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Temeraria e naturale

L’editore Olschki mi ha chiesto una breve presentazione in video di Tempo e materia. Una metafisicada pubblicare sul canale YouTube da poco inaugurato dalla casa editrice.
Ho cercato di dire l’essenziale in 9 minuti; avrei voluto essere più sintetico ma avrei potuto esserlo meno 🙂 .
Riporto qui l’unico brano che ho letto dal libro: «Questa festa antropocentrica è abbastanza trascurabile da lasciarla alla sua insignificanza, al suo inevitabile suicidio. Sacra è piuttosto la materia infinita, potente ed eterna, che non conosce il bene e non sa che cosa sia il male, che è fatta di luce e di buio, di densità e di vuoto. La materia è la festa del cosmo, la sua indistruttibile pace. Diventiamo allora ciò che siamo, diventiamo greci fedeli allo sguardo dei nostri padri rimanendo fedeli allo sguardo metafisico».

  • Video (pubblicato il 15.4.2020)

Una metafisica

Tempo e materia. Una metafisica (Olschki, 2020, pagine X-158) è il volume che completa la tetralogia che ho dedicato al Tempo. Iniziata con La mente temporale. Corpo Mondo Artificio (2009), proseguita con Temporalità e Differenza (2013) e Aión. Teoria generale del tempo (2016), tale indagine ha dato senso e pienezza alla mia vita di studioso e di uomo. Questo libro coincide dunque con l’ακμή dell’esistere. Un ringraziamento profondo va a coloro che in tanti modi hanno reso possibile questo tentativo di comprendere l’essere, la verità, il tempo.

Il libro sul sito dell’editore Olschki

Pdf con copertina, frontespizio, epigrafi, indice

Recensioni:

Joker

Joker
di Todd Philipps
Con: Joaquin Phoenix (Arthur Fleck /Joker), Frances Conroy (Penny Fleck), Robert De Niro (Murray Franklin), Zazie Beetz (Sophie Dumond), Brett Cullen (Thomas Wayne)
USA, 2019
Trailer del film

Joker è un film sulla televisione.
Quasi in ogni scena c’è un televisore acceso. Sullo schermo si alternano programmi umoristici e programmi che informano. Prima danno notizie dei rifiuti che seppelliscono la città, dei topi e super ratti che la invadono, e poi delle violenze collettive che la percorrono. E soprattutto è in diretta televisiva –durante un programma di intrattenimento– che accade uno degli eventi decisivi, quello che vede l’uno accanto all’altro Joker e il professionista della risata Murray Franklin.
Gotham City è immersa in una broda spettacolare e globalizzata al cui centro sta la televisione come trionfo della superficialità, del dire prima di aver pensato, del pensare quindi per luoghi comuni e intrinsecamente banali. La televisione come trionfo della drammatizzazione spettacolare, dei sentimenti più intimi portati in piazza e soprattutto dei sentimenti falsamente ricreati a vantaggio dell’audience. Tutto è infatti finalizzato alla pubblicità. Ma questo vuol dire che tutto è finalizzato al mercato e ai mercati, dei quali la televisione rappresenta lo scintillante paravento. 

Joker è un film sulla follia.
«Le bon sens est la chose du monde la mieux partagée; car chacun pense en être si bien pourvu, que ceux même qui sont les plus difficiles à contenter en toute autre chose n’ont point coutume d’en désirer plus qu’ils en ont.
(Il buon senso è la cosa nel mondo meglio ripartita: ciascuno, infatti, pensa di esserne ben provvisto, e anche coloro che sono i più difficili a contentarsi in ogni altra cosa, per questa non sogliono desiderarne di più)» scrive Descartes nell’incipit del suo Discours de la méthode (1637, trad. di A. Carlini, Laterza 1974, p. 41). Un’ironia persino sarcastica. Ciò che si può constatare, infatti e al contrario, è che la follia è la cosa nel mondo meglio ripartita. La follia che lentamente cancella il confine tra il reale (il mondo collettivo) e il fantastico (il mondo individuale). Ciò che accade in Joker è sogno incubo pensiero desiderante, è il tremante terrore che afferra e abbatte al constatare l’invincibile forza del mondo.

Joker è un film sul corpo, soprattutto sul corpo che corre nello spazio, che fugge. Magro mascherato mobile miserabile mendico espressivo inquietante totale.

