Skip to content


Conflitti

Conflitti unilaterali
in Liberazioni. Rivista di critica antispecista
Anno IX / n. 33 / Estate 2018
Pagine 90-96

Il dualismo umano/animale va oltrepassato nella comune appartenenza al mondo dei senzienti. Questa prospettiva antispecista è parte fondamentale del mio materialismo. I conflitti ai quali accenna il titolo del testo sono quelli unilateralmente scatenati dall’Homo sapiens nei confronti dell’animalità della quale è parte.
Una spiegazione assai acuta di tale violenza è fornita dall’eccellente libro di Mormino, Colombo e Piazzesi Dalla predazione al dominio. La guerra contro gli animali, con il quale cerco qui di confrontarmi in alcuni dei suoi presupposti e nelle significative conseguenze che se ne possono trarre in ambito filosofico ed etnologico.
Più ha valore quanto si offre in cambio, più aumentano le probabilità di ottenere ciò che si chiede. E che cosa ha valore per dei viventi il cui corpo è intessuto e irrorato di una sostanza fondamentale e potente come il sangue? L’offerta del sangue, appunto. Sangue che si trova disponibile in ogni momento nei corpi degli altri animali, molto più deboli e incapaci di opporre resistenza. Il sacrificio cruento per ingraziarsi i divini ha cessato di essere praticato soltanto quando e dove se ne è percepita l’inutilità, sostituita da tecnologie più efficaci, non quando e dove si è verificato un presunto addolcimento dei costumi o “razionalizzazione” delle concezioni. Tanto è vero che sacrifici immani, quotidiani, costanti e assai crudeli vengono praticati ogni giorno nelle più tecnologiche città del mondo. I luoghi dove tali sacrifici si praticano con altri nomi sono i laboratori di ricerca e i macelli. In essi domina la medesima logica del sacrificio cruento, che mostra in tal modo la propria persistenza.
Questo numero di Liberazioni porta in copertina un’affermazione del filosofo marxista Louis Althusser: «Si può conoscere qualcosa degli uomini soltanto alla condizione assoluta di ridurre in cenere il mito filosofico (teorico) dell’uomo». Il testo continua così: «Ogni pensiero che si riferisse dunque a Marx per ristabilire in un modo o nell’altro un’antropologia o un umanesimo teorico sarebbe teoreticamente soltanto cenere» (Per Marx [1965], ed. it. a cura di M. Turchetto, Mimesis 2008, p. 201).
Condivido pienamente le tesi di Althusser. «Ridurre in cenere» il mito umanistico è una delle condizioni di ogni conoscenza del mondo.

Materialismo

Ho inserito su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi) degli undici minuti conclusivi della lezione di Filosofia teoretica svolta il 20.3.2017.  Vi si dice che «la prospettiva di questo corso è una prospettiva radicalmente materialistica». Nelle lezioni successive ho cercato di spiegare in che senso lo sia. Qui ho tentato un chiarimento del titolo del corso: Teoria generale del tempo come identità e differenza. Tempo che, scrive Carlo Rovelli, «è dolore perché quello che abbiamo e a cui ci attacchiamo poi lo perdiamo. Perché tutto quello che inizia poi finisce. Quello che soffriamo non è né nel passato né nel futuro: è lì ora, nella nostra memoria, nelle nostre anticipazioni. Aneliamo all’atemporalità, soffriamo il passaggio; soffriamo il tempo. Il tempo è il dolore»  (L’ordine del tempo, Adelphi 2017, p. 61).
Ma il tempo è anche la gioia dell’inizio, la vitalità dell’inedito, la gratificazione della scoperta, la pace dell’inevitabile, la pulizia del rinnovamento, la costanza dell’andare che ci libera dalla morta gora dello stare. Il tempo è la bellezza del nomadismo, la lievità dell’effimero, la potenza dell’essere stati, la pienezza dell’essere adesso.

