pervade di sé molti fenomeni collettivi e molta elaborazione culturale del XXI secolo e soprattutto intrama la tendenza omologatrice, uniformante e politicamente corretta dei media, della rete Internet, delle università e dei governi. In questo senso, Ždanov non è un testo dedicato soltanto al politicamente corretto ma costituisce un tentativo di ragionare sulla difficoltà o persino sulla impossibilità di buona parte della cultura dominante di pensare il mondo. Di questo inciampo il politicamente corretto è spesso l’aspetto più grottesco e in ogni caso emblematico e assai grave.
Naturalmente, il libro avrebbe potuto intitolarsi anche Goebbels. Sul politicamente corretto» (p. 9)

Il libro si compone di una premessa, sei capitoli e l’indice dei nomi:

Un titolo
1. Un sintomo
2. Umanitarismo
3. Contro l’etica
4. La dissoluzione della scuola e delle università
5. Femmine e maschi
6. In difesa delle libertà
Indice dei nomi

Il volume è disponibile in varie librerie e sul sito dell’editore, che ringrazio ancora una volta per l’apertura e il coraggio che mostra nel pubblicare libri così critici nei confronti delle idee dominanti.

 

Recensioni

Enrico Palma su Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee, 11 giugno 2024

Sergej su girodivite.it, 23 maggio 2024

Sarah Dierna su Discipline Filosofiche, 29 aprile 2024

 

Transizioni

Transizioni
Aldous, 27 gennaio 2024
Pagine 1-2

A partire dal caso della città dove abito, Milano, ho cercato in questo articolo di analizzare il significato, le contraddizioni e la forte spinta transumanista di alcune recenti tendenze alla “transizione”: transizione digitale, transizione ecologica, transizione di genere.
Tali transizioni sono fondate su un moralismo estremo che intende sostituire (per usare le categorie platoniche) il Vero con il Buono, dove che cosa sia Buono è naturalmente stabilito da chi ha il potere e le risorse economiche per convincere le masse degli spettatori.
Tutto questo è espressione di una posizione storico-politica ancora più ampia: l’occidentalismo. Esso consiste nella certezza che i valori dell’Occidente anglosassone (e non dell’Europa) siano valori universali, indiscutibili e santi. Un occidentalismo molto aggressivo, manicheo e sostanzialmente suicida visto che l’Occidente rappresenta una minoranza sul pianeta, sia dal punto di vista economico sia da quello demografico e in relazione alle risorse naturali.
Il rischio per un’Europa asservita all’ideologia occidentalista è di cadere nella spirale di una transizione verso la propria fine.

[L’articolo è uscito anche su Sinistrainrete]

Immigrati, liberismo, destre

Illusione ed emancipazione
Aldous, 11 dicembre 2023
Pagine 1-2

In questo articolo ho cercato di analizzare sinteticamente alcune delle questioni ricorrenti nel discorso pubblico diffuso: il fallimento ovunque del melting pot; la relazione assai stretta tra immigrazione, liberismo e capitalismo; la necessità di una pratica politica che si affranchi dai miti teoretici invalidanti che si racchiudono nei termini “destra” e “sinistra”.
L’esito dell’analisi è che non c’è nulla da attendere in termini di emancipazione dai partiti di ogni colore e autodefinizione e che l’impegno oggi praticabile sia di natura metapolitica, vale a dire l’impegno a pensare il reale, mostrarne i limiti, i rischi e le possibilità liberandosi totalmente dai media, dai giornali, dalle televisioni, dal flusso dominante della rete. Difficile, certo, ma nelle vicende umane la libertà non è mai stata un regalo.

L’articolo è uscito anche su Sinistrainrete il 19.12.2023.

