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Lezioni di Metafisica

Il 27 e 28 settembre 2022 terrò due lezioni per il Dottorato in Scienze dell’Interpretazione dell’Università di Catania. L’argomento è la Metafisica e questo il calendario:

  • martedì 27 dalle 10 alle 13 – aula A3 del Dipartimento di Scienze Umanistiche – La metafisica si dice in molti modi
  • mercoledì 28 dalle 15 alle 18 – aula A3 del Dipartimento di Scienze Umanistiche – Metafisiche contemporanee

Anche se rivolte ai dottorandi, le lezioni sono aperte a tutti.

Mετὰ τὰ Φυσικὰ perché μετά vuol dire tanto ‘oltre, dopo, al di là’ quanto ‘in mezzo, tra, attraverso’.
La metafisica è anche un esercizio che impara a porre le domande fondamentali, le domande che vanno al di là degli enti attraversandoli per intero.
Metafisica è anche l’indagine che si riferisce non al generico essere degli enti, degli eventi e dei processi e neppure ai loro specifici particolari ma che si interroga sui costituenti primi e sulle realtà ultime del mondo.
Il tentativo di risposta parte dall’esplicita e netta affermazione che il mondo è.  E l’umano è in esso. Noi siamo e lo osserviamo. Il mondo è fenomeno e noi siamo parte di tale fenomeno. Ambiti della metafisica sono dunque l’ontologia – che indaga che cosa esiste – e la mereologia – che indaga la relazione costante e insieme dinamica tra il tutto e le sue parti. E dunque metafisica è anche il comprendere ciò che siamo dentro l’intero che noi non siamo. Questa sua natura rende parziali le tesi di chi pensa:
-che la filosofia sia una scienza/tecnica tra le altre;
-di chi ritiene che essa sia una visione del mondo, una prospettiva storicamente cangiante;
-di chi la giudica inutile, inglobata nelle scienze e quindi sostanzialmente finita.
La filosofia è invece un sapere universale che va molto oltre l’individuo e i suoi pensieri privati, le comunità e i loro valori, i diversi e specifici ambiti del reale con le scienze tecniche che li studiano.
La filosofia è volta a cogliere le forme universali della realtà; è questo il compito di una metafisica immanentista capace di descrivere un mondo composto di atomi, molecole, forze che sono e agiscono dentro l’infinita struttura dello spaziotempo, senza principio – da dove e da chi potrebbe prenderlo? – e senza fine – per diventare che cosa? Il nulla? Il nulla non è, la materia è tutto ed è eterna.
C’è la materia e il suo divenire, c’è il tempo. 

[L’immagine della galassia M31 è di Aldo Rocco Vitale]

Dugin e Platone

Aleksandr Dugin
Platonismo politico
(Political Platonism: The Philosophy of Politics, Arktos Media Ltd., Londra 2019)
Traduzione di Donato Mancuso
Edizioni AGA, Milano 2020
Pagine 190

[Questa recensione è in gran parte descrittiva di uno degli elementi più significativi del pensiero di Aleksandr Dugin, la conclusione del testo è invece critica.
La pubblico come gesto di solidarietà nei confronti della tragedia che Dugin sta subendo, dell’attentato che ha ucciso sua figlia Darya – ricercatrice universitaria che si stava occupando della falsificazione sistematica che l’informazione finanziata dalla NATO produce nelle nostre menti ‘occidentali’ – e che certamente avrebbe dovuto uccidere anche lui.
Il terrorismo ucraino e statunitense è probabilmente il responsabile di questo gesto di intimidazione politica e filosofica, nei confronti del quale ribadisco – per quello che posso e che conto – la mia totale, completa e convinta difesa della libertà di pensiero, di parola, di interpretazione del mondo, contro ogni imposizione di un’identità unica e universale perseguita dal cosiddetto “globalismo“]

