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Alieni

Mito e Natura. Dalla Grecia a Pompei
Palazzo Reale – Milano
A cura di Francesco Venezia
Sino al 10 gennaio 2016

160-P74Natura e materia. Altro non c’è nel mondo, altro non è neppure pensabile. La potenza inimmaginabile ed eterna della Terra e del Cielo genera tutte le forze che plasmano gli enti e si contendono il dominio sul divenire. I nomi degli dèi sono i nomi degli alberi e delle foreste, dei raccolti, delle acque, degli antri, dei vortici, delle stelle. Dioniso -una cui statua incoronata di pampini apre la mostra e la cui presenza tutta la pervade- è la vite; Apollo è palma e alloro; Zeus è la quercia; Atena l’ulivo; Demetra  è la spiga di grano. Da queste forze sgorga l’agricoltura come dono degli dèi: il vino, i cereali, l’olio, la frutta, l’ombra, lo stormire del vento tra le piante.
Circa centocinquanta opere dall’VIII sec. prima dell’e.v al II sec. dopo l’e.v. testimoniano di questa Stimmung, di questa potente tonalità dell’esistere e del pensare. Tra di esse un bel cratere ateniese con disegnate sul bordo delle navi da guerra che avanzano sul mare; un grande bacile con Viaggio di Nereidi su mostri marini per consegnare armi ad Achille, splendido anche perché policromo; un elegantissimo lekytos (vaso per unguenti) con sfondo bianco che raffigura Demetra con spighe nella mano e in compagnia della figlia Persefone; vari paesaggi nilotici ritovati a Roma; i lussureggianti giardini raffigurati a Pompei, a Paestum e in altre località, emblema della potenza che è il divino. Il Giardino delle Esperidi si trova all’estremo Occidente del mondo e rappresenta il luogo dove vivere felici. Non un paradiso eterno come retribuzione degli atti compiuti in qualche decina d’anni -contraddizione clamorosa che rende assurda ogni idea di premio o castigo dopo la morte- ma semplicemente e profondamente un luogo terrestre dove la felicità è possibile, dove l’animale che pensa è una cosa sola con la lussureggiante vegetazione, con gli altri animali, con gli dèi.
Ovunque l’interazione e l’integrazione tra architettura e paesaggio è profonda, lontanissima dallo stupro urbanistico ed ecologico del nostro tempo.
Infine, colma di gioia e di commozione è la Tomba del tuffatore, dipinta a Paestum nel V secolo. Un giovane spicca un tuffo da un piedistallo che forse rappresenta le porte dell’Ade. Nelle acque fioriscono delle belle piante e nella tomba sono raffigurate scene di vita. Il tuffo è anche una metafora del passaggio dalla vita alla morte. Questa magnifica opera è pervasa da una tale serenità e da un così intimo rapporto con gli elementi naturali da essere impensabile nel cristianesimo e negli altri monoteismi, tutti volti al macabro, al lugubre, al doloroso, al disprezzo della vita.
Davvero i Greci -e gli antichi in generale- rimangono degli alieni, nonostante secoli di studi su di loro. Rimangono alieni della serenità, del disincanto, della misura. Questa splendida mostra milanese ci fa almeno intuire perché tali siano e tali restino.