Titoli di laurea e dottorato di ricerca

Uno degli inevitabili effetti delle lauree attribuite da parte delle Commissioni universitarie senza alcun merito dei candidati (lauree insomma regalate) è che esse valgono sempre meno.
La situazione si aggrava se si osserva che anche a candidati dal percorso modesto e con una tesi di laurea altrettanto ‘nella norma’ viene sempre più attribuito il voto massimo e la lode. In alcuni Dipartimenti del mio Ateneo – vari corsi di medicina ad esempio – il «110 e lode» è diventato pressoché ‘di default’ e anche in altri settori si va nella stessa direzione.
Un fenomeno inflattivo di questa natura e portata ha l’effetto di cancellare il significato e il valore delle lauree con lode ottenute da chi davvero le merita e, in generale, di svuotare il valore legale del titolo di studio. Effetto che rappresenta una grave ingiustizia sociale e impedisce che l’impegno, lo studio, i risultati ottenuti funzionino anche da ascensore sociale. Tutti laureati con 110 e lode significa infatti nessun laureato con 110 e lode. E subentrano, inevitabili, i privilegi delle condizioni sociali e familiari di partenza.
Una prova evidente di questa perdita di valore legale e sostanziale delle certificazioni di laurea è il bando di concorso di un Premio assai interessante che l’amministrazione della città di Recoaro dedica da quest’anno a uno dei suoi ospiti più famosi: Friedrich Nietzsche.
In un’altra pagina di questo sito ho invitato a partecipare a tale concorso (l’abstract va inviato entro il 30.1.2024). Ma quali studiosi potranno partecipare al concorso? Quali sono i requisiti? Sono due: uno è l’età massima «non superiore ai 40 anni», l’altro è il «possesso del titolo di dottore di ricerca».
E infatti molti studenti hanno cominciato a capire che la laurea magistrale vale sempre meno e si presentano numerosi ai concorsi per entrare in un Dottorato di ricerca, il quale non garantisce comunque nulla né sostanzialmente né giuridicamente sul futuro, una volta conseguito il titolo. E tuttavia il diploma di dottorato viene percepito sempre più come la vera laurea, visto che quella nominale cessa di avere significato e prestigio. I posti disponibili nei dottorati sono però pochi; in ogni caso sono assai meno rispetto alle candidature. E questo produce frustrazione in chi concorre e non accede, pur avendo spesso un’ottima formazione.
Sarebbe stato del tutto naturale, in condizioni normali, aprire ai possessori di una laurea magistrale il concorso dedicato a Nietzsche. Ma tali lauree non garantiscono più l’acquisizione di solide competenze, dato che appunto vengono regalate con facilità dagli Atenei. E vengono regalate anche perché è stato il Parlamento italiano, sono i governi italiani a premere verso tale direzione. Esiste una norma infatti che penalizza Dipartimenti e Atenei che vedono iscritti molti studenti «fuori corso». Penalizza vuol dire che tali Dipartimenti e Atenei ricevono meno finanziamenti dallo Stato. La soluzione più facile per le Università è dare la laurea a tutti gli iscritti (e farlo in fretta), che essi la meritino o meno. Come ha affermato Eugenio Mazzarella, a questo punto sarebbe opportuno dare il certificato di laurea insieme al certificato di nascita (il corso ovviamente a scelta dei genitori), in modo che tutti i cittadini risultino laureati.
Il danno funzionale per la società italiana in termini di competenze dei suoi membri laureati e il danno esistenziale e collettivo in termini di giustizia sociale è enorme. Ma molti studenti e le loro famiglie continuano a festeggiare con spumante, corone d’alloro e botti il conseguimento di un titolo dal valore sempre più insignificante.
Anche questo è un modo per mantenere il corpo sociale in una condizione infantile. Tale dramma educativo conferma che si fa di tutto, davvero todo modo, per non far pensare le persone. Dalla scuola ridotta ad assistenza sociale alla televisione del tutto obbediente e menzognera, alle grandi distrazioni costituite dai social network e da casi di cronaca nera seguiti dai media per settimane e settimane, si opera allo scopo di evitare che le persone diventino libere, competenti, critiche, mature. Questo è sempre stato l’obiettivo dell’autorità ma nel presente esistono mezzi assai efficaci per raggiungerlo (ho parlato in modo più ampio e argomentato di tutto questo in un saggio del 2019 dal titolo La scuola del liberismo e la crisi delle scienze europee).
Questo il testo del bando per chi intende, e può, partecipare al concorso nietzscheano:
Primavera 1881, Nietzsche a Recoaro: la straordinaria bellezza

