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Alcol

Un altro giro
(Drunk)
di Thomas Vinterberg
Danimarca, 2020
Con: Mads Mikkelsen (Martin), Thomas Bo Larsen (Tommy), Magnus Millang (Nikolaj), Lars Ranthe (Peter), Maria Bonnevie (Trinie)
Trailer del film

Una qualsiasi variazione dei valori biochimici del corpomente determina una modificazione più o meno profonda dei comportamenti, dello sguardo, dei pensieri, delle paure e delle euforie di qualunque animale, compreso l’animale umano. È questo uno dei fondamenti della vita e di tutte le dipendenze, dal cibo all’amore, dal danaro alle droghe.
Tra quattro professori/amici di una scuola di Copenhagen, l’insegnante di psicologia riferisce una sera a cena la tesi dello psichiatra Finn Skårderud per il quale gli umani nascono con un tasso alcolico troppo basso, che dovrebbero invece alzare e mantenere costante per favorire interazioni, iniziative, energia. I quattro amici, in particolare l’insegnante di storia Martin, decidono di mettere alla prova l’ipotesi di Skårderud. Bevono quindi regolarmente dalle 8 del mattino alle 20, escludendo la notte e i fine settimana, controllando costantemente il tasso alcolico che ne risulta. Vita coniugale e familiare, interazioni con gli studenti, complessiva tonalità esistenziale ne vengono decisamente migliorati. L’esistere somiglia sempre più a una sfida e a una festa. Naturalmente, però, i problemi non tardano a emergere, poiché è impossibile mantenersi a lungo sul crinale tra ebbrezza e autocontrollo. Al di là dell’abbandono e del dolore, tuttavia, il film si conclude con la festa che docenti e allievi condividono, fatta di abbracci e di danza, irrorata da bevande.
Drunk. Ubriachi di desiderio e di significato siamo noi umani. Siamo chimica che cammina e che nei suoi circuiti cerebrali si crede invece fatta dell’immateriale perfezione dei cieli. Lo slancio che ci conduce verso la gloria d’esserci è radicato nelle cellule che assorbono energia dagli alimenti e dall’aria; gli enzimi lavorano incessantemente a trasformare gli elementi in vita che continua; le molecole diventano pensieri. È anche e specialmente questa potenza materica ad accomunarci all’intero e ogni volta a salvarci dalla pretesa di una differenza ontologica radicale che è soltanto una delle tante nostre fantasie di dominio. È questo, e non lo «Spirito», a far sì che gli umani sentano vicino a sé ogni giorno «ihren Herrn, den Tod», ‘il loro padrone, la morte’ (Hegel, Fenomenologia dello spirito, VI «Der Geist», A a, p. 18).
Un poco ironico ma significativo è che Geist significhi spirito e significhi anche alcol. E questo già dall’arabo al-ghūl, vale a dire: lo spirito come la componente volatile di una sostanza, ottenuta per distillazione, o -come si legge in un sito dedicato alle bevande alcoliche – «la bevanda spiritosa ottenuta mediante macerazione di frutti e di bacche non fermentati sopra elencati o di ortaggi, noci o altre materie vegetali quali erbe o petali di rosa». Petali di rosa.
Tutto questo è narrato da Vinterberg con una costante attenzione (come sempre nelle sue opere) alla dimensione educativa della vita, con gli studenti che cantano inni patriottici e si sfidano in gare di bevute, con Kierkegaard  e la sua apologia del fallimento e dell’angoscia, con la danza e il volo dionisiaci sui quali il film si chiude.

Andrea Pace Giannotta su Tempo e materia

Andrea Pace Giannotta
Recensione a Tempo e materia. Una metafisica
in Iride. Filosofia e discussione pubblica
anno XXXIII, n. 91 / Settembre-Dicembre 2020 / pagine 715-717

Una metafisica fenomenologica si intitola l’analisi che Andrea Pace Giannotta ha condotto del libro. Formula nella quale mi riconosco per intero e che l’autore ha argomentato anche in questo modo:

Biuso affronta questa questione sviluppando una metafisica materialistica e processuale, su base fenomenologica, incentrata sulla identità tra tempo e materia. Tale concezione non va confusa, innanzitutto, con il fisicalismo, che è forse la prospettiva oggi dominante e che identifica la realtà materiale con l’oggetto d’indagine della scienza fisica. Piuttosto, la concezione della materia che viene qui proposta si colloca all’interno di un «naturalismo fenomenologico» (p. 48), ossia una concezione della natura materiale basata sull’applicazione del metodo fenomenologico d’indagine dell’esperienza e della realtà.
In tal modo, Biuso prende posizione riguardo la questione, dibattuta, del rapporto tra fenomenologia e metafisica, proponendo una «metafisica fenomenologica» (p. 117). Nel far ciò, l’autore si ricollega a quei passi in cui Husserl ha affermato di concepire la critica della conoscenza fenomenologica come finalizzata all’elaborazione, infine, di una «metafisica scientifica» (p. 123).
La radice fenomenologica della proposta di Biuso si evidenzia, in particolare, nell’elaborazione di una via mediana tra idealismo e realismo – posizioni entrambe problematiche – ammettendo al tempo stesso l’esistenza di una realtà indipendente dalla mente la quale però si «mostra» o, con un’espressione cara all’autore, viene alla «luce», solo attraverso un conferimento di senso da parte della soggettività cosciente.
Il risultato della ricerca di Biuso è quindi l’approdo a una filosofia processuale della natura, considerata come l’intero di cui l’umano è una parte che si autocomprende e in cui la realtà giunge all’autocomprensione. La mente è infatti per Biuso «materia consapevole della propria natura diveniente» (p. 61) e la coscienza è «autocoscienza del corpo temporale e del suo essere, persistere, fluire» (p. 29). 

Su Leopardi

Recensione a:
Rosalba Galvagno
Giacomo Leopardi tra antico e moderno
(Sinestesie 2019, pp. 102)
in L’immaginazione, n. 320, novembre–dicembre 2020, pagina 50

Un materialismo meditato a fondo; una cosmologia dell’infinito; un’antropologia disincantata e realistica; un’ironia sottile, sorridente, sarcastica; un pensiero sempre lucido. Sono anche questi gli elementi che fanno di Giacomo Leopardi uno dei maggiori filosofi del XIX secolo.
Il denso e vivace libro di Rosalba Galvagno segue alcuni dei percorsi di Leopardi dentro il mondo: le metamorfosi della materia e del mito; la sociologia della moda; la questione delle illusioni; lo schema ermeneutico del «velo»; la centralità del linguaggio.
Riporto qui un brano della recensione riferito proprio al linguaggio e al velo:
«Questo idolo del linguaggio è destinato allo squarcio e alla rivelazione. Un’epifania che ha esiti assai diversi in Leopardi e in Proust. Nel secondo la natura temporale degli enti di linguaggio che alla fine sono tutti gli umani, le relazioni, gli amori, (lo hanno ben chiarito anche i Fragments d’un discours amoureux di Roland Barthes) diventa la jouissance suprema, il disvelarsi del tempo ritrovato e quindi della pienezza aionica del corpomente. In Leopardi il velo trattiene sin che può e a stento la natura nichilistica degli amori, del divenire, degli eventi: “L’idolo insomma è sempre rappresentato come un oggetto sommamente idealizzato e quindi velato. Ma può accadere che il velo che proietta e/o protegge l’idolo, rischi di cadere o di lacerarsi e di svelare così l’oggetto supposto prezioso, come un oggetto deludente, derisorio, degradato e abietto o addirittura assente: un niente” (pp. 22-23).
Un niente. La radicalità di Leopardi, che questo libro mostra sino in fondo, conferma ancora una volta la natura teoretica della sua poesia».

Enrico Palma su Animalia

Enrico Palma
Animalia
in il Pequod, n. 2
novembre 2020
pagine 58-62

Con il suo consueto respiro critico Enrico Palma conduce un itinerario dentro Animalia, facendone emergere «tre fondamentali prospettive teoriche: destituire l’antropocentrismo di ogni validità epistemologica e ontologica come concezione di fondo per cui l’umano deterrebbe una supremazia di ogni genere e a tutti i livelli sul resto dell’ente e dei viventi; affermare la ricchezza e la pluralità del mondo animale nella differenza delle specie; istituire un nuovo paradigma, quello etoantropologico, in cui il confronto tra il comportamento umano e quello animale possa condurre a una riformulazione della cultura dominante in favore di una visione ecologica, egualitaria e rispettosa dell’intero sistema-mondo nel quale la pluralità delle specie prolifera».
La radice unitaria di tali prospettive sta nel fatto che «l’animalità è una delle strutture attraverso le quali la materia esplica tutta la sua potenza e creatività. Questo libro rappresenta infatti l’applicazione di una prospettiva teoretica profondamente materialistica, che rinviene nella differenza in divenire della materia e del tempo la scaturigine del reale. L’animalità è materia differenziata nel divenire di diverse strutture».