La radice filosofica di ogni opzione politica emerge con chiarezza da questa raccolta di interventi, analisi, interviste di Aleksandr Dugin, per il quale «considerare la politica come un fenomeno separato, scollegato dalla filosofia, è completamente estraneo alle origini della tradizione filosofica» (p. 35). La politica nella sua essenza e struttura non ha alcuna autonomia dalla filosofia e piuttosto ne costituisce una parte. Ogni prospettiva filosofica, infatti, «anche la più astratta, ha una dimensione politica, in alcuni casi espressa esplicitamente» (37).
Uno di questi casi, il più importante, il caso che ha fondato l’Europa, è Platone. Anche per Dugin, come per Whitehead ed Emerson, «Platone rappresenta tutta la filosofia – la filosofia nella sua interezza, la filosofia in toto» (42) anche se, naturalmente, la filosofia non rimane nei limiti di Platone e non finisce certo con lui, come con lui non comincia. Ma «chi non conosce o non capisce Platone non può sapere o capire nulla. Platone è il creatore del terreno fondamentale della filosofia. La filosofia, a sua volta, è lo sfondo della teologia, della scienza e della politica. Platone, quindi, è alla base della teologia, della scienza e della politica» (81).
Dugin attinge soprattutto al Parmenide per delineare una articolata struttura di opzioni politiche, esattamente otto, tutte basate sullo statuto dell’Uno e sulla sua relazione con la molteplicità. Nella sua forma più pura e più compiuta, nella sua forma ideale, «il potere nel platonismo è sacrale, razionale, trasparente e ideale. Rappresenta la cristallizzazione del mondo dei paradigmi (57).
Platone rappresenta per Dugin l’emblema della filosofia apollinea, sempre in feconda identità/differenza con quella dionisiaca. A entrambi si contrappone un elemento/modello che a Platone risulta lontano sino all’indifferenza e che tuttavia pesa, pesa molto, nei destini politici dell’Europa. Questo elemento è la Grande Madre, è Cibele, e con lei i Titani. È Cibele, sono i Titani, ad aver preso il potere nella modernità, che proprio per questo è modernità; ad aver preso il potere nell’Europa contemporanea, che proprio per questo è la nemica dell’Europa e della sua Tradizione, parola e concetto fondamentali nella filosofia di Dugin.
Con uno scarto e arricchimento notevoli, a questi paradigmi teoretico-politici qui si coniugano delle analisi che riguardano lo gnosticismo antico e moderno, analisi complesse che riguardano la natura femminile del Demiurgo, il Padre, il Pleroma, gli eoni, in particolare nelle elaborazioni di Valentino. Dugin richiama l’attenzione sulla complessità intrinseca allo gnosticismo, sulla natura dello gnostico come «un portatore della coscienza infelice, ma secondo Hegel solo la coscienza infelice è capace di filosofare» (110), sullo gnostico quale prigioniero della Grande Madre e della sua potenza materica, sullo gnostico il quale «porta in sé l’abisso» (111).
Anche sul fondamento di tutto questo, si accenna alla Quarta Teoria Politica, tema per il quale Dugin è particolarmente noto, come superamento delle tre teorie politiche del liberalismo, del comunismo del fascismo/nazionalsocialismo, forme tutte alienate perché fondate su diverse interpretazioni ed effetti del soggettivismo moderno: «Nelle tre teorie politiche moderne abbiamo a che fare con tre interpretazioni più ristrette del soggetto. Il liberalismo interpreta il soggetto come individuo: i comunisti come classe; i fascisti come Stato, nazione o razza (nel nazionalsocialismo). Heidegger mostra che il soggetto è un costrutto della Modernità, edificato sul Dasein, obliato e sepolto sotto di esso. Questo è il motivo per cui la distruzione filosofica inizia con uno smantellamento del soggetto e una breccia che porta a ricongiungersi al Dasein» (130).
Come si vede, elemento ispiratore della Quarta Teoria Politica è Heidegger, cosa esplicitamente riconosciuta da Dugin, il quale intreccia le questioni heideggeriane della metafisica e dello statuto del soggetto con quelle relative alla tecnica, sino a dare alla sua teoria e prassi politica un compito quasi anarchico e forse nella tradizione del populismo russo: «La distruzione dello Stato, come apparato, come Machenschaft» (133) per far emergere al suo posto la centralità del popolo, inteso non come somma di individui, classi, interessi ma come unità organica.
L’elemento più metafisicamente interessante, e per certi versi sorprendente, di tali prospettive – per quello che è possibile capirne da una antologia piuttosto eterogenea di scritti – è la vicinanza costitutiva della filosofia alla morte come tensione verso il nulla. Il legame tra filosofia e morire è certo classico, antico e decisamente socratico-platonico ma sorprendenti sono le conseguenze che Dugin ne trae in relazione al Niente e al Caos.
Il Niente appare infatti costitutivo del mondo, un oceano che circonda la piccola isola dell’Essere, la quale appare a noi così vasta soltanto perché «guardiamo il niente attraverso gli occhi del Logos» (141). E invece ciò che Heidegger chiama der andere Anfang, l’altro inizio della filosofia, è una prospettiva che abbia il coraggio del Caos, di rivolgersi al Caos contro il primato del Logos, il quale è solo «un pesce che nuota nelle acque del Caos» (149). Il Logos può dunque respirare e sopravvivere soltanto dentro le acque caotiche del Nulla e quindi -è l’invito conclusivo del testo – «il nostro compito è costruire la filosofia del Caos» (151).
Questi i contenuti principali che ho cercato di portare a chiarezza e unità di un libro che solo a tratti è unitario e chiaro, che presenta molte suggestioni ma che appare anche radicato in modo convinto e forte dentro non la Tradizione in generale ma la Tradizione del cristianesimo ortodosso quale elemento di identità slava. Un cristianesimo che Dugin intende innervare di platonismo per salvarlo dalla sterilità epistemologica e da una sostanziale perifericità. Intento che comporta un rifiuto quasi totale non soltanto della scienza moderna ma anche e soprattutto delle grandi metafisiche che pongono in qualche modo al centro la struttura e la dimensione materica del cosmo, pur essendo niente affatto riduzionistiche: da Aristotele a Spinoza, dall’atomismo alla termodinamica.
E questo sembra un esito piuttosto deludente anche perché molto confessionale.