Joker è un film demoniaco e insieme cristologico.
«Maltrattato, si lasciò umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al macello, / come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, / e non aprì la sua bocca. […] // Perciò io gli darò in premio le moltitudini, / dei potenti egli farà bottino, / perché ha consegnato se stesso alla morte / ed è stato annoverato fra gli empi, / mentre egli portava il peccato di molti» (Isaia, 53, 7 e 12).

Joker è un film rozzo, che dall’inizio alla fine si regge sull’interpretazione totale empatica perturbante e demente di Joaquin Phoenix.

Joker è un film consolatorio, che illude su quanto semplice sia –in fondo– ribellarsi agli arroganti, ai ricchi, ai potenti; su quanto facile sia colpire, distruggere, mandare a fuoco le loro cose e le loro vite. Ma questo accade al cinema; quando accade nella realtà si tratta di jacqueries destinate alla sterilità della sconfitta.

Joker è un film intriso di μῆνις, un film sulla vendetta, sul risentimento, sul rancore, sulla loro piena giustificazione, sulla loro inevitabilità.
«εἰ κεῖνόν γε ἴδοιμι κατελθόντ᾽Ἄϊδος εἴσω / φαίην κε φρέν᾽ ἀτέρπου ὀϊζύος ἐκλελαθέσθαι, ‘se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore’» (Iliade, VI, 284-285; trad. di G. Cerri); «οὐκοῦν ἐπὶ μὲν τοῖς τῶν ἐχθρῶν κακοῖς οὔτ᾽ ἄδικον οὔτε φθονερόν ἐστι τὸχαίρειν, ‘gioire dei mali dei nemici non è né ingiusto né invidioso’» (Platone, Filebo, 49d); «καὶ τὸ τοὺς ἐχθροὺς τιμωρεῖσθαι καὶ μὴ καταλλάττεσθαι, ‘e vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi’» poiché «è giusto il ricambiare, e ciò che è giusto è bello, ed è proprio di un uomo valoroso il non lasciarsi sopraffare. Vittoria e onore sono tra le cose belle: esse sono preferibili, anche se infruttuose, e manifestano una superiorità di virtù» (Aristotele, Retorica A, 9, 1367 a, 24 sgg, trad. di A. Plebe).

Joker è un film disturbante, molto. La spiegazione del suo successo di pubblico sta probabilmente nell’interpretazione di Phoenix, la quale va oltre l’interpretazione.

Joker è un film sull’umano.
«ἔστι δὴτοίνυν τὰ τῶν ἀνθρώπων πράγματα μεγάλης μὲν σπουδῆς οὐκ ἄξια, ἀναγκαῖόν γε μὴνσπουδάζειν: τοῦτο δὲ οὐκ εὐτυχές. […] ἄνθρωπον δέ, ὅπερ εἴπομεν ἔμπροσθεν, θεοῦ τιπαίγνιον εἶναι μεμηχανημένον, ‘È vero che le vicende umane non meritano che ci si interessi molto di loro, bisogna però occuparsene, per quanto la cosa possa risultare ingrata. […] L’umano, come dicevamo prima, è soltanto un giocattolo fabbricato dagli dèi’» (Platone, Leggi 803 b-c).
«L’uomo è un degenerato un mostro tra gli altri, che per fortuna si riproduce sempre più di rado…» (Céline, Rigodon, trad. di G. Guglielmi, Einaudi 2007, p. 186).
Chiusi nelle loro angosce, gli umani arrancano giorno dopo giorno. Il sentiero è interrotto. Se ci si chiede dunque perché mai il suicidio non sia un’attività di massa, la risposta sta probabilmente nel βίος, nell’impulso dei corpimente a durare ancora.
«La grande défait, en tout, c’est d’oublier, et surtout ce qui vous a fait crever, et de crever sans comprendre jamais jusqu’à quel point les hommes sont vaches. Quand on sera au bord du trou faudra pas faire les malins nous autres, mais faudra pas oublier non plus, faudra raconter tout sans changer un mot, de ce qu’on a vu de plus vicieux chez les hommes et puis poser sa chique et puis descendre. Ça suffit comme boulot pour une vie tout entière.
(La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne. Quando saremo sull’orlo del precipizio dovremo mica fare i furbi noialtri, ma non ci bisognerà nemmeno dimenticare, bisognerà raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini e poi tirar le cuoia e poi sprofondare. Come lavoro, ce n’è per una vita intera)»
(Céline, Voyage au but del la nuit, Gallimard 2018, p. 25; trad. di E. Ferrero, Corbaccio 1995, p. 33).