Augusto Cavadi su Animalia (2)

Augusto Cavadi
La questione animale e la critica all’antropocentrismo
in Dialoghi Mediterranei, n. 46 – Novembre 2020

Il testo sul sito della rivista
Il testo in pdf

Dopo un articolo nel quale discuteva il volume all’interno di un più ampio scenario, Augusto Cavadi è tornato su Animalia con un testo incentrato sul libro.
L’autore osserva che «c’è però chi ritiene che la questione animale costituisca non un capitolo a sé stante, isolato e isolabile, bensì una tematica trasversale a molte questioni ritenute prioritarie, dall’equilibrio ecologico alla salvaguardia di un livello medio di salute pubblica; e che, forse, la violenza della specie umana nei confronti delle altre specie animali costituisca una sorta di palestra per addestrarsi a tutte le altre forme di violenza (sessista, razzista, bellica…). Chi si convinca di ciò imbocca una seconda via, più impegnativa e dunque meno affollata, per ridurre lo scarto fra pensieri-sentimenti, da un lato, e azioni effettive, dall’altro: la strada di una riflessione critica approfondita che favorisca vere e proprie ‘con-versioni’ del proprio modo di vedere il mondo e di indirizzare, in conseguenza, le proprie opzioni etiche di fondo. Certo, anche in questa ipotesi, occorrerà fare i conti con le proprie resistenze psicoanalitiche e, ancor più semplicemente, con l’attaccamento ai molteplici vantaggi del dominio specista: ma, almeno, non si potrà contare sulla complicità di idee vaghe e di teorie nebulose.
Tra i numerosi testi che soccorrono in questa ‘re-visione’ complessiva si è inserito, con un timbro forte e originale, Animalia (Villaggio Maori Edizioni, Valverde-Catania 2020) di Alberto Giovanni Biuso. Il volume (che, detto per inciso, è molto curato dal punto di vista editoriale ed elegante tipograficamente) si impernia su alcuni teoremi intorno ai quali si snocciolano vari corollari».

Tra i teoremi Cavadi individua: il dispositivo teoretico di Identità e Differenza; la critica alle varie forme di teocentrismo e antropocentrismo; il conseguente rifiuto delle concezioni che postulano un salto ontologico tra animalità e umanità. Le riserve partono invece dal fatto che «se qualcosa si può rimproverare, è di voler dimostrare troppo», nel senso che «per ragioni per così dire strategico-pedagogiche, ritengo che in questo genere di imprese sarebbe opportuno distinguere i tabù da abbattere dalle motivazioni per cui riteniamo che si debbano abbattere e soprattutto dalle alternative che proponiamo». E invece «è proprio questa differenza di piani, di registri argomentativi, che non ho colto nel discorso di Biuso. Così esso si offre, un po’ monoliticamente, come un pacco ben confezionato da accettare o da rifiutare in blocco. Col rischio, purtroppo assai probabile, che – insieme alle sue tesi problematiche – vengano respinte dal lettore anche le sue tesi più cogenti».
Cavadi entra nel dettaglio di queste riserve con argomentazioni che consiglio di leggere direttamente dalla sua articolata analisi critica. Qui aggiungo invece il testo della lettera che ho inviato ad Augusto all’uscita della recensione e che lo stesso destinatario ha già reso pubblica sul suo sito.