Rigoglio

Garoto
di Júlio Bressane
Brasile, 2015
Con: Marjorie Estiano (la ragazza), Josie Antello (il ragazzo), Gabriel Leone (Ele)
Trailer del film

Dentro la materia, dentro i cieli, le acque, gli alberi enormi, dentro gigantesche rocce sparse in savane e deserti. Il lussureggiare del mondo, l’esuberante rigoglio delle terre brasiliane. Due giovani si muovono, si perdono, si immergono dentro tutto questo. Lei parla i suoni sensuali della lingua portoghese. Lui ascolta, guarda dentro il vuoto, la segue. Lei lo porta da un’amica e qui avviene qualcosa che sembra stridere con tutto questo, sino a sembrare un altro film, un’altra vicenda. Tornano poi i due dentro i cieli, le acque, gli alberi, i sassi. Accompagnati a volte dalle note create da un musicista che percuote pareti di legno e accompagnati quasi sempre dal potente stormire del vento. Che siano immobili a parlare, a fare l’amore, ad ascoltare, o che si muovano per sentieri interrotti e tuttavia luminosi, l’inquadratura è sempre ferma. Come una serie di quadri intrisi di una straordinaria luce. Dentro la quale la miseria umana risalta in modo vivido, chiarissimo, splendente.

Filosofia antica

Pierre Hadot
Che cos’è la filosofia antica?
(Qu’est-ce que la philosophie antique?, Gallimard 1995)
Traduzione di Elena Giovannelli
Einaudi, 2010
Pagine 302 

La filosofia è un modo di vivere all’interno di una comunità, nel dialogo, nel confronto, nel sentirsi esistere in una relazione continua con altri umani animati dalla stessa forma, passione, interesse, intenzione, vita. Non è necessario condividere sempre gli spazi ma sapere che quello che stiamo in questo momento vivendo, pensando, scrivendo, è condiviso dai desideri e dalla lucidità di altri filosofi. Lucidi come noi, strani come noi, indifferenti come noi. Un’indifferenza che significa almeno tre cose: consapevolezza dei limiti umani, della nostra infima misura dentro lo splendore e l’immensità dell’intero; disincanto nei confronti della condizione di dolore e di morte non soltanto dell’umano ma di tutto ciò che è vivo; metamorfosi di questo consapevole disincanto in azione, in opera, in trasformazione della vita propria e delle relazioni, dei legami, della politica.

