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La Madre

Mother, Couch
(Divano di famiglia)
di Niklas Larsson
USA, Danimarca, Svezia 2023
Con: Ewan McGregor (David), Ellen Burstyn (la madre), Rhys Ifans (Guffrud), Taylor Russell (Bella), Lara Flynn Boyle (Linda), F. Murray Abraham (Markus / Marco)
Trailer del film

Per dei mammiferi la madre è tutto. E non soltanto per i cuccioli di Homo sapiens che nascono in una cultura mediterranea, dove la Grande Madre è la vera divinità (la Madonna cattolica è questo) e dove, all’opposto di quanto affermano tesi che rimangono alla superficie delle dinamiche sociali, la struttura delle comunità è sostanzialmente matriarcale (la più parte dei figli di origine siciliana potrà darne conferma). La questione è più profonda: la madre è il legame con la vita stessa (come è ovvio), con il clan, con la casa, con la filogenesi. La madre è tutto.
E lo è anche e soprattutto quando il suo comportamento risulta scostante e l’atteggiamento poco affettuoso, come per la madre di questo film, la quale non aveva desiderato i suoi figli – e apertamente glielo comunica –  e non nutre affetto neppure verso i nipotini. Una madre che ha avuto i suoi tre figli da tre uomini diversi. Il figlio più giovane, David, è il più dedito a lei. E lo rimane anche quando, imprevedibilmente, la signora ultraottantenne non intende alzarsi dal divano di un negozio di arredamento. I figli, uno dopo l’altro, cercano di convincerla ad alzarsi e a tornare a casa. Ma non c’è niente da fare. Prima per delle ore e poi giorno e notte la madre rimane lì, reagendo con furore a ogni tentativo di condurla via. In un momento di quiete, consegna a David la chiave di una cassettiera dicendogli che è giusto che sia lui ad averla e ad aprirla. Questo mobile contiene la spiegazione di molti eventi, di molto dolore. A poco a poco tutta la vicenda assume una dimensione onirica che è l’espressione della interiorità di David. Lo è anche la madre. Il negozio si trasforma in un luogo di passaggio dalla solidità della terra al mistero delle acque, dalla vita alla morte, dal presente alla memoria.
È un film plurale, questo di Niklas Larsson. Un film che è commedia ed è dramma, che è la desolazione di un negozio sperduto nelle lande statunitensi ed è però anche un luogo sacro, i cui proprietari, due fratelli gemelli e la bella figlia di uno di loro, si rivelano assai più che dei commercianti essendo invece figure del destino. Il sogno, l’incubo e la pace mi hanno ricordato Una pura formalità (1994), il capolavoro di Giuseppe Tornatore.
Protagonista di Mother, Couch è il figlio, il quale però vive dentro l’anima della madre. Come molte delle sue simili, essa non tollera concorrenza, competizione, collaborazione. I figli sono suoi, frutto delle sue viscere, portati per mesi nel ventre, dati con dolore alla luce, specchio riflesso della sua natura.
E invece la Madre va uccisa, se vogliamo vivere. Essa deve diventare una persona qualsiasi della famiglia. Non bisogna permetterle di raggiungere il suo scopo: essere la Grande Madre che controlla i tempi, gli affetti, i progetti degli altri. La Grande Madre è la Gorgone che paralizza, è la Vergine Maria che rende ogni Giuseppe un individuo ridicolo e patetico, è l’Angelo del focolare che brucia le anime dei figli, è la Potenza della Terra che si apre a inghiottire nel proprio utero i corpi che da esso sono usciti. Che stritoli i nati nel proprio affetto o che dia loro l’angoscia dell’abbandono, la Grande Madre è la Morte.
Come la madre di Citizen Kane, la Signora di questo film ha abbandonato la prole, anche se lo ha fatto in modo diverso. La dimensione tragica, greca e gnostica del capolavoro di Orson Welles diventa qui una commedia nera. Ma in ogni caso ha ragione Baudrillard: «Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e trovarvi l’appagamento del suo desiderio – in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (Lo scambio simbolico e la morte [1976], Feltrinelli 2007, p. 127). Uscire, affrancarsi da lei, dalla Madre, è dunque liberarsi dalla perversione, è vivere. Finalmente lontani dal grembo di tenebra che anche questo film intuisce e comunica.