Dio

aristotele_2La filosofia è per Aristotele conoscenza delle cause, degli elementi, dei principi primi del reale. Il mondo, infatti, è assai complesso e i concetti che cercano di darne conto non sono mai univoci. Anche per questo nella Fisica (trad. di A. Russo e O. Longo, Laterza 1983) lo Stagirita afferma che a dirsi «in molti modi» non è soltanto l’essere (A, 185 a) ma anche l’uno (A, 185 b), il divenire (A, 190 a), le cause (B, 195 a). Agli «antichi» che, «spinti dalla loro inesperienza» (A, 191 a), cercarono un principio o una modalità unica del divenire e dell’essere, Aristotele oppone delle indicazioni metodologiche molto precise. In generale, la sensazione è in grado di apprendere il particolare, il “pensiero” -invece- l’universale (A, 189 a); coniugando dunque sensazione e pensiero Aristotele cerca di costruire una teoria completa e plausibile del cielo, del movimento e del tempo.
«Che la terra sia immobile, valga per ammesso» (De caelo, Ivi, B, 289 b); qui l’empirismo mostra tutta la propria efficacia come anche i suoi limiti. Il constatare con i sensi l’immobilità e la centralità della Terra non rende per questo meno falsa tale concezione; avevano maggior ragione, invece, i Pitagorici con il loro fare “mistico e matematico”, poiché ritenevano «che al centro è posto il fuoco, mentre la terra è uno degli astri, e si muove in circolo attorno al centro, producendo in tal modo la notte e il giorno» (De caelo, B, 293 a).
Tra le due ipotesi alternative della sfericità o piattezza del nostro pianeta, Aristotele opta per la prima: la Terra è «una sfera non molto grande, perché altrimenti non renderebbe così rapidamente visibile il mutamento degli astri, quando noi ci spostiamo di così poco» (De caelo, B, 298 a). Incorruttibile, ingenerato, eterno, il cielo è mosso di moto uniforme (De caelo, B, 289 a), formando con la Terra tutta la materia; la quale è soggetta a trasformazione sul nostro pianeta e che invece nel resto del cosmo è immodificabile perché perfetta. Fuori del cielo non si dà luogo, né vuoto, né tempo.
L’eternità del movimento è gemella dell’eternità del tempo. Una tesi, questa, che separa con chiarezza la prospettiva aristotelica da quella cristiana, in particolare agostiniana, per la quale il divino è fuori dal tempo. Per Aristotele, invece, il divino è il tempo stesso: «Ma se sono impossibili l’esistenza e il pensiero del tempo senza l’istante, e se l’istante è una certa medietà e ha simultaneamente principio e fine -principio del futuro, fine del passato-, è necessario, allora, che ci sia sempre un tempo […] Ma se c’è un tempo, è ovviamente necessario che ci sia anche un movimento, dato che il tempo è un’affezione del movimento» (Θ, 251 b).
Tuttavia non è di solo movimento che il tempo si compone. Aristotele coniuga infatti il tempo della materia con quello della psiche. Lo Stagirita riconosce un’aporia di fondo che fa apparire il tempo come esistente e insieme inesistente poiché «una parte di esso è stata e non è più, una parte sta per essere e non è ancora. E di tali parti si compone sia il tempo nella sua infinità, sia quello che di volta in volta viene da noi assunto. E sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non-enti, possegga un’essenza» (Δ 218 a). Impalpabile e sfuggente, il tempo sembra anche motore della corruzione e della fine (Δ 221 b e 222b) ma soprattutto esso è presente ovunque e «in ogni cosa, sulla terra e nel mare e nel cielo» (Δ 223 a).
Nel mondo oggettivo della quantità, il tempo irrompe con la misura scandita dalla mente:

Si potrebbe, però, dubitare se il tempo esista o meno senza l’esistenza della mente. Infatti, se non si ammette l’esistenza del numerante, è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è o ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto la mente o l’intelletto che è nella mente hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella della mente […]. Ma il prima e il poi esistono in un movimento, e appunto essi, in quanto sono numerabili, costituiscono il tempo. (Δ 223 a)

L’ordine fisico e la razionalità matematica della Natura trovano dunque nel tempo il loro emblema, la realtà più piena, la prova della unità di ogni ente e dimensione. Tempo e movimento, insieme, costituiscono ancora una volta l’eternità. Tale è il cosmo ordinato dei Greci: eterno come il tempo, essendo il tempo Dio.
Oltre che del movimento, il tempo è anche «numero della sfera, perché mediante questo si misurano gli altri movimenti ed il tempo medesimo» (Δ 223 b). Una circolarità che coniuga la mente e l’Universo nell’istante eterno: «Anche questo nome di αἰών si direbbe pronunciato dagli antichi quasi per divina ispirazione: si dice infatti αἰών di ciascuno l’ultimo termine che circoscrive il tempo di ogni singola vita, al di fuori del quale non c’è più nulla secondo natura. Parimenti, anche il termine perfetto di tutto il cielo, che contiene ed abbraccia la totalità del tempo e l’infinità di esso, anche questo si dice αἰών, e prende questo nome da αιει εἶναι [essere sempre], immortale e divino» (De caelo, A, 279 a).
La materia è eterna, il tempo è sempre. Materia e tempo sono Dio.

Tempo e Materia

SSCLa Scuola Superiore di Catania organizza per i suoi allievi delle serate dedicate alle Pillole di Ricerca. Un docente spiega (in un quarto d’ora) gli argomenti dei quali si sta occupando nei propri studi e poi si continua a discuterne a cena. Giovedì 4 giugno 2015 parlerò delle mie ricerche in un incontro che inizierà alle 20,00 e avrà come titolo Tempo e Materia. L’abstract pubblicato sulla pagina del sito della SSC dedicata a questo appuntamento non è corretto (sarà modificato domani) e quindi ne pubblico qui la versione completa.