Louli su Anarchisme et Anthropologie

Sul numero del 12 aprile 2017 della rivista Lectures Jonathan Louli ha recensito Anarchisme et anthropologie.
Lo ha fatto in modo corretto, argomentato, problematico. Si tratta infatti di una riflessione competente, giustamente critica ma anche pronta a riconoscere il significato e l’originalità della prospettiva che il libro propone. Anarchismo tragico è una formula che ben sintetizza quanto il recensore ha colto ed espresso delle mie tesi.
Sono contento di essere letto in questo modo, in una corretta dialettica che esprime delle consistenti e legittime riserve ma prende molto seriamente il libro. Il modo in cui il testo si chiude mi sembra un riconoscimento metodologicamente corretto e politicamente efficace:
«Quoiqu’il en soit, malgré ces différents aspects polémiques, l’essai reste dense et riche, dans un style cinglant et concis. La critique de l’anthropocentrisme, peu courante, qui plus est à travers une approche proprement matérialiste, n’en est pas moins cohérente et intéressante à lire. Dans le livre, l’importance du regard « désenchanté » qui se forme alors au sujet de nous-mêmes produit un anarchisme individualiste et une anthropologie assez tragique. “L’homme est un loup pour l’homme”, disait Hobbes pour justifier l’État-Léviathan, source d’émancipation individuelle à travers les protections qu’il offre aux individus. “L’homme est un loup pour l’homme”, dit Biuso pour justifier la fin de l’État et du rapport destructeur à la nature, fin qui sera source d’émancipation individuelle à travers les protections qu’elle offrira aux individus. Une curieuse mais plutôt originale façon de penser l’anarchisme et l’anthropologie, mais après tout, il peut être constructif de dépasser les querelles de chapelles quand il est question de résister, chacun à son échelle, contre les principales formes de hiérarchie en place»

Link alla recensione 

Gender Theory

Negli studi accademici e nei mezzi di comunicazione di massa si va imponendo la Gender Theory, vale a dire l’idea di «sostituire a categorie come il sesso o le differenze sessuali, che rimandano alla biologia, il concetto di genere che, viceversa, dimostra che le differenze tra gli uomini e le donne non sono fondate sulla natura, ma sono storicamente costruire e socialmente riprodotte». Queste parole si trovano in una dichiarazione della deputata socialista francese Julie Sommaruga (cit. da A. de Benoist, in Diorama letterario 329, p. 1).
Si tratta di una posizione che va ben oltre qualunque forma di platonismo e di storicismo. È infatti una teoria che attribuisce uno degli elementi fondamentali dell’identità umana e animale -la differenza tra i sessi- al semplice effetto di opzioni culturali, di costume, di credenze ideologiche, filosofiche, religiose. Una teoria che dissolve esplicitamente la differenza a favore dell’identità. Caroline de Haas sostiene infatti che «noi non neghiamo le differenze tra gli esseri, ma diventiamo indifferenti alle differenze: così faremo un grande passo in avanti verso l’eguaglianza» (Id., p. 2). Monique Wittig va oltre e afferma che «per noi, non ci possono più essere né donne né uomini. […] In quanto categorie di pensiero e di linguaggio, essi devono scomparire politicamente, economicamente, ideologicamente» (Id., p. 3).
L’antimaterialismo culturalista nasce da una radicale ostilità verso la struttura biologica dei corpi umani e animali, «in particolare verso il corpo sessuato. Il corpo smette di essere il dato iniziale attraverso il quale noi apparteniamo alla specie. L’appartenenza alla specie è staccata in maniera metafisica da qualunque ‘incarnazione’: preesiste al sesso» (Ibidem). Le obiezioni mosse da Alain de Benoist a tali posizioni mi sembrano del tutto condivisibili. Ne riporto qui alcune.
«L’ideologia del genere poggia su due fondamentali errori. Il primo consiste nel credere che il sesso biologico non abbia alcun rapporto con l’identità sessuale né con la personalità, e che il genere si costruisca senza alcun’altra relazione con il sesso al di fuori delle ‘convenzioni’ alimentate dalla cultura, dall’educazione  o dall’ambiente sociale. Il secondo consiste nel confondere sistematicamente il genere, nel senso esatto del termine, le preferenze o gli orientamenti sessuali ed infine il ‘sesso psicologico’ o ‘bisessualità psichica’, cioè il grado di mascolinità o di femminilità presente in ciascuno di noi» (Ibidem).
È del tutto evidente che «ci sono solo due sessi, ma esiste una pluralità di pratiche, di orientamenti o di preferenze sessuali. […] Quel che il sesso biologico non determina non è il ‘genere’, ma la preferenza sessuale. La molteplicità delle preferenze sessuali non fa scomparire i sessi biologici, e neppure ne aumenta il numero. L’orientamento sessuale, quale che sia, non rimette in discussione il corpo sessuato» (Id., pp. 3-4). Il sesso biologico determina quindi sin dall’inizio l’essere femmine/donne o maschi/uomini, senza che questo vincoli poi le preferenze sessuali. Da maschio/uomo posso accoppiarmi con un altro maschio/uomo senza però diventare una femmina/donna. Ho esercitato la mia giusta libertà erotica ma non ho potuto negare la mia struttura biologica.
Pensare il sesso, comprenderlo, gestirlo, non è dunque possibile al di fuori di una prospettiva che sia insieme biologica e culturale. «La credenza secondo cui non si nasce donna o uomo è una manifesta controverità. Il sesso (xx o xy) si decide in realtà sin dalla fecondazione dell’ovocito da parte dello spermatozoo, cioè prima ancora della comparsa morfologica degli organi genitali. […] La differenza dei sessi appare quindi marcata ben prima della nascita. E il ruolo degli ormoni sessuali prosegue durante tutta la vita. L’umanità unisex, di conseguenza, è un non senso per definizione. Si appartiene alla specie umana solamente in quanto uomo e donna, e questa differenza è acquisita sin dai primi istanti della vita» (Id., p. 4).
Negare quest’ultima evidenza è una forma di ultraplatonismo che Platone sarebbe il primo a rifiutare. Si tratta di un’espressione estrema del dualismo metafisico, un dualismo scatenato e sbagliato. Coerentemente, i suoi sostenitori dovrebbero chiedere di modificare alla radice, ad esempio, la legislazione sportiva, che continua a separare le squadre maschili dalle squadre femminili; dovrebbero proporre che in una squadra di calcio, basket, pallavolo, i membri siano indifferentemente maschi o femmine, proprio perché non si sarebbe per natura né l’uno né l’altro. O correre insieme -maschi e femmine- i cento metri piani.
La mia critica (che qui ho solo accennato) dei presupposti, delle tesi e delle conseguenze implicite della Gender Theory si fonda su una prospettiva materialista. Infatti «Leib bin ich ganz und gar, und Nichts ausserdem [corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro]» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte I, «Dei dispregiatori del corpo»)