Arturo

Misericordia
di Emma Dante
Italia, 2023
Con: Simone Zambelli (Arturo), Simona Malato (Betta), Tiziana Cuticchio (Nuccia), Milena Catalano (Anna), Fabrizio Ferracane (Polifemo), Carmine Maringola (Enzo)
Trailer del film

Lo splendore della terra e del mare, della costa e del cielo tra Palermo e Trapani. Una antica torre d’avvistamento intorno alla quale vive una miserabile comunità di prostitute, di ruffiani, di commercianti in ferrivecchi, di bambini, di pastori e di pecore. Il contrasto tra la grandezza del paesaggio e la sporcizia delle catapecchie, delle quali Nuccia – una delle prostitute – dice «E la chiami casa, questa? Questo tugurio pieno di merda?» – è un contrasto che contribuisce a produrre lo straniamento e lo stridore che intessono il racconto. È un mondo altro ma è davvero un altro mondo? I nuclei del racconto, il basso continuo delle vite, l’evidenza del concreto, sono infatti elementi quali la prevaricazione, la violenza, il dominio, il gioco, la sporcizia, le passioni. E soprattutto i corpi e la follia. Il corpo folle di Arturo, un giovane che non parla, un handicappato cognitivo figlio di una prostituta uccisa a botte dal suo uomo, trovato neonato da una pecora nelle rocce vicino al mare, accudito allevato e cresciuto da due mature prostitute alle quali si aggiunge una nuova arrivata, una giovane ennesima vittima di Polifemo, il violento e volgare magnaccia con un occhio solo del quale Arturo ha terrore.
La dimensione materna matriarcale mistica di tutta l’opera teatrale e cinematografica di Emma Dante emerge qui con forza. Il morbo sacro, l’epilessia, di cui soffre Arturo, è davvero πιλαμβάνομαι, qualcosa che invade e conduce ai confini della morte. Corpi e follia costituiscono elementi centrali della poetica di questa autrice come emerge in Pupo di zucchero. La festa dei morti, ne Le sorelle Macaluso, nell’Eracle messo in scena a Siracusa, in Via Castellana Bandiera.
I corpi, soprattutto i corpi. I corpi strabordanti aggraziati pestati delle prostitute, il corpo nudo di Arturo, fremente di un dinamismo simile a quello dei quattordici corpi interamente svestiti che in Bestie di scena esprimevano senza mai parlare la loro densità, età, magrezza, pinguedine, bellezza, deformità.
Come ho letto in una bella recensione trovata in Rete: «Questi corpi pesanti e appesantiti ritrovano la loro lievità soltanto in acqua – un altro elemento simbolico del ventre materno – cui si contrappone il fragore e la pesantezza della pietra dove Arturo viene trovato, segnato già da un destino ingombrante; la pietra che precipita giù e tende verso il suo luogo naturale. La pietra che si schianta in mare, si fa polvere per ritornare leggera. Anche i corpi in mare ritrovano la loro lievità riuscendo a danzare con lo stesso garbo della ballerina del carillon che tranquillizza Arturo, con la sospensione che avvolge il niente dell’anteriorità».
Corpi fatti di nostalgia, di innocenza, dell’animalità che rimaniamo sempre ma che abbiamo stoltamente imparato a negare, corpi fatti di infanzia e di abbandono. L’infanzia e l’abbandono che pulsano nel romanzo di Elsa Morante L’isola di Arturo, del quale il nome stellare del protagonista è evidente richiamo. Romanzo paterno quello di Morante, che in Misericordia si capovolge nella pura maternità che intramava la versione teatrale dell’opera a Milano. Versione più riuscita rispetto al film, perché inevitabilmente più sobria, essenziale, distillata, sempre con Simone Zambelli inquietante e straordinario protagonista di un racconto che è teatro danza e musica perché è uno sguardo sull’abisso della condizione umana. Il degrado è una metafora, la miseria è un segno, gli oggetti sono movimento.
Misericordia è puro langage, oltre ogni specifica langue e nella declinazione peculiare della parole che ciascuno riesce a dire muovendo nello spazio il corpo in cui consiste, totale espressività che si conclude con la parola dalla quale per gli umani tutto scaturisce e che invocano quando muoiono: «Mamma».
Le tre puttane sono parche, moire, divinità che danno la vita e che precipitano ciascuno nella solitudine irrimediabile che è l’esserci. Pura epica mediterranea.
Ancora dalla recensione di prima: «Il legame con la donna che lo ha generato intesse il film, il cordone che assume forma di lana o di pasta unisce il figlio alla madre: il primo nome che si riesce a sillabare, l’ultimo che si invoca. Arturo parte. Nella valigia i ricordi. Addosso dei vestiti. Davanti a sé la promessa del futuro. Alle spalle la nostalgia della terra e del niente. Solo un parola dinnanzi a così tanta miseria: Misericordia».