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L’ambito proprio della filosofia è l’essere/tempo; il tempo è tema filosofico per eccellenza: è antidogmatico, è plurale, è capace di coniugare scienze empiriche e metafisica, è infinito e incoglibile -e dunque asintotico- è sempre aperto, è sempre oltre, metà. Il tempo è il contenuto della metafisica. Prima e dopo l’umano, a esistere è il tempo della materia. La materia che in un suo intervallo sarà stata anche protoplasmatica, vegetale e animale, sarà stata materia artificiale e macchinica. Rimarrà la materia minerale e cosmica, la sua potenza. Rimarrà la materia e basta. Non più gli umani, e neppure soltanto gli altri animali, vertebrati o invertebrati, di terra o di mare, volatili e insetti. Nemmeno le piante, i fiori, il grano. Rimarrà soltanto la materia, le rocce, le lave. E le stelle. La pura luce. Le trasformazioni elettromagnetiche che invadono di fulgore lo spazio silenzioso e perfetto nel quale di tanto in tanto la materia si raggruma in polvere, pianeti, astri.
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Materia / Luce

Medardo Rosso. La luce e la materia
Galleria d’Arte Moderna – Milano
A cura di Paola Zatti
Sino al 31 maggio 2015

All’inizio Medardo Rosso descriveva soggetti proletari e quotidiani. Lo faceva con ironia e scapigliata rivolta. Poi Parigi, l’incontro con Rodin, l’amicizia e i conflitti con questo artista e con l’intero ambiente francese. E la  materia comincia a gorgogliarli tra le mani, producendo impasti e forme dentro le quali la mente trova e installa i suoi significati. Nel bronzo e nello spazio si ampliano diagonali –L’uomo che legge-, rampollano ovali –Madame X-, declina la materia –Enfant malade. La stessa forma si moltiplica in sostanze diverse: cera, bronzo, gesso. Materia che sembra già quella di Modigliani, di Brancusi. Ma è venuta prima. Nessun artista crea dal niente, sono tutti degli artigiani che reinventano e costruiscono su ciò che già esiste e che probabilmente si fonda sugli archetipi intuiti da Jung, sull’universale struttura della mente e del sogno umani. Curioso e instancabile, Rosso si dedicò anche alla fotografia, non come semplice documentazione del mondo e dell’opera ma come ambito d’arte autonomo e insieme legato a tutti gli altri, al modo in cui oggi la fotografia è intesa ad esempio da Fazekas.
Medardo_Rosso_Madame-XIndividualista e rigoroso, questo artista aveva una visione vincolante della plastica. Riteneva infatti che ci fosse un unico punto di vista esatto nel guardare una scultura, che le sculture non siano delle opere intorno alle quali si gira ma che soltanto da una prospettiva ben precisa esse possano comunicare il loro senso. Quale senso? Medardo Rosso nutriva un’ambizione forse impossibile. Voleva scolpire la luce dentro la materia. Disse infatti che «la luce è l’essenza della vita umana. Noi siamo degli schizzi di luce». Colpita da tali schizzi, di tanto in tanto la materia si fa scrittura, musica, pastello, bronzo, opera. Si fa metamorfosi, arte.

Dissoluzione

Domani nella battaglia pensa a me
(Mañana en la batalla piensa en mi, 1994)
di Javier Marías
Trad. di Glauco Felici
Einaudi 2014 (1998)
Pagine 291