Il materialismo antiumanista di Leopardi

Il giovane favoloso
di Mario Martone
Italia, 2014
Con Elio Germano (Giacomo), Michele Riondino (Antonio Ranieri), Massimo Popolizio (Monaldo), Valerio Binasco (Pietro Giordani), Paolo Graziosi (Carlo Antici), Sandro Lombardi (precettore di casa Leopardi), Isabella Ragonese (Paolina Leopardi), Anna Mouglalis (Fanny Targioni Tozzetti), Federica De Cola (Paolina Ranieri)
Trailer del film

Il problema sono le biografie. Le quali possono essere a volte utili alla comprensione ma che nel caso di artisti, filosofi, scienziati costituiscono per lo più un equivoco. L’equivoco della dipendenza dell’opera dal fattore biografico. È evidente che le esistenze di tutti gli esseri umani -compresi coloro che hanno lasciato qualcosa di duraturo, di fecondo, di bello nel tempo- sono segnate anche da contraddizioni e da miserie. Poiché sono segnate dal limite. Il problema è la riduzione dell’opera a tale limite. Il film di Martone cade in questo errore. E dire che ne è consapevole. Uno dei momenti chiave del film è infatti l’incontro di Leopardi con dei letterati in un caffè di Napoli. Alcuni di costoro criticano il tono eccessivamente «malinconico» delle sue composizioni. Qualcuno cerca di difenderlo ricordando i problemi di salute del poeta e facendo dipendere da questo elemento tale tono. Leopardi risponde con determinazione che questo non c’entra nulla, che -se riescono- debbono smontare i suoi ragionamenti e non le sue malattie, che non debbono ridurre a una questione di salute o di umore ciò che è frutto «del mio intelletto». Esatto. Ma il film naviga in direzione opposta. E lo fa anche esagerando, inserendo scene -come l’incontro con le prostitute- del tutto superflue e tendenti solo a titillare l’inevitabile voyeurismo di ogni biografia.