«Ho letto la recensione ad Animalia e ti ringrazio molto per essere tornato sul libro con un approfondimento teoretico e critico. Ho molto apprezzato il riferimento all’ontologia medioevale e a Spinoza, la spiegazione del principio biocentrico, gli accenni alla sperimentazione/tortura degli animali nei laboratori.
Temo invece di non essere stato abbastanza chiaro su alcuni aspetti epistemologici. Il brano di Wilson che citi è uno dei tanti nei quali questo biologo espone la sua tesi NON riduzionistica. Infatti il brano continua in questo modo: “I geni e la cultura sono dunque collegati in modo inscindibile. Ma il collegamento è flessibile, in termini finora quasi del tutto incommensurabili. Ed è nel contempo tortuoso”.
Quando Wilson parla di riconduzione di ogni accadere alle “leggi della fisica” enuncia il banale asserto secondo cui ogni fenomeno materiale è sottoposto alle leggi di gravitazione, inerzia, impenetrabilità dei corpi e così via. E altro non potrebbe pensare, anche per il fatto che non è un fisico ma uno dei maggiori sociobiologi contemporanei.
In ogni caso, e al di là di Wilson o di chiunque altro, tu stesso osservi giustamente che nel libro “si afferma con forza l’inscindibilità del corporeo e del mentale, del fisico e dello psichico”. Ed è questa, per l’appunto, la mia posizione: un materialismo non riduzionistico che ritiene la materia una e insieme molteplice. E che è molto attento a salvaguardare sia ontologicamente sia epistemologicamente le differenze. Non citerei mai, condividendolo, uno scienziato o un filosofo che riduca la psicologia alla biologia, la biologia alla chimica, la chimica alla fisica. Proprio perché il riduzionismo è l’opposto concorde del dualismo. Il primo elimina la differenza, il secondo cancella l’identità.
Devo invece respingere con forza l’accostamento a Sartre e, peggio, al cosiddetto ‘assurdismo’.
Non ho stima di Sartre e in generale dell’esistenzialismo. Nello specifico, Sartre mi sembra più un letterato (con tutto il rispetto, naturalmente) e un militante politico che un filosofo. Io credo che l’essere sia colmo di un senso intrinseco che è la potenza della materia/luce/energia. Lascio l’assurdo agli psicologi e ai nichilisti. L’osservazione, che citi in parte, secondo la quale “la pretesa umana di considerarsi lo scopo dell’esistenza appare del tutto antiscientifica. La dismisura delle nostre ambizioni si manifesta in tutta la sua portata se appena solleviamo lo sguardo al di sopra dell’orizzonte angusto del nostro pianeta. La nostra unicità e dignità nell’universo si rivela, allora, per quello che è: una insignificante goccia di vita nel volgersi eterno e senza scopo delle galassie. Allo stesso modo dell’uomo, vale a dire con la più totale mancanza del senso della misura e del limite, la formica può immaginarsi come lo scopo della vita nel bosco o il corallo come la ragione del rigoglio delle acque. È ora di porre fine a questa dismisura antropocentrica, all’infantile pretesa che il mondo sia stato fatto per l’uso esclusivo di una specie, che il volgere delle galassie e della materia sia finalizzato al progresso della vicenda umana. La nostra specie non è l’apice, il fine e il senso di tutto ciò che è, non costituisce l’intenzione segreta verso cui la materia tende e non rappresenta certo il culmine della vicenda biologica sul pianeta Terra” (pp. 148-149 del libro) a me sembra una semplice e persino banale evidenza, già sostenuta da Senofane, che certo non è sospettabile di assurdismi o nichilismi contemporanei. È una semplice evidenza, naturalmente, per chi non ritenga l’essere umano ‘sacro’ se non all’interno della sacralità dell’intero.
La questione del mettere al mondo altri mortali è più delicata. Rinvio a quanto ne ho scritto qui: Nascere? e a un mio testo in uscita sullo stesso tema 🙂
Infine, ti ringrazio per l’accenno alla cura e all’eleganza del volumetto -merito dell’editore- e, per quanto riguarda la chiusa della recensione, devo dirti che io ‘prediligo’ qualunque lettore aperto a prospettive non ovvie e soprattutto non confortevoli ma critiche e coraggiose. Perché credo che la filosofia possa costituire anche una ‘consolazione’ del dolore d’esserci soltanto se riconosce in pieno la potenza del limite.
Ti ringrazio per avermi letto perché so che sei uno di questi lettori».
Spero che il dialogo tra l’autore e il suo lettore/recensore aiuti a capire meglio intenzioni, contenuti, limiti del libro e confermi il fatto che uno dei grandi doni della filosofia e della scienza è la possibilità di criticare anche le tesi dei nostri amici, poiché «amicus Plato, sed magis amica veritas».

Augusto Cavadi su Animalia

Augusto Cavadi
Perché l’uomo è spietato con gli animali e non li tutela?
in Zero Zero News, 7 settembre 2020