Domani nella battaglia«Tomorrow in the battle think on me». Sì, pensa a me domani –mañana, tomorrow– nella battaglia che ogni giorno l’esistere rappresenta. Battaglia la cui sconfitta certa possiamo differire senza poterla cancellare. Ciò che i fantasmi della sua mente dicono a Riccardo III nella tragedia shakespeariana, lo ripetono a noi ogni giorno gli eventi accaduti e quelli che sarebbero potuti accadere. Potenzialità e possibilità sono dispositivi fondamentali dell’esistere. Essi contano quanto e a volte più di ciò che è diventato realtà, atto. Ben lo sapeva Aristotele, per il quale la tragedia -il romanzo dei Greci- è più filosofica della storia proprio perché dà conto di ciò che potrebbe accadere e non soltanto di ciò che di fatto è accaduto. «Forse siamo fatti in ugual misura di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere» poiché «ciò che è stato è composto anche da ciò che non è stato, e ciò che non è stato può ancora essere», scrive infatti Marìas (pp. 280-281).
Lo statuto del romanzo -questa invenzione di Cervantes condotta al culmine da Proust- è ciò su cui Marías si interroga. Non in un testo di critica letteraria -e quindi esterno- ma dall’interno stesso di una narrazione fredda e insieme -spesso- struggente, permeata di una oggettiva disperazione, nella quale i dialoghi si confondono/fondono con i pensieri del Narratore o dei vari personaggi, intessuta anche per questo di improvvise parentesi che non interrompono il fluire del racconto e costruita con un andamento a spirale di eventi identici o simili, di frasi identiche o leggermente variate.
E che cosa racconta Domani nella battaglia pensa a me? Racconta di un uomo che -più per assecondare gli eventi che per determinarli- sta per fare l’amore con una donna conosciuta da pochi giorni e che lo ha invitato a casa propria una sera in cui il marito è all’estero per lavoro. Mentre si stanno spogliando, però, Marta muore. Una morte narrata con straordinaria perizia, nella sua inesorabile lentezza e nella sua improvvisa incomprensibilità, come è narrata da Tolstòj La morte di Iván Iljìc: «Non posso cessare di esistere mentre tutte le altre cose e le persone rimangono qui e rimangono vive e sullo schermo un’altra storia continua a svolgersi. Non ha senso che le mie gonne rimangano vive su quella sedia se io non potrò più metterle, o che i miei libri respirino ancora sugli scaffali se non potrò più guardarli. […] Né ho mai pensato molto alla morte, che a quanto sembra arriva e come, e arriva in un solo momento che sconvolge tutto e tutto colpisce, ciò che era utile e faceva parte della storia di qualcuno in quel momento unico diventa inutile e privo di storia» (25). Victor rimane incatenato a questa morte -lui dice «incantato»- e cerca nei giorni successivi di sapere qualcosa di questa donna. È una sua necessità, una sua decisione, perché nessuno sa che Marta è morta tra le sue braccia, anche se sanno che è morta mentre qualcuno era con lei. Gli eventi si susseguono a volte prevedibili e più spesso sorprendenti, anche molto sorprendenti.
Su ogni evento, cosa, pensiero aleggia la potenza della dissoluzione, poiché «tutto viaggia verso il suo stesso svanire e si perde e poche cose lasciano traccia» (17) e anche Marta Téllez «si sarebbe andata relegando e oscurando nell’ormai rapido viaggio verso il suo sfumare (quanto poco rimane di ogni individuo, di quanto poco vi è testimonianza, e di quel poco che rimane tanto si tace)» (73). L’autore ripete di continuo che «di quasi nulla resta traccia» (48), e alla fine niente, per nessuno, mai. «Passan vostre grandezze e vostre pompe, / passan le signorie, passano i regni; / ogni cosa mortal Tempo interrompe»; «Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro; / chiamasi Fama, et è morir secondo, / né più che contra ‘l primo è alcun riparo. / Così ‘l Tempo triunfa i nomi e ‘l mondo» (Petrarca, Trionfo del Tempo, 112-114 e 142-145). Il tempo e il morire sono forme della dissoluzione. E sono dunque i due temi fondamentali di questo romanzo.
Mentre osserva a distanza l’entierro di Marta Téllez, Víctor si imbatte in una tomba sulla quale è scritto: «Quelli che parlano di me non mi conoscono e quando parlano mi calunniano; quelli che mi conoscono tacciono, e nel tacere non mi difendono; così, tutti mi maledicono fino a quando mi incontrano, ma quando mi incontrano riposano, e passano oltre, anche se io non riposo mai» (66). Un trasparente  e ironico enigma, nel quale la morte descrive ciò che Heidegger definisce Uneigentlichkeit, una banale e passiva modalità di intendere la finitudine degli umani. In realtà il morire non consiste nell’essere vittime della dissoluzione e della «nera schiena del tempo» (43 e 173) ma è -al contrario- la conferma della potenza insita nella possibilità rispetto all’atto, nel divenire rispetto all’immobilità, nella fragile potenza del corpotempo rispetto alla tracotanza dell’eterno. Anche le pur struggenti e tristi parole conclusive del romanzo non possono impedire di cogliere la potenza della dissoluzione che dà senso al divenire dell’universo, mai raccolto in una vuota stasi ma sempre andante nell’incessante trasformazione della materia «mentre viaggiamo verso il nostro sfumare lentamente per transitare soltanto alla schiena o al rovescio di quel tempo, dove non si può continuare a pensare se non si può continuare a prendere commiato» (278).
È tale potenza della mortevita che spiega «la miserabile superiorità dei vivi e la nostra provvisoria vanità» (204); spiega la finzione del potere e dei regni (efficace il ritratto beffardo e plausibile che viene dato del re di Spagna e di ogni sovrano, pp. 100 sgg); spiega il ‘male’ che quando viene commesso non è reputato quasi mai tale, con una chiara adesione all’intellettualismo etico: «Nessuno fa nulla convinto della sua ingiustizia, almeno non nel momento di farlo» (108), «è soltanto che in molti momenti non si possono tenere in considerazione gli altri, rimarremmo paralizzati» (244); spiega l’inevitabilità dell’inganno, nostra condizione naturale che ci permette di sopportare l’esistere e di sopportarci a vicenda; spiega l’imprevedibilità della storia e il veloce ritmo del suo mutare, del quale è esempio questo stesso romanzo, la cui trama dipende in tutto dalle tecnologie perché è una trama che non sarebbe stata neppure pensabile se nel 1994 fossero esistiti i telefoni cellulari.
A partire dalla dissoluzione dalla morte e dal tempo, questo libro è anche una dichiarazione di poetica, un documento di narratologia. Per Marías il divenire consiste nella narrazione che se ne fa, il mondo sta nella memoria, la mente è in qualche modo tutte le cose: «Ciò che quando accade non è volgare  né fine né gioioso né triste può essere triste o gioioso o fine o volgare quando viene raccontato»; «il mondo dipende dai suoi relatori e anche da quelli che ascoltano il racconto e a volte lo condizionano»; «quello che succede non succede del tutto fino a quando non viene scoperto, fino a  quando non si dice e non si sa, e intanto è possibile la trasformazione dei fatti in puro pensiero e in puro ricordo, in nulla» (136, 226 e 275).
Il nulla. «L’unica soluzione sarebbe che tutto finisse e non ci fosse nulla» (262; cfr. anche 170). Questa è, in effetti, la condizione umana e la condizione di ogni cosa che ha sensibilità e vita. E che dunque soffre. Magistrale è stata quindi la scelta, per la copertina del libro, di un particolare della tavola della Resurrezione dell’Altare di Isenheim di Matthias Grünewald. Non la colorata, banale e innaturale posa del risorto ma la complessità e il dinamismo della caduta di un soldato, una caduta che sembra non finire mai. «Tomorrow in the battle think on me, And fall thy edgeless sword. Despair, and die!» (Richard III, atto V, scena III).