Giacomo Leopardi non c’entra nulla con tutto questo. Leopardi è uno dei più importanti filosofi europei dell’Ottocento. Un pensatore che come Kierkegaard, Schopenhauer, Heidegger, Cioran sa che l’esistere umano è un oscillare tra il dolore e la noia, il cui ultimo esito è l’essere per la morte. «Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono» (Cantico del gallo silvestre, in «Operette morali», Garzanti 1982, p. 287). La metafisica di Leopardi è radicalmente  materialistica. Egli vede nel mondo un continuo aggregarsi e sciogliersi di enti, in cui ciò che rimane costante è solo la quantità di energia e di sostanza. Nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco leggiamo che «le cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab eterno» (p. 294).
La logica conseguenza è il lucido e costante rifiuto di ogni antropocentrismo. L’infantile pretesa che il mondo sia stato fatto a esclusivo uso di una specie, che il volgere delle galassie e della materia sia finalizzato al progresso della vicenda umana, la dismisura antropocentrica -insomma- è deprecata da Leopardi con giusta ironia e a volte con ferocia. Prometeo riconosce di aver perduto la sua scommessa, di aver fatto un errore nell’esaltare le capacità dell’animale uomo, dato che il genere umano è sì sommo ma «nell’imperfezione» (La scommessa di Prometeo, p. 112). Nella chiusa del Dialogo di un folletto e di uno gnomo quest’ultimo splendidamente osserva che dopo la scomparsa degli umani «le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie» (p. 69). Leopardi si inserisce, così, in quella linea della filosofia europea che da Spinoza a Heidegger sottolinea la finitudine dell’ente uomo, il suo essere effimero in un mondo che si muove e vive in assoluta indipendenza rispetto alle sue componenti. La Natura risponde, gelida, all’Islandese che «se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvederei» (Dialogo della natura e di un Islandese, p. 155). Questa antica e sempre argomentata concezione teoretica si riduce nel film di Martone alla Natura che assume il volto della madre di Leopardi. Banale psicoanalisi, insomma.

Il primo a respingere con decisione il riduzionismo biografico è stato naturalmente lo stesso scrittore, il quale fu perfettamente consapevole della propria strategia ermeneutica e dei suoi fini e rifiutò con grande lucidità la tesi che voleva fare delle sue opere la mera conseguenza dei suoi malanni: «E sentendo poi…dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso…poi tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi» (Lettera a De Sinner, 24.5.1832). A chi gli vorrebbe negare la qualità teoretica e l’oggettività dell’analisi, Leopardi così risponde: «Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera» (Dialogo di Tristano e di un amico, in «Operette morali», p. 377).
Una filosofia dolorosa, ma vera. Leopardi non fu un uomo che soffriva, fu un corpomente che pensava. Ha quindi ragione Jaspers quando afferma che «un’opera deve essere valutata esclusivamente sulla base del suo contenuto spirituale: la causalità sotto il cui influsso qualcosa è creato, non dice nulla sul valore della creazione stessa» (Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia 1996, p. 104).
In questo film sono certamente suggestive la forma, il taglio delle inquadrature, la luce. Suggestivo e ben trovato è soprattutto il titolo. E però di questo «giovane favoloso» non si comprende in che cosa consista la meraviglia, lo splendore, la favola. La vicenda si conclude con la lettura di alcuni versi della Ginestra da parte di Leopardi di fronte allo «Sterminator Vesevo». Una lettura che però si interrompe insensatamente prima dei versi finali, che avrebbero potuto esprimere meglio l’ironia e l’antiumanesimo del pensiero leopardiano: «Ma più saggia, ma tanto / Meno inferma dell’uom quanto le frali / Tue stirpi non credesti / O dal fato o da te fatte immortali» (vv. 314-317).