[L’articolo è stato pubblicato anche su girodivite.it]

Patriarcato

La lettera che qualche giorno fa ho ricevuto da Dario Generali, uno dei massimi studiosi europei di Storia della scienza, è un esempio di come vadano letti i fatti collettivi, sottraendosi al massiccio condizionamento dell’informazione dominante, alla retorica più penosa, ai valori diventati strumento di una società ossessionata e fragile. La limpidezza, coerenza e plausibilità di quanto scrive Generali è una lucida alternativa al desolato paesaggio mediatico e sociologico nel quale siamo da tempo immersi. Riproduco con la sua autorizzazione il testo.

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Sono rimasto colpito dall’insistenza delle proposte di corsi di educazione all’affettività a scuola, che sarebbero, secondo me, le solite inutili perdite di tempo a scapito dell’insegnamento. A mio parere, detta in breve, servirebbe piuttosto una formazione seria che metta gli studenti nelle condizioni di affrontare ogni loro problema con razionalità, senza farsi travolgere da fragilità psicologiche ed emotività surriscaldate. Anche l’insistenza sul paternalismo e sul maschilismo mi sembra fuori luogo. In primo luogo è difficile definire il nostro paese, almeno sul piano istituzionale, paternalista. Il presidente del Consiglio è donna, donna è il ministro dell’Università e della ricerca, donna è la presidente del CNR. Anche l’ultimo vestigio del maschilismo è stato superato con l’attribuzione ai figli anche del cognome della madre. Un maschilista, poi, non insisterebbe mai per tenersi una ragazza o una donna che se ne vuole andare, perché la sostituirebbe subito con altre. Quando mai un maschilista pietirebbe con una donna per non essere lasciato? Che vada pure dove vuole, ne troverebbe subito altre. Quando un uomo passa alla violenza sulle donne in realtà ha una psicologia malata e lo è tanto più quanto quella violenza, per non parlare di quando giunge a ucciderle, si ritorcerà poi pesantemente su di lui, rovinandogli la vita o anche inducendolo poi a suicidarsi per sfuggire alle conseguenze del suo gesto folle.
Capirei di più se queste azioni avvenissero a seguito di azioni persecutorie da parte di donne. Come far togliere ingiustamente l’affido dei figli, cacciare il marito di casa, farsi pagare gli alimenti e ospitarci invece un amante, con i figli piccoli che finissero per identificarlo come il loro padre, ecc. Ma prendersela con una fidanzata che se ne vuole andare è chiaro segno di follia e di patologica debolezza. Paternalismo e maschilismo c’entrano secondo me ben poco.
Come sempre, in queste discussioni, quella che latita è la razionalità.
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A conferma delle riflessioni di Generali segnalo un mio breve intervento pubblicato più di dieci anni fa, il 20.10.2012, riferito anch’esso all’assassinio di una ragazza da parte del suo ex fidanzato.
Ne riporto qui il contenuto.