Archetipi

Alberto Giacometti
Galleria d’Arte Moderna – Milano
A cura di Catherine Grenier
Sino al 1 febbraio 2015

Il vero simbolismo è questo, perché il simbolo non può mai essere interamente rappresentabile, la sua purezza dipende dalla sua astrazione. Il vero simbolismo è questo perché affonda in culture selvagge, arcaiche, primitive, le stesse in cui si radicarono le forme di Picasso e Modigliani. Un artista è chi sa cogliere gli archetipi, che stanno ovunque nello spazio e nel tempo, e li trasforma in visibile materia, in toccabile materia, in udibile materia.
Alberto Giacometti ne percepisce il vibrare e ha la pazienza di imparare a decifrarlo alla luce della grande pittura italiana edGiacometti_Annette_1960 europea. A testimoniarlo sono le copie che trasse da Raffaello, Giotto, Tiziano, Masolino, Dürer, Rembrandt, Cézanne. Dagli altri artisti e dagli archetipi Giacometti imparò la verticalità, il vuoto, le forme raggrumate nello spazio, come quelle che costituiscono La radura; imparò a generare modelli platonici che potrebbero stare ovunque, potrebbero stare sempre. Annette seduta nell’atelier è come in Bacon una figura ieratica e insieme materica. La Grande Donna IV è una divinità, un Giacometti_Uomo_seduto_1965totem, un idolo potente, inquietante, protettivo. L’Uomo seduto -una delle opere sue ultime- è disseccato, è fatto di tracce di una carne divenuta immortale.
Giacometti seppe togliere e levare dalla materia, per ritrovarla intatta, magnifica.

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