Consilience

L’armonia meravigliosa
Dalla biologia alla religione, la nuova unità della conoscenza
di Edward O. Wilson
(Consilience, 1998)
Trad. di Roberto Cagliero

Il titolo italiano di quest’opera cerca, senza riuscirci, di restituire la densità di contenuto di un termine dell’inglese arcaico come Consilience. Coincidenza, convergenza, unificazione; questo è il plesso semantico che il titolo originale intende evocare. Convergenza tra che cosa? Tra il sapere scientifico e quello umanistico, non due campi separati e distinti -come induce a pensare lo specialismo che va diventando una palude di discipline minori dentro le quali affonda la comprensione del mondo- ma due ramificazioni dell’unico sapere umano e naturale, da apprendere nella sua unitarietà originaria e profonda. La complessità del mondo è incomprensibile senza una visione capace di sintetizzare science e humanities. Infatti,

l’idea centrale della visione coincidente del mondo è che tutti i fenomeni tangibili, dalla nascita delle stelle al funzionamento delle istituzioni sociali, sono fondati su processi materiali in ultima analisi riconducibili alle leggi della fisica, indipendentemente dalla tortuosità e dalla durata delle sequenze (pag. 305).

Comprendere la condizione umana significa anzitutto capire i geni e la cultura. E non come ambiti e funzioni autonome ma nella loro essenziale coevoluzione. L’evoluzione del cervello e quella dei comportamenti hanno proceduto insieme per milioni di anni. La radice di molti dei pericoli che sovrastano la Terra e l’umanità risiede proprio nel fatto che da alcuni millenni -dalla Rivoluzione neolitica- l’evoluzione culturale è diventata incomparabilmente più veloce di quella genetica. Tuttavia, ancora oggi

la cultura è creata dalla mente comune e ogni mente individuale a sua volta è il prodotto del cervello umano, che è strutturato geneticamente. I geni e la cultura sono dunque collegati in modo inscindibile. Ma il collegamento è flessibile, in termini finora quasi del tutto incommensurabili. Ed è nel contempo tortuoso: i geni codificano regole epigenetiche, che sono i percorsi neurologici e gli aspetti regolari dello sviluppo cognitivo grazie ai quali la mente individuale si assembla. La mente cresce dalla nascita fino alla morte assorbendo parti della cultura esistente che trova disponibili, avvalendosi di selezioni guidate dalle regole epigenetiche ereditate dal cervello individuale (144, corsivo dell’Autore).

I concetti chiave sui quali si fonda questo tentativo di unificazione della conoscenza sono i seguenti: epigenesi, natura umana, naturalismo etico, panteismo biologico.

L’epigenesi «definisce lo sviluppo di un organismo sotto l’influsso congiunto dell’eredità e dell’ambiente» (221-222). Educazione e geni, storia e biologia, appreso e innato non sono per nulla in conflitto tra di loro proprio perché «nell’ampia zona che sta a metà tra le visioni estreme del Modello Standard delle Scienze Sociali e il determinismo genetico, le scienze sociali sono essenzialmente compatibili con quelle naturali» (216).

Homo sapiens è una specie appartenente all’ordine dei Primati, la cui identità è data dalle regole epigenetiche, dalle «regolarità ereditarie dello sviluppo mentale che spingono l’evoluzione culturale in una direzione e non in un’altra, collegando così i geni con la cultura» (188). Non c’è nulla di fatalistico in una simile visione dell’umanità. Nessun sociobiologo ha mai sostenuto che le forme specifiche di cultura, i valori di una popolazione, le sue credenze, siano dettati dai geni. Sono gli scienziati sociali, invece, ad assolutizzare una delle due dimensioni, ignorando -a volte ostentatamente- i contributi della genetica e dello studio del cervello umano, l’organo dal quale, dopotutto, nasce ogni pensiero, valore, principio di comportamento. Anche a causa di tale ignoranza, gli scienziati sociali vengono regolarmente colti di sorpresa dallo sviluppo dei fenomeni che pure studiano con assiduità, data la tipica tendenza a sopravvalutare i sistemi ideologici (credenze religiose, dottrine politiche, strutture economiche) a detrimento di concause di tipo biologico (territorialismo, disponibilità delle risorse, aggressività intraspecifica). La cultura è certo lo scarto della nostra specie rispetto a ogni altra ma anch’essa è -e altro non potrebbe essere- il prodotto più recente della storia genetica dell’umanità. All’ingenuo antropocentrismo dominante nelle scienze sociali e umane bisogna opporre il dato di fatto che «la nostra specie e il suo modo di pensare sono un prodotto, e non il fine, dell’evoluzione» (35). L’universo non è stato certo pensato a misura di una specie abitante su un piccolo pianeta alla periferia della Via Lattea. Piuttosto che crederci padroni della Terra, converrebbe -prima di tutto a noi stessi- mostrarci rispettosi della miriade di forme di vita con le quali conviviamo e da cui dipende la nostra sopravvivenza.