Conoscenza e azione che si fondano su numerosi e vari presupposti teoretici, che nel mondo greco sono in particolare:
– L’essere ogni ente una parte dell’intero, un’espressione della potenza della materia generatrice, che sempre sorge da se stessa, dalla propria potenza, dall’energia universale, la Φύσις.
– Il coincidere di tale energia e potenza con ciò che tutte le culture chiamano il sacro, il quale non abita quindi in qualche luogo specifico, in un tempo altro, in una realtà lontana ma accade qui e ora, in ogni ente, evento e processo. La realtà stessa è sacra, tutta, come l’aneddoto eracliteo del focolare in cucina testimonia con semplicità.
– Ciò che chiamiamo male è l’ignoranza di questa energia pervasiva e sacra, nella quale e con la quale il mondo in ogni istante esiste; è anche per questo che l’etica è un’espressione dell’ermeneutica, perché «il male non è nelle cose, ma nel giudizio di valore che gli uomini attribuiscono alle cose» (p. 101).
– Ciò che chiamiamo bene è invece l’immersione consapevole in questa dinamica, qui e ora; non quindi l’aspirazione ad altre vite o l’inquietudine senza pace dei progetti più fantasiosi e irraggiungibili ma l’esistere nel presente. Non naturalmente il semplice presente fisico e matematico, infinitamente divisibile e anche per questo di fatto insussistente, ma il presente come percezione della durata e suo significato. Un presente semantico prima di tutto.
– La necessaria fiducia che tutto questo si possa comunicare, trasmettere, insegnare e in tal modo contribuire a formare altri umani, a plasmare altre vite a partire da ciò che il tempo sacro ha donato alla nostra, tale è la pratica della παιδεία.
– La necessità che tale pratica educativa sia sempre intramata e sostenuta dall’approccio teoretico e da prospettive universali che si sforzino di andare oltre la limitatezza dell’orizzonte storico e prassico di ogni individuo e di ciascuna comunità: «Senza questa riflessione, la vita filosofica rischia di cadere nella banalità o nell’insipienza, nei buoni sentimenti o nell’aberrazione. […] Vivere da filosofi significhi precisamente anche riflettere, ragionare, concettualizzare, in modo rigoroso e tecnico, ‘pensare in modo autonomo’ come diceva Kant. La vita filosofica è una ricerca che non si arresta mai» (269).
– L’accettazione dunque della natura asintotica della vita in generale e dell’esistere filosofico in particolare, vita ed esistere per loro natura sempre aperti e mai definitivi. Vivere significa precisamente questo incompiuto che in ogni suo momento è sempre realizzato.
– Il convergere di queste pratiche asintotiche e teoretiche verso l’enigma del tempo, il vero e proprio oceano il cui infinito movimento è definito allo stesso modo in un testo fondante quale la Teogonia di Esiodo (verso 38) e in una sentenza epicurea (la n. 10) attribuita a Metrodoro: «Ricorda che nato mortale, con una vita limitata, tu sei assurto, grazie alla scienza della natura, fino all’infinito dello spazio e del tempo e hai visto ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu» (22).

La filosofia è quindi conoscenza e pratica del tempo infinito dentro il tempo limitato che siamo, è la consapevolezza che una parte della materia universale ha di esistere per un arco, una parabola, un percorso sempre limitati ma non per questo meno densi. Filosofia è diventare l’infinito che si è. È ciò che Ernest Renan definisce il «punto di vista di Sirio», la stella più luminosa che i nostri occhi di terrestri possano vedere.
Come i corpi hanno bisogno d’aria per vivere, la filosofia richiede la libertà come respiro. Questa è la principale ragione per la quale la filosofia  nacque in Grecia e non altrove. Nell’Accademia di Platone vigeva una integrale libertà di pensiero, tanto che i suoi allievi e anche gli immediati successori alla guida della scuola espressero posizioni anche assai lontane dal Maestro, il più famoso tra questi è Aristotele. L’Accademia era infatti «un luogo di libera discussione e al suo interno non vigeva nessuna ortodossia specifica della scuola e nessun dogmatismo» (64).
Gli ultimi filosofi greci, cacciati via dal cristiano Giustiniano, trovarono nell’Oriente persiano, tra i nemici persiani, il luogo estremo nel quale esercitare ancora tutto questo. Nel 529 infatti «l’imperatore Giustiniano proibisce ai pagani di insegnare. I filosofi neoplatonici Damascio, Simplicio e Prisciano lasciano Atene per rifugiarsi in Persia. Dopo il trattato di pace concluso tra Cosroe e Giustiniano, essi si stabiliscono a Carrae, in territorio bizantino ma sotto influenza persiana, e continuano il loro insegnamento» (280), che ancora prosegue.
In questa sistole e diastole di esistenza e teoresi, di limite e di infinito, abitano il dolore e la gioia dell’essere filosofi.