[Ho visto il film all’Ariston di Catania, cinema che frequento da decenni e che è diventato infrequentabile. La direzione ha infatti deciso di trasformare anche il cinema in televisione. Non era facile ma vi è riuscita interrompendo il film a metà per proiettare due trailer di altri film e soprattutto dei patetici spot di pubblicità locale. Difficilmente andrò di nuovo in un cinema che ha così scarso rispetto dei suoi spettatori, ai quali non regala certo il biglietto d’ingresso ma a cui impone della pubblicità anche esteticamente squallida]

Patriarcato

La lettera che qualche giorno fa ho ricevuto da Dario Generali, uno dei massimi studiosi europei di Storia della scienza, è un esempio di come vadano letti i fatti collettivi, sottraendosi al massiccio condizionamento dell’informazione dominante, alla retorica più penosa, ai valori diventati strumento di una società ossessionata e fragile. La limpidezza, coerenza e plausibilità di quanto scrive Generali è una lucida alternativa al desolato paesaggio mediatico e sociologico nel quale siamo da tempo immersi. Riproduco con la sua autorizzazione il testo.

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Sono rimasto colpito dall’insistenza delle proposte di corsi di educazione all’affettività a scuola, che sarebbero, secondo me, le solite inutili perdite di tempo a scapito dell’insegnamento. A mio parere, detta in breve, servirebbe piuttosto una formazione seria che metta gli studenti nelle condizioni di affrontare ogni loro problema con razionalità, senza farsi travolgere da fragilità psicologiche ed emotività surriscaldate. Anche l’insistenza sul paternalismo e sul maschilismo mi sembra fuori luogo. In primo luogo è difficile definire il nostro paese, almeno sul piano istituzionale, paternalista. Il presidente del Consiglio è donna, donna è il ministro dell’Università e della ricerca, donna è la presidente del CNR. Anche l’ultimo vestigio del maschilismo è stato superato con l’attribuzione ai figli anche del cognome della madre. Un maschilista, poi, non insisterebbe mai per tenersi una ragazza o una donna che se ne vuole andare, perché la sostituirebbe subito con altre. Quando mai un maschilista pietirebbe con una donna per non essere lasciato? Che vada pure dove vuole, ne troverebbe subito altre. Quando un uomo passa alla violenza sulle donne in realtà ha una psicologia malata e lo è tanto più quanto quella violenza, per non parlare di quando giunge a ucciderle, si ritorcerà poi pesantemente su di lui, rovinandogli la vita o anche inducendolo poi a suicidarsi per sfuggire alle conseguenze del suo gesto folle.
Capirei di più se queste azioni avvenissero a seguito di azioni persecutorie da parte di donne. Come far togliere ingiustamente l’affido dei figli, cacciare il marito di casa, farsi pagare gli alimenti e ospitarci invece un amante, con i figli piccoli che finissero per identificarlo come il loro padre, ecc. Ma prendersela con una fidanzata che se ne vuole andare è chiaro segno di follia e di patologica debolezza. Paternalismo e maschilismo c’entrano secondo me ben poco.
Come sempre, in queste discussioni, quella che latita è la razionalità.
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A conferma delle riflessioni di Generali segnalo un mio breve intervento pubblicato più di dieci anni fa, il 20.10.2012, riferito anch’esso all’assassinio di una ragazza da parte del suo ex fidanzato.
Ne riporto qui il contenuto.