Sta qui la necessità di un’etica naturalistica, i cui capisaldi possono essere così sintetizzati: centralità del corpo; coesistenza di passione e razionalità; rifiuto della credenza nel libero arbitrio; altruismo e fitness. L’etica nasce dal basso del corpo e delle sue esperienze e non dall’alto di una rivelazione. Certo, aggiunge Wilson, «la fiducia nel libero arbitrio è biologicamente proficua. In sua mancanza la mente, imprigionata nel fatalismo, rallenterebbe e finirebbe per deteriorarsi» (137).

L’ultima -ma decisiva- espressione della consilience è ciò che potremmo definire panteismo biologico. Wilson riconosce la profondità del bisogno del sacro nell’uomo e individua nelle realtà fisiche scoperte dalla scienza un fascino superiore a quello delle cosmologie religiose.

Qual è lo scopo finale di questa proposta scientifica? Contribuire, ancora una volta, a capire chi e cosa siamo e -da qui- comprendere una serie di gravi questioni per tentare di affrontarle meglio. Il problema principale è la progressiva scomparsa della biodiversità, causata soprattutto dalle enormi esigenze materiali della specie umana: «la crescita della popolazione può essere giustamente definita il mostro della Terra» (331) e contro di essa bisogna operare con consapevolezza, convinzione e decisione, pena la scomparsa della maggior parte degli ecosistemi, delle specie viventi e, infine, della stessa umanità.
Cervello e cultura sono dunque unificati da questo libro in una prospettiva biologica che è materialistica senza però essere riduzionistica.

La nottola di Minerva

La nottola di Minerva.
Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia della mente

di Sandro Nannini
Mimesis, 2008
Pagine 228

Questo libro è frutto di una duplice passione: per la fantascienza e per il corpomente. E poi di una convinzione: che in filosofia non siano possibili dimostrazioni logiche o prove empiriche e che quindi il miglior metodo filosofico rimanga il dialogo platonico. E infatti il testo consiste in cinque dialoghi, un prologo, un intermezzo e un epilogo. Dialoghi dedicati rispettivamente a scienza e filosofia, alla mente, al suo rapporto col mondo, al linguaggio, alla coscienza e alla verità, alla relazione corpo-mente. In essi una grande competenza viene sciolta ed espressa in pagine insieme lievi e rigorose.

Si immagina che in un lontano futuro attraverso un tunnel spazio-temporale arrivi sulla Terra da un pianeta lontanissimo -di nome Elea- uno Straniero venuto a confrontarsi con alcuni umani e androidi sul tema della mente a partire da una prospettiva naturalistica, «ossia quella concezione secondo la quale l’uomo è un animale come gli altri, frutto anch’egli dell’evoluzione biologica» (pag. 57). Tale cornice generale racchiude un’ontologia materialistica e una posizione eliminativista sul mentale. Anche il materialismo è infatti definito un’«ipotesi e cornice teorica» come ce ne sono altre (p. 206) e «non è vero che tutta la metafisica sia ugualmente cattiva e non è vero che tutte le ontologie si equivalgano» (p. 48). L’eliminativismo qui difeso è davvero assai raffinato e pone alla base dei fenomeni mentali tre condizioni: un sistema autonomo di locomozione; uno o più organi di senso che permettono all’organismo di ricevere stimoli e dati dal mondo; un sistema nervoso in grado di guidare tale sistema. Su questa base, le regolarità del mondo fisico vengono replicate dal cervello allo scopo di consentire all’intero corpo di dare risposte motorie funzionali agli input dell’ambiente e quindi sopravvivere.