«Il filosofo sperimenta in modo crudele la propria solitudine e la propria impotenza in un mondo lacerato tra due inconsapevolezze: quella che è provocata dall’idolatria del denaro e quella che risulta dalla miseria e dalla sofferenza di miliardi di esseri umani. In simili condizioni, il filosofo non potrà sicuramente mai raggiungere la serenità assoluta del saggio. Filosofare equivarrà, dunque, a soffrire di quell’isolamento e di quella impotenza. Ma la filosofia antica ci insegna anche a non rassegnarci, continuando invece ad agire ragionevolmente, e a sforzarci di vivere secondo la norma rappresentata dall’Idea della saggezza, qualsiasi cosa succeda, per quanto la nostra azione ci possa apparire molto limitata.
Come diceva Marco Aurelio:
‘Non sperare la Repubblica di Platone, ma accontentati se una cosa piccolissima progredisce, e pensa che questo risultato non è così piccolo’ » (270; Ricordi, 9.29.5).

Questo è la filosofia antica, questo è la filosofia.

Michele Del Vecchio su Tempo e materia

Michele Del Vecchio
Recensione a Tempo e materia. Una metafisica
in Diorama Letterario,  numero 366, marzo-aprile  2022, pagine 38-40

«Un titolo scarno, essenziale e temerario. Tre parole che aprono mondi sterminati di conoscenze e di saperi, di interrogativi e di problemi sempre ricorrenti. Una esplicita dichiarazione di orientamento metafisico che sembra una sfida a quella filosofia contemporanea che ha ripetutamente annunciato, fino a farne un Leitmotiv, la fine della metafisica. […]
La metafisica è stata un poderoso e millenario strumento speculativo tramite il quale è stato innalzato un sistema concettuale ordinato e di grande razionalità, un modello per lʼarchitettura del pensiero pensante impegnato nell’interpretazione e raffigurazione del reale, un modello durato secoli, una sovranità del pensiero di eccezionale longevità entrata in crisi soltanto con il primo affacciarsi della soggettività moderna. […]
Non esiste, secondo lʼautore, altra forma di “realtà” che non sia quella materiale o riconducibile a meccanismi generatori di natura fisico-materiale. Lʼessere, gli enti, lʼuomo, il vivente, il tempo e lo spazio, il mondo, il cosmo e il Tutto sono forme prodotte e generate esclusivamente dalla materia ovvero dalla sua struttura atomica e molecolare. Parrebbe un monismo materialistico dʼaltri tempi. Ma non è così Lʼelemento innovativo del suo materialismo rispetto alla tradizione precedente è il ruolo della dimensione ‘tempo’ che ne è il perno».

La seconda parte della recensione presenta una sintesi di ciascuno dei sei capitoli del libro; sintesi assai chiara della quale ringrazio Del Vecchio.