In questo articolo Augusto Cavadi colloca Animalia nell’ampia questione della genesi, identità ed evoluzione dell’umano.
Ho particolarmente apprezzato questa frase: «un testo impegnativo teoreticamente, che vale per intero la concentrazione mentale, e direi spirituale, che esige», poiché essa fa riferimento alla dimensione spirituale di un libro dall’impronta materialistica ma di un materialismo non riduzionistico.
L’autore continua poi accennando al «”superamento del paradigma vitruviano – la perfetta figura umana dentro un cerchio – a favore di una pratica antropodecentrica e postumana”. Se questa prospettiva (che viene argomentata sin dalla Prefazione a firma di Roberto Marchesini) risultasse convincente da ogni punto di vista, si dovrebbe comunque mettere in conto la resistenza psicologica  – direi psicanalitica – dell’umanità ad accettare tale ennesima ferita narcisistica: non è facile per uno che si è creduto per millenni re, e che come tale si è comportato in maniera dispotica, accettare di scendere dal trono dell’antropocentrismo “ontologico”, “epistemologico” e “etico” per vivere da comune cittadino del mondo alla pari con gli altri ospiti del pianeta».
Cavadi esprime poi delle delle «perplessità su questo orizzontalismo ontologico e assiologico», chiedendosi in ogni caso «ammesso – e non concesso – che gli altri animali abbiano meno diritti di noi perché meno consapevoli, la nostra maggiore consapevolezza non implica doveri da parte nostra nei loro confronti più netti e gravosi dei loro doveri verso di noi?»

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Scarantino su Tempo e materia

Noemi Scarantino: recensione a Tempo e materia. Una metafisica
in Vita pensata n. 22 – Maggio 2020
pagine 102-106

L’autrice di questa recensione ha individuato una delle radici di Tempo e materia nel pensiero platonico, in particolare nel Timeo dove si legge che

ὁ αὐτὸς δὴ λόγος καὶ περὶ τῆς τὰ πάντα δεχομένης σώματα φύσεως. ταὐτὸν αὐτὴν ἀεὶ προσρητέον: ἐκ γὰρ τῆς ἑαυτῆςτὸ παράπαν οὐκ ἐξίσταται δυνάμεως—δέχεταί τε γὰρ ἀεὶ τὰπάντα, καὶ μορφὴν οὐδεμίαν ποτὲ οὐδενὶ τῶν εἰσιόντων ὁμοίαν εἴληφενοὐδαμῇ οὐδαμῶς: ἐκμαγεῖον γὰρ φύσει παντὶ κεῖται, κινούμενόν τεκαὶ διασχηματιζόμενον ὑπὸ τῶν εἰσιόντων, φαίνεται δὲ δι᾽ ἐκεῖναἄλλοτε ἀλλοῖον –τὰ δὲ εἰσιόντα καὶ ἐξιόντα τῶν ὄντων ἀεὶ μιμήματα, τυπωθέντα ἀπ᾽ αὐτῶν τρόπον.
‘Ora, lo stesso discorso vale anche per quella natura che accoglie tutti i corpi. Bisogna chiamarla sempre nello stesso modo, perché non si allontana mai da nessun punto di vista dalle proprietà che la caratterizzano; infatti, essa accoglie sempre tutte le cose, senza mai prendere in nessun modo e a nessuna condizione alcuna forma che assomigli ad alcuna delle cose che entrano in essa; per sua natura essa è come un materiale su cui s’imprime l’impronta di ogni cosa, mossa e divisa in figure diverse dalle cose che vi entrano, a causa delle quali essa appare via via sempre diversa. Le cose che in essa entrano e che da essa escono sono immagini degli enti eterni, e da questi ricevono le loro impronte’
(50b-c, trad. F. Fronterotta, Rizzoli 2018, pp. 266-267).
Dell’anima mundi Platone afferma che αὐτὴ ἐν αὑτῇ στρεφομένη, θείαν ἀρχὴν ἤρξατο ἀπαύστου καὶ ἔμφρονος βίου πρὸς τὸν σύμπαντα χρόνον.  ‘avviò, ruotando essa stessa su se stessa, un divino modo di vita, senza fine e regolata dall’intelligenza, per l’intera durata del tempo’ (Timeo, 36e, ed. Fronterotta, p. 207).

L’ampia analisi di Scarantino si conclude con una sorprendente affermazione a proposito della natura anche eleatica di ciò che nel libro si argomenta sull’essere e sul tempo. Riporto qui due significativi brani  della recensione:
«La χώρα è lo spazio universale, il luogo, il corpo, la materia in generale in cui tutto esiste e si muove e di cui ogni cosa esistente è fatta. Una prospettiva che si definisce platonica può dunque in questo senso assumere la materia come parte della metafisica. […] Dunque nonostante la critica e il rifiuto della radicalità ontologica di Parmenide questo testo accoglie comunque in larga parte i suoi insegnamenti sia nell’ammettere una forma di eternità volta a conservare l’Essere, il tempo e la materia, sia nel tentativo fenomenologico di andare oltre gli enti iniziato dall’Eleate. Questi  presupposti vengono coniugati da Biuso al già in sé fecondo pensiero eracliteo per articolare una metafisica materialistica».

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