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Un uomo di 23 anni, Samuele Caruso, ha ferito a Palermo con un centinaio di coltellate la ragazza di diciotto anni che lo aveva lasciato e ha ucciso la sorella di lei, diciassettenne, che cercava di difenderla.
Eventi di questo tipo si ripetono con regolarità. Quali le ragioni? Possono essere numerose e diverse. Lo psichiatra Vittorino Andreoli parla di maschi insicuri e di gelosia patologica. Vero. Maschi resi tali – soprattutto nel Sud mediterraneo – anche dal mancato affrancamento dalla figura della madre. Molti sociologi e donne parlano di femminicidio. Vero anche questo.
Ma credo ci sia anche una motivazione di tipo educativo. Uno straordinario racconto di Friedrich DürrenmattIl figlio – narra di un padre che aveva allevato il figlio in solitudine «esaudendogli ogni desiderio». Quando il ragazzo quindicenne esce dalla villa dove aveva sino ad allora vissuto, torna «ventiquattro ore dopo a rifugiarsi dal padre, avendo brutalmente ucciso una persona che si era rifiutata di dargli da mangiare senza pagare» (Racconti, Feltrinelli 1996, pp. 13-14). La responsabilità è anche e soprattutto dei genitori, dei nonni, dei maestri, dei professori. Di tutti quegli adulti che, rispetto alla fatica che ogni negazione argomentata comporta, preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti. Quando un bambino e ragazzo riceve sempre da coloro che dovrebbero educarlo dei “sì” (non sia mai che il pargolo subisca dei “traumi”), è chiaro che poi non comprende come sia possibile che qualcuno, una coetanea ad esempio, gli possa dire di no. E scatta la reazione del bambino che pesta i piedi per ottenere il suo giocattolo.
Aveva e ha perfettamente ragione Giuliana Ukmar nel coniare la formula «Se mi vuoi bene, dimmi di no». Aveva ragione a stigmatizzare il «permissivismo esasperato» che induce a ritenere che « “volere” una cosa significa, automaticamente, averla. […] Se il risultato più patologico che emergeva dal rapporto con un padre-padrone era un figlio dalla personalità nevrotica, piena di fobie, il traguardo finale di una educazione di stampo permissivo è, invece, una personalità che sfocia nella psicosi. Gravissima, difficile da curare. Un ragazzo cresciuto senza regole, è in preda a quel delirio d’onnipotenza che lo indurrà a crearsi una realtà su misura». Un delirio che fa dei propri desideri il criterio assoluto del mondo e che quindi non tollera che una donna possa lasciarti.
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Avevo dunque accennato ai professori che «preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti», atteggiamento che in ambito universitario diventa anche il distribuire esami e lauree in modo del tutto arbitrario e fuori legge, come nel caso che ho documentato qui: Lauree. Sempre nel testo del 2012 rinviavo a una riflessione ancora precedente, del 2007, intitolata Contro la madre, che chiudevo ricordando le parole di Baudrillard: 

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«Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e trovarvi l’appagamento del suo desiderio –in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (Lo scambio simbolico e la morte [1976], Feltrinelli 2007, pag. 127). Uscire, affrancarsi da lei, dalla Madre, è dunque liberarsi dalla perversione, è vivere. Finalmente lontani dal suo grembo di tenebra.
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Parole di sedici e di tredici anni fa, dunque, che oggi confermo pienamente anche alla luce di ciò che da allora va accadendo; parole con le quali tento una lettura un poco meno omologata e per la quale – senza che ci sia da sorprendersi – è in realtà una mancata emancipazione dalla madre, è un eccesso di matriarcato a rendere alcuni maschi affettivamente dipendenti dalle donne che desiderano e patologici sino all’orrore.