Illimitato

Πέρας, limite, è una parola fondamentale del vocabolario greco, vale a dire della vita dei Greci. Mηδὲν ἄγαν, nulla di troppo, non è un invito ad accontentarsi, a rassegnarsi, a patire ma è al contrario un’esortazione a cogliere la vita nella sua struttura complessa, ricca, a volte malinconica e altre spumeggiante, senza però -ecco il limite- pensare di imporre agli enti, agli eventi e ai processi la volontà umana, senza illudersi che tutto sia realizzabile, senza nascondersi che nella φύσις, nell’intero, esistono dei bastioni fisici e ontologici oltre i quali a nessuno è possibile andare.
La modernità nata dal volontarismo monoteistico è fatta invece di puro artificio, del sogno/incubo di una parte, la parte umana, che trasforma l’Intero sino a modificarne i fondamenti, immaginando persino di sconfiggere la morte. È la logica del funesto demiurgo contro cui gli gnostici hanno sempre pensato, scritto, operato. Il limite è quindi un tratto gnostico che induce non a rifare la realtà da zero -come fosse una tabula rasa– ma a rispettare l’immensa potenza che ci precede, la materia, anche se gli gnostici, ovviamente, non la chiamavano così ma la definivano pienezza, luce, Πλήρωμα. Vivere secondo natura significa anche «porsi il problema di come non ferire la trama della vita, di come ridurre nel migliore dei modi l’impatto dovuto ai nostri bisogni e consumi. Se c’è qualcosa che la natura indica perentoriamente, è il limite» (Eduardo Zarelli,  Diorama Letterario n. 364, p. 39).
Il totalitarismo contemporaneo, che si manifesta e agisce in molte e diverse maniere, è invece «l’essenza del sistema mondo-mercantile, alle cui leggi economiche e alla cui ‘metafisica’ finanziaria siamo sottoposti nell’intero pianeta. Il totalitarismo è una riduzione all’identico e si realizza nell’omogeneizzazione culturale espressa dai mezzi di comunicazione di massa e dalla mercificazione consumistica dell’esistenza» (Ibidem).
La cosiddetta ‘politica’ è ridotta a fungere da servitore e maggiordomo di queste potenze. Tre soli esempi che sembrano diversi e persino lontani e che invece a guardar bene sono convergenti nell’obiettivo di distrarre i cittadini attraverso gli strumenti dell’informazione spettacolare.
Il primo: Giuseppe Conte, un avvocato arrivato non si sa come alla presidenza del consiglio dei ministri in Italia; confinatore dei cittadini nelle case e loro consolazione serale in televisione; scalzato da vecchie volpi come Matteo Renzi e Mario Draghi e diventato il «curatore fallimentare che cerca di trovare dei buoni acquirenti di quel che è rimasto di un movimento che aveva scosso alle radici il sistema politico italiano e illuso parecchi milioni di elettori», di un movimento politico ora defunto, diventato stampella del Partito Democratico (Marco Tarchi, ivi, p. 34).
Il secondo: Matteo Salvini, un interessante caso degli effetti che la tracotanza, la perdita appunto del limite, può produrre. Convinto di poter arraffare tutto il banco, costui spinse il Movimento 5 Stelle nella bara del PD; azione che da quel momento ha segnato il declino suo e della Lega. Giustamente Tarchi scrive che Salvini «dall’agosto 2019 ha effettuato una serie di mosse difficilmente comprensibili alla luce della razionalità politica» (35).
Il terzo: Greta Thunberg. Con questo personaggio si entra pienamente nella Société du Spectacle. Il ritratto che ne fa Archimede Callaioli è duro ma realistico.
«Un’accozzaglia di slogans ad un livello perfino più basso di un comizio elettorale americano, una rabbia insulsa e di maniera nel pronunciarli, il precipitato del più vacuo movimentismo degli ultimi vent’anni incastonato nel vuoto pneumatico dell’assenza di qualunque proposta concreta, di qualsiasi preciso obiettivo da raggiungere; il sublimato del ‘bla bla bla’. […] Cosa vuole Greta? La fine dell’inquinamento. Come vuole ottenerla? Subito: ‘Domani è troppo tardi’, ‘Non c’è un pianeta B’. Il problema è che ‘subito’ è un ‘quando’, non è un ‘come’ o un ‘cosa’. […] Lei non è una radicale, è un fumetto che vive in una realtà fatta di chiacchiere e distintivo, una ‘realtà aumentata’, come dicono oggi i nativi digitali, dove ciò che è reale è ologramma e ciò che è ologramma è reale. Dietro questa pagliacciata c’è però un problema vero, quello di un modello di sviluppo che non è più sostenibile, e che va sostituito con un modello diverso, che non sia predatorio nei confronti del pianeta» (Ivi, p. 40).
E torniamo così al limite, che per le pratiche e la forma mentis capitalistiche non esiste. Un modello di sviluppo economico indefinito e astratto, impossibile e velleitario. La crescita senza limiti della popolazione umana; la crescita dello sfruttamento delle risorse del pianeta; la crescita della sottomissione di tutte le vite animali a un animale solo; la crescita dell’irrazionale convinzione di poter estrarre energia infinita da un pianeta finito; tutto questo è ὕβρις, ed è quindi destinato a fallire.
Un’affermazione di Ivan Illich sintetizza e disvela la dismisura contemporanea:
«I popoli primitivi hanno sempre riconosciuto la potenza della dimensione simbolica: hanno avvertito come una minaccia il tremendo, il terrificante, il misterioso. Questa dimensione poneva limiti non soltanto al potere del re e del mago, ma anche a quello dell’artigiano e del tecnico. Secondo Malinowski, solo la società industriale ha consentito che gli strumenti disponibili venissero utilizzati al massimo della loro efficienza; in tutte le altre società, una base fondamentale dell’etica era il riconoscimento di limiti sacri all’uso della spada e dell’aratro. Ora, dopo parecchie generazioni di tecnologia sfrenata, la finitezza della natura torna a turbare la nostra coscienza. […] La fabbricazione di un’ecoreligione sarebbe la caricatura dell’antica hubris»
(Nemesi medica. L’espropriazione della salute [Limits to medicine-Medical Nemesis: the expropriation of health, 1976], trad. di D. Barbone, Red!, 2021, p. 278).