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Un uomo di 23 anni, Samuele Caruso, ha ferito a Palermo con un centinaio di coltellate la ragazza di diciotto anni che lo aveva lasciato e ha ucciso la sorella di lei, diciassettenne, che cercava di difenderla.
Eventi di questo tipo si ripetono con regolarità. Quali le ragioni? Possono essere numerose e diverse. Lo psichiatra Vittorino Andreoli parla di maschi insicuri e di gelosia patologica. Vero. Maschi resi tali – soprattutto nel Sud mediterraneo – anche dal mancato affrancamento dalla figura della madre. Molti sociologi e donne parlano di femminicidio. Vero anche questo.
Ma credo ci sia anche una motivazione di tipo educativo. Uno straordinario racconto di Friedrich DürrenmattIl figlio – narra di un padre che aveva allevato il figlio in solitudine «esaudendogli ogni desiderio». Quando il ragazzo quindicenne esce dalla villa dove aveva sino ad allora vissuto, torna «ventiquattro ore dopo a rifugiarsi dal padre, avendo brutalmente ucciso una persona che si era rifiutata di dargli da mangiare senza pagare» (Racconti, Feltrinelli 1996, pp. 13-14). La responsabilità è anche e soprattutto dei genitori, dei nonni, dei maestri, dei professori. Di tutti quegli adulti che, rispetto alla fatica che ogni negazione argomentata comporta, preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti. Quando un bambino e ragazzo riceve sempre da coloro che dovrebbero educarlo dei “sì” (non sia mai che il pargolo subisca dei “traumi”), è chiaro che poi non comprende come sia possibile che qualcuno, una coetanea ad esempio, gli possa dire di no. E scatta la reazione del bambino che pesta i piedi per ottenere il suo giocattolo.
Aveva e ha perfettamente ragione Giuliana Ukmar nel coniare la formula «Se mi vuoi bene, dimmi di no». Aveva ragione a stigmatizzare il «permissivismo esasperato» che induce a ritenere che « “volere” una cosa significa, automaticamente, averla. […] Se il risultato più patologico che emergeva dal rapporto con un padre-padrone era un figlio dalla personalità nevrotica, piena di fobie, il traguardo finale di una educazione di stampo permissivo è, invece, una personalità che sfocia nella psicosi. Gravissima, difficile da curare. Un ragazzo cresciuto senza regole, è in preda a quel delirio d’onnipotenza che lo indurrà a crearsi una realtà su misura». Un delirio che fa dei propri desideri il criterio assoluto del mondo e che quindi non tollera che una donna possa lasciarti.
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Avevo dunque accennato ai professori che «preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti», atteggiamento che in ambito universitario diventa anche il distribuire esami e lauree in modo del tutto arbitrario e fuori legge, come nel caso che ho documentato qui: Lauree. Sempre nel testo del 2012 rinviavo a una riflessione ancora precedente, del 2007, intitolata Contro la madre, che chiudevo ricordando le parole di Baudrillard: 

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«Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e trovarvi l’appagamento del suo desiderio –in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (Lo scambio simbolico e la morte [1976], Feltrinelli 2007, pag. 127). Uscire, affrancarsi da lei, dalla Madre, è dunque liberarsi dalla perversione, è vivere. Finalmente lontani dal suo grembo di tenebra.
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Parole di sedici e di tredici anni fa, dunque, che oggi confermo pienamente anche alla luce di ciò che da allora va accadendo; parole con le quali tento una lettura un poco meno omologata e per la quale – senza che ci sia da sorprendersi – è in realtà una mancata emancipazione dalla madre, è un eccesso di matriarcato a rendere alcuni maschi affettivamente dipendenti dalle donne che desiderano e patologici sino all’orrore.

Assange

Il quinto potere
(The Fifth Estate)
di Bill Condon
USA, 2013
Con: Benedict Cumberbatch (Julian Assange), Daniel Brühl (Daniel Domscheit-Berg), Moritz Bleibtreu (Marcus), David Thewlis (Nick Davies), Alicia Vikander (Anke)
Trailer del film