La storia

The Favourite
(La favorita)
di Yorgos Lanthimos
Grecia, 2018
Con: Olivia Colman (Queen Anne), Rachel Weisz (Sarah Churchill, Duchess of Marlborough,), Emma Stone (Abigail Masham)
Trailer del film

Tre meravigliose attrici disegnano e incarnano la potenza che sino in fondo e verso ogni confine fa della vicenda umana l’inevitabile e nascosto matriarcato che da sempre essa è. Anne Stuart (1665-1714) governa il Regno Unito. Lo fa da una camera, da un letto, da una carrozzina, dalle stampelle. La gotta non le consente l’agilità necessaria a muoversi autonomamente. Condizione che, unita alle molte gravidanze andate a male, causa una salute malferma e una volontà oscillante tra il pianto e le carezze. A sostenerla negli affari di stato c’è la favorita Sarah Churchill, duchessa di Marlborough. Una giovane e lontana cugina di Sarah compare a corte e a poco a poco la conquista, passando dal ruolo di sguattera a quello di ministro. Abigail, questo il suo nome, è stata istruita alla durezza dalle disgrazie familiari che l’hanno fatta decadere da una condizione nobiliare a uno stato di indigenza.
La lotta tra le due donne sul corpo e per il corpo della regina descrive la vicenda umana, le sue guerre, la diplomazia, la determinazione, la menzogna, la ferita, i silenzi, i colpi, le parole, i veleni. Gli strati sociali si confondono nella medesima miseria, dalle prostitute «che danno il culo ai soldati sifilitici» agli aristocratici imbellettati come le puttane, dai servitori perfidi e impacciati ai primi ministri tracimanti di corruzione, dai viaggiatori pervertiti in misere carrozze allo sfarzo di imponenti biblioteche. Ovunque e sempre la violenza involve la vita degli umani, una comune passione la muove, la passione della sopravvivenza dentro il gorgo immutabile e dinamico del tempo collettivo.
Qualche commentatore ha scritto che finalmente Yorgos Lanthimos avrebbe abbandonato ‘le plumbee atmosfere metafisiche’ delle sue ultime opere. Non sanno proprio vedere che invece questo regista crea sempre il medesimo film, come Kubrick.
Di DogtoothKynodontas  (2009), The Favourite possiede lo stile iperrealista e raffinato, asciutto e insieme grottesco; così come di The Lobster (2015) esprime la distopia insita nei sentimenti, nei legami, nel naturale, totale, disperato bisogno che gli umani sentono di vivere con gli altri, un bisogno sul quale l’autorità  getta la rete sadica dei suoi comandi. E come ne Il sacrificio del cervo sacro (2017) emerge qui l’inesorabile forza degli eventi concatenati gli uni agli altri, dentro più dentro le passioni umane, il cui andare è stabilito dall’ininterrotto divenire dei desideri, delle ambizioni, del gelo e delle follie.
Tutto questo è narrato tramite l’opulenza del grandangolo e lo sbigottimento dei primi piani, mediante lo sfarzo dei colori e la ferocia che cola dalla luce. Ma alla fine, alla fine è la giustizia. Giustizia che riscatta gli altri animali dalla viltà umana e fa di un coniglio il segno, la traccia e l’occasione di una scena conclusiva strana sino all’incomprensibilità e tuttavia splendida e trasparente per chi sa che il sogno umano -ciò che chiamiamo storia– è abitato nel suo fondo dalle immagini ancestrali degli animali. Per chiudere un film nel modo in cui The Favourite si chiude bisogna avere molto coraggio, bisogna avere genio.