Pietro Ingallina su Tempo e materia

Pietro Ingallina
Recensione a Tempo e materia. Una metafisica
in Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia;  Vol. 31 – anno 2022 – Fascicolo 1, marzo 2022; pp. 175-178.

L’editore di Acta Philosophica, rivista della Pontificia Università della Santa Croce che si pubblica dal 1992, non permette l’utilizzo di nessun pdf degli articoli e neppure delle recensioni. Riporto dunque qui alcuni brani dell’ampia analisi che Pietro Ingallina ha dedicato al libro:

«Tempo e materia. Una metafisica è un libro che si prefigge di superare ogni dualismo e ogni antropocentrismo, a favore non di un diniego della specificità dell’essere umano, bensì di un radicale ripensamento della sua posizione nell’essere. […]
Di fronte alla tradizionale opposizione tra il monismo parmenideo e il “tutto scorre” di matrice eraclitea, Biuso tenta una terza via. Se le teorie di ascendenza eleatica – filosofiche o scientifiche che siano – sono da rigettare, perché configurano una realtà ultima perennemente stabile e immutabile, che è lontana da ogni evidenza presentata dall’esperienza e, anzi, nega ogni consistenza ai fenomeni ; sono da valutare come altrettanto implausibili le ipotesi di una molteplicità originaria assolutamente caotica e incontrollata, perché priverebbero la realtà di ogni regolarità, rendendola un colpo di dadi la cui logica sarebbe imperscrutabile. Piuttosto, Biuso cerca di coniugare le due tradizioni, concependo identità e differenza quali principi ontologici equipollenti e imprescindibili l’uno dall’altro. Più in generale, l’essere è alternarsi di identità e differenza, è insieme uno e molteplice, al contempo immutabilità e mutamento. […]
Il divenire è il tratto temporale fondamentale dell’essere. A partire da questa tesi va compresa pure l’eternità, la quale non è l’atemporalità di una sostanza assoluta e separata dagli enti, dagli eventi e dai processi che sono presenti, accadono e fluiscono. […]
Gli enti esistono e si mostrano quali eventi, ma enti ed eventi non possono essere gli elementi primari dell’ontologia, in quanto hanno senso e consistenza se compresi all’interno dei processi. Senza i processi il mondo fenomenico sarebbe un puro niente, perché solo i processi insieme permangono mutando e mutano permanendo, mentre gli eventi accadono soltanto e gli enti a un tempo sono o divengono.
Nonostante la lettura di Biuso della Sostanza e dell’eternità [in Spinoza] sia coerente con la sua proposta di una metafisica temporale e materialistica, e sia pure supportata dall’interpretazione di Deleuze e dall’ontologia dei processi, tuttavia, essa risulta problematica perché non tiene conto di studi più aggiornati (ad esempio quelli di Yithzak Melamed), che offrono un’interpretazione atemporale dell’eternità e ne difendono la coerenza con l’esistenza del tempo e della durata all’interno del sistema di Spinoza».

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