Per evitare il rischio di annoiare -l’argomento è pur sempre cupo e politico- il film cade nell’eccesso opposto di una frenesia che non si sofferma su nulla più a lungo di qualche secondo. Diventa quindi puro spettacolo che a poco a poco sembra condividere la preoccupazione che i documenti resi noti da WikiLeaks mettano in pericolo le fonti. Aggiunge però anche alcune voci le quali affermano che a mettere in pericolo le vite degli informatori sono invece le politiche criminali dei governi oggetto della denuncia di WikiLeaks. Soprattutto il governo degli Stati Uniti d’America. La realtà è che Julian Assange è da dieci anni in un modo o nell’altro prigioniero e rischia di finire i suoi giorni in un carcere statunitense per accuse pretestuose, inventate allo scopo di farlo tacere e anche giuridicamente decadute.
Ma chi se ne importa? Chi dovrebbe difendere Assange? Dovrebbero forse farlo i giornali, la cui completa rinuncia al proprio ruolo ha reso WikiLeaks un’organizzazione tanto necessaria quanto innocua? Perché questo è il punto. Quando a indagare sulle azioni dei governi, informare sulle violenze da essi perpetrate, raccogliere e rendere noti i documenti che provano azioni e violenze, quando a fare tutto questo è un sito web e il suo fondatore mentre stampa, giornali e televisioni vengono finanziati dai governi e dalle multinazionali, accade che l’opera di denuncia, il numero di documenti diffusi, i file presenti sui server di WikiLeaks diventano di numero e di tristezza tali da non incidere più di fatto sulla percezione che si ha dell’opera dei governi, ai quali invece -seguendo la melensa e propagandistica azione quotidiana dei giornali e dei telegiornali- si crede come a delle strutture volte a preservare la sicurezza e il benessere dei cittadini.
Falso, naturalmente. Radicalmente falso. Intrinsecamente falso. Ma capire che l’opera dei governi è criminale implica un impegno politico ed esistenziale che non è facile praticare. Assai più comodo credere a telegiornali, giornaletti e giornaloni. Assai più comodo rimanere nella ingenuità di un approccio infantile, obbediente e acritico alla politica.
Tutto questo nel film si intravede ma non viene tematizzato. Al di là della preoccupazione ‘spettacolare’, un esito così incompiuto -un’occasione davvero mancata- è dovuto anche alla preoccupazione da parte di regista e produttori di essere a propria volta perseguitati. Fatti e timori che testimoniano come negli ultimi decenni le libertà siano state sempre più erose anche negli stati che si autodefiniscono ‘democratici’ e i cui cittadini credono ormai a qualsiasi cosa provenga dalle fonti mediatiche ufficiali, a qualsiasi notizia e interpretazione venga dai governi e dalle aziende che di quei media sono proprietari.
Vale sempre l’avvertimento di Debord: «Il ne faut pas oublier que tout médiatique, et par salaire et par autre récompenses ou soultes, a toujours un maître, parfois plusieurs» (‘Non bisogna dimenticare che ogni impiegato dei media, tramite lo stipendio e altre ricompense, ha sempre un padrone, e spesso più di uno’; Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard 1992, § VII, p. 31).
L’attività di Assange può essere criticata, naturalmente. Ai miei occhi il progetto di una trasparenza completa delle istituzioni è non soltanto irrealizzabile –il potere è il suo segreto– ma è anche per molti versi inquietante. Le comunità hanno bisogno di un certo grado di riservatezza, come ne hanno bisogno le persone. E nessun documento da solo è in grado di comunicare la complessità della catena di eventi della quale è parte. Ogni dato va sempre interpretato, contestualizzato, compreso. Anche per questo l’opera di WikiLeaks rischia di diventare un magazzino di turpitudini dell’autorità. La vita individuale e collettiva è intrisa di ermeneutica.
Nonostante tali riserve, però, e di fronte al servilismo totale della più parte dei «médiatiques», di fronte al fiume di menzogne che telegiornali e giornali propinano senza interruzione, l’azione di Assange è stata e continua a essere preziosa per comprendere «di che lagrime grondi e di che sangue» l’autorità dei governi (Foscolo, Dei Sepolcri, v. 158).

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