μυθος

Il mito è l’essenza stessa del linguaggio e della vita. Comunità, etnie, individui, popoli, in esso abitano e in esso si specchiano. Alla radice di tale potenza c’è secondo Robert Graves la donna. Un matriarcato ontologico fa sì che nel «complesso religioso arcaico non vi erano né dèi né sacerdoti, ma soltanto una dea universale e le sue sacerdotesse; la donna infatti dominava l’uomo, sua vittima sgomenta» (Robert Graves, I miti greci, trad. di Elisa Morpurgo, Longanesi 2011, § 1, p. 22)
La Terra è femmina; le Erinni -«Tisifone, Aletto e Megera» che «vivono nell’Erebo e sono più vecchie di Zeus e di tutti gli olimpi» (§ 31, p. 108) sono femmine; le Moire/Parche (Clòto, Làchesi e Àtropo) sono femmine; Afrodite (potenza del corpo) è femmina; Atena (la mente) è femmina; persino l’autrice dell’Odissea è probabilmente una femmina, e già Samuel Butler «vide in Nausicaa l’autoritratto dell’autrice, una giovane e geniale nobildonna siciliana del distretto di Erice» (§ 170, p. 678), la quale costruì sotto l’apparenza di un poema il primo romanzo greco, la cui geografia va dalla Sicilia alla Norvegia.
Dentro tutto questo e dietro ogni mito, Graves scorge la presenza della Dea Bianca -rappresentata dalla Luna e dalle sue fasi-, della sua potenza, della sua attrazione, del suo divenire. Nulla a che fare, quindi, con resoconti e letture soltanto filologiche -anche se l’erudizione di Graves è immensa- né con le banalità psicologiche di Freud e Jung, che riducono il Cosmo alla misera misura del cervello umano -«Secondo quell’antico culto il nuovo re, benché straniero, era considerato in teoria figlio del vecchio re che egli uccideva, sposandone poi la vedova: una consuetudine che gli invasori patriarcali interpretarono erroneamente come parricidio e incesto. La teoria freudiana che ‘il complesso di Edipo’ sia un istinto comune a tutti gli uomini, fu suggerita dal fraintendimento di questo aneddoto. Plutarco, pur narrando (Iside e Osiride, 32) che l’ippopotamo ‘uccise il genitore e violentò la genitrice’, non ne avrebbe mai dedotto che ogni uomo ha il complesso dell’ippopotamo» (§ 105, p. 342). Qui non ci sono neppure attualizzazioni o classicismi. L’autore semplicemente racconta i miti e in questo modo mostra tutta la loro potenza, oggi come ieri, come sempre.

Li racconta esponendo un numero assai grande di varianti quasi per ogni nome e per ogni circostanza. E questo conferma che anche il mito, come la filosofia,  è un gioco di Identità e Differenza nel quale si esprime la ricchezza senza fine del tempo.
Ci sono tutti i miti dei Greci, proprio tutti anche i più sconosciuti, ci sono tutti i personaggi, tra i quali emergono Eracle con la sua immensa forza; Odìsseo, il quale «è un personaggio chiave della mitologia greca» proprio perché «sebbene fosse nato da una figlia del corinzio dio del Sole e avesse conquistato Penelope all’uso antico, vincendo una corsa podistica, egli infrange la secolare legge matriarcale, insistendo perché Penelope venga a vivere nel suo regno anziché trasferirsi in quello di lei» (§ 160, p. 602); il titano Encèlado, contro il quale Atena scagliò il masso che uccidendolo lo trasformò nella Sicilia; Cecrope animalista, il quale «offriva agli dèi soltanto focacce d’orzo, astenendosi persino dal sacrificare animali» (§ 38, p. 125); Dedalo che visse a lungo «tra i Siciliani, costruendo molti splendidi edifici» (§ 92, p. 284); Medea, la maga più potente di tutte, che «non morì mai, ma divenne immortale e regnò nei Campi Elisi dove alcuni sostengono che fu lei, e non Elena, la sposa di Achille» (§ 157, p. 573); Penelope, che se per Omero/Nausicaa rimase fedele al suo sposo, secondo altre tradizioni fu in realtà la madre di Pan, da lei nato «dopo che essa si accoppiò promiscuamente con tutti i suoi pretendenti durante l’assenza di Odisseo», versione che «si ricollega alla tradizione delle orge sessuali pre-elleniche» (§ 160, p. 603).