Ma, ed è questa una delle tesi più importanti tra quelle sostenute dallo Straniero, tale riconoscimento di regolarità non si limita a rispecchiare il mondo fisico bensì lo plasma: «Il cervello costruisce, a partire dai dati sensoriali, una rappresentazione mentale del mondo, che mette in evidenza, tra le regolarità del mondo esterno, quelle capaci di guidare delle risposte motorie che incrementino, in media, le probabilità di sopravvivenza dell’animale» (77). La realtà è assai più ricca e complessa di quanto una concezione prefilosofica e prescientifica ritenga. Ad esempio, il collegamento (binding) tra i neuroni del colore e quelli della forma mostra la reciproca autonomia di queste aree della percezione, che poi il cervello connette sino a costruire la rappresentazione di un oggetto. «Un percetto», insomma, «è il risultato di un processo di “costruzione” dei dati sensoriali al pari di un concetto, sebbene ad un livello di astrazione più basso» (112).
La mente quindi non è né una sostanza (cartesiana) né un insieme di fasci (humeani) ma consiste in una incessante attività (kantiana) di ordinamento degli input sensoriali e dei relativi stati di coscienza. Il Sé neuronale è «la rappresentazione che noi in ogni momento abbiamo del nostro corpo, attraverso la propriocezione» (187), cioè la consapevolezza che il corpo ha di se stesso nello spazio e nel tempo. Ne consegue che l’identità dell’io è dinamica, molteplice, temporale.
L’epistemologia quineana che sta alla base di questi risultati è altrettanto raffinata, essendosi lasciata alle spalle ogni concezione corrispondentistica della verità -per la quale essa consisterebbe nella adaequatio tra la mente e il mondo fisico- a favore di una teoria coerentistica tra rappresentazioni diverse all’interno di una cornice teorica che le sottende.

Il materialismo di Nannini sembra dunque ben lontano da qualunque ingenuo riduzionismo positivistico ed è talmente ricco di teoria da poter senz’altro essere accolto. Così come del tutto condivisibili sono il rifiuto dell’analogia funzionalistica mente-computer, in quanto «biologicamente implausibile» (83); la critica al cosiddetto “principio antropico”, l’illusione che ci fa apparire straordinarie le condizioni che hanno permesso la comparsa dell’uomo sulla Terra, illusione nata dall’attribuire alla improbabilità di questo evento un valore particolare e diverso rispetto a ogni altra e analoga improbabilità; l’ammissione che «la relazione semantica tra il mio pensiero ed il suo contenuto non è direttamente naturalizzabile» poiché i segnali sonori diventano linguaggio soltanto quando il contenuto della comunicazione ha una sufficiente quantità d’astrazione legata ad altri concetti che formano un sistema (124 e 137). Tra le tante ipotesi descritte in modo davvero assai brillante dallo Straniero e dai suoi interlocutori, la più convincente è il monismo neutrale di Spinoza, Mach, W. James, Husserl, Russel, «che vede, in forme ovviamente spesso diverse, nella materia e nel pensiero due manifestazioni parallele di una sostanza indistintamente estesa e pensante» (195).

L‘onestà intellettuale di questo libro è rara forse quanto la sua inconsueta -per la tradizione accademica- forma dialogica e narrativa. L’Autore enuncia e difende una posizione ben precisa ma non riduce mai le posizioni avverse a delle caricature. Riconosce, piuttosto, i limiti delle proprie quando ammette che essendo un «processo irripetibile, l’evoluzione biologica è perciò solo un’ipotesi storica non definitivamente provata e probabilmente mai definitivamente provabile» (57-58) e, più in generale, si dice convinto «che il sapere umano è solo un piccolo spot di luce gettato in un mare di buio» (65).
Sandro Nannini ha costruito un testo splendido nella sua chiarezza e precisione, un dialogo filosofico sempre vivacissimo e con un finale a sorpresa che ovviamente non posso svelare. Basti sapere che vi sono coinvolti i tunnel spazio-temporali, Pirandello e Matrix: «ciascun essere umano non sa se egli è qualcosa di reale, oppure se è una sorta di avatar che vive entro (ed è parte di) una realtà virtuale costruita dal suo cervello» (227). È anche in questa inoltrepassabile ma feconda ignoranza che la filosofia della mente affonda le proprie radici e produce i suoi frutti migliori.

Vai alla barra degli strumenti