E poi ancora: la guerra, come quella paradigmatica di Troia che aveva opposto l’Asia all’Europa, che Zeus e Temi fecero scoppiare forse per rendere famosa Elena oppure per esaltare e confermare la potenza dei semidei che la combatterono «e al tempo stesso decimare le tribù popolose che opprimevano la faccia della Madre Terra» (§ 159, p. 584); i costumi, come l’usanza di vestirsi di nero in occasione dei lutti, prodotta dal bisogno «di ingannare le ombre dei morti, alterando il proprio aspetto» (§ 114, p. 396); l’illusione, generata da Prometeo per evitare la distruzione totale, conseguenza di Pandora -la prima donna mortale, «che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella: la prima di una lunga serie di donne come lei»-, la quale aprendo il vaso che conteneva ogni male portò agli umani «la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. […] Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio» (§ 39, p. 130); la vendetta, Nemesi figlia di Oceano, la cui «bellezza è paragonabile a quella di Afrodite» (§ 31, p. 111), il cui appellativo di Aδράστεια -l’ineluttabile- la rende ben più sovrana di Zeus, del quale fu nutrice.

Su questa Luce splende la potenza dei due ἀδελφοί, dei fratelli Apollo e Dioniso. Il primo «predicò la moderazione in ogni cosa» e tuttavia fu anche capace di furia tremenda (§ 21, pp. 69-71). Il secondo, molto vicino al mondo femminile tanto da essere «di solito rappresentato come un giovane effeminato dai capelli lunghi e la sua maschera poteva essere scambiata per quella di una donna» (§ 79, p. 237), inventò il vino e ogni forma di ebbrezza, «andò vagando per il mondo, accompagnato dal suo tutore Sileno e da un gruppo frenetico di Satiri e di Menadi», fu in grado di trasformarsi in serpente, «in leone, in toro, in pantera», e fare impazzire chiunque volesse, «spargendo gioia e terrore ovunque passava» (§ 27, pp. 92-93) e tuttavia fu anche capace di porre termine ai «riti più antichi e primitivi […], al cannibalismo e all’omicidio rituale» (§ 72, p. 213).
L’incrocio di identità e di destini tra Apollo e Dioniso è un chiasmo sacro, nel quale i miti dei Greci raggiungono pienezza, significato, luce e sostanza. La resurrezione annuale di Dioniso «continuò a essere celebrata a Delfi, dove i sacerdoti consideravano Apollo la parte immortale di Dioniso» (§ 27, p. 96).

Nora / Matriarcato

Teatro Franco Parenti – Milano
Una casa di bambola
di Henrik Ibsen
Con Filippo Timi, Marina Rocco, Mariella Valentini, Andrea Soffiantini, Marco De Bella, Angelica Gavinelli, Elena Orsini, Paola Senatore
Traduzione, adattamento e regia di Andrée Ruth Shammah
Sino al 24 febbraio 2016

Casa_di_bambolaLa bambolina Nora è in realtà la vera regista della casa, colei che guida le relazioni, che le sceglie, che seduce, che agisce, che nasconde e che rivela. Nora costituisce uno dei più nascosti e dissimulati ma chiarissimi esempi della potenza della donna, di fronte alla quale il potere del maschio è quello di un principe consorte che però si illude di essere lui il sovrano.
Davvero efficace e disvelatrice la scelta di affidare allo stesso attore -un eccellente Filippo Timi- i tre ruoli maschili. Non si tratta infatti qui del marito, dell’amico, del nemico ma semplicemente del maschio, le cui figure sono intercambiabili e sempre sottoposte alla potenza femminile.
L’esplicita critica di Ibsen ai criteri etici e sociali borghesi si trasforma lentamente e inesorabilmente in un riconoscimento del matriarcato nascosto che rimane al fondo delle società cristiane; queste soltanto, infatti, hanno potuto concepire l’idea di una donna «Madre di Dio» che non fosse essa stessa una dea.
Una forza quindi che in origine era inferiore diventa l’oggetto di un culto molteplice e pervasivo che sovrasta e oscura quello della ben più ardua -teologicamente- Trinità. «Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ali» (Paradiso, XXXIII, 13-15). Nel testo di Ibsen la metafora delle ali ricorre spesso. Alla fine «l’allodoletta» prende il volo da sola e il suo maschio rimane a terra, affranto e poveretto.

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