A volte mi vergogno di appartenere a questa specie, all’Homo sapiens, e vorrei piuttosto essere altra forma della materia. Una nuvola, ad esempio, che esiste e poi si scioglie restituendo alla terra dalla quale è venuta la dolcezza dell’acqua, la morbidezza della gratitudine.

Tempo e necessità

Necessità e tempo nella metafisica di Spinoza
in «InCircolo. Rivista di filosofie e culture»
n. 8 – Dicembre 2019 – L’attualità di Spinoza
pagine 53-68

Pdf del testo

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Indice:
1 Teoria e prassi della necessità
2 Temporalità etica e temporalità politica
3 Necessità e tempo nell’Ethica Ordine Geometrico demonstrata
4 Metafisica del divenire
5 Materiatempo 

Abstract
The question of time is much more subtle in Spinoza than it appears to a first analysis of a metaphysical system aimed at the eternity and perfection of matter, its indivisibility, the location of each limited, finite, transient entity, within the compactness of the All. If the spinozian substance is –as a causa sui–on the outside of time, nevertheless  its structure is also a continuous process in the infinite forms of the attributes and in the infinite number of modes. This process is already completely contained in the tangle of Being that is always understood and perfect in the timeless sphere of substance, and yet its true life unfolds over time as the modes of attributes not only produce incessantly but, even more, in the ways they are. Spinoza’s thought is a philosophy of fullness from which time –the universal and profound substance of all things– is not excluded. In order to understand the presence and centrality of becoming in spinozian metaphysics it is crucial the distinction –very clear both in Korte Verhandeling and in Ethica– between time, duration and eternity.
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Nel mio percorso dentro la filosofia Baruch Spinoza è stato ed è fondamentale. Sul numero 8 di InCircolo. Rivista di filosofie e culture ho tentato di analizzare lo statuto e la presenza del tempo nella sua metafisica, che apparentemente sembra ridurre la temporalità a ens rationis, a struttura della mente.
Nulla avviene in natura che si possa attribuire a un suo vizio. E ciò anche per una ragione che coniuga profondamente tempo e necessità. Le leggi della natura sono infatti «ubique & semper eadem», “ovunque e sempre le medesime” ma esse prevedono che al proprio interno «ex unis formis in alias mutantur», “ogni cosa si trasformi in altro”, che il divenire sia parte strutturale dell’essere (Ethica, III, praefatio). Gioia e tristezza, ad esempio, sono costituite rispettivamente dalla «transitio a minore ad majorem perfectionem», “il passaggio da una minore a una maggiore perfezione” e dalla «transitio a majore ad minorem perfectionem», “il passaggio da una maggiore a una minore perfezione” (Ethica, III, affectum definitiones II e III).
Il tempo si installa nel cuore stesso dell’esistere e del durare di ogni ente: «Conatus, quo unaquæque res in suo esse perseverare conatur, nullam tempus finitum, sed indefinitum involvit», “lo sforzo, col quale ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere, non implica alcun tempo finito, ma un tempo indefinito” (Ethica, III, VIII).  E dunque al di là della consuetudine ermeneutica che nello spinozismo vede una filosofia della compattezza, dell’unicità, dell’immobilità, la metafisica di Spinoza è un incessante dinamismo, un conflitto e persino -come sostiene Andrea Sangiacomo- un naufragio.
Se la sostanza spinoziana è certo in quanto causa sui fuori dal tempo, la sua struttura è tuttavia anche un procedere senza posa nelle infinite forme degli attributi e nel numero infinito dei modi. Lo spinozismo non può essere ricondotto e ridotto a una pura topologia matematica, in esso vive ed emerge piuttosto la sistole e diastole plotiniana dell’emanazione. In Spinoza tale processo è già tutto racchiuso nel gomitolo dell’essere che rimane sempre compreso e perfetto nella sfera senza tempo della sostanza, e tuttavia la sua vera vita si svolge nel tempo che i modi degli attributi non soltanto producono incessantemente ma, assai di più, nei modi che essi sono.
Se il conatus è tempo -e il conatus è tempo- questo vuol dire che il tempo non è soltanto una mera illusione della mente imperfetta ma è anche la struttura sempre potenziale degli enti, è quello sforzo a perseverare nell’essere che li definisce per intero.
E pertanto la metafisica della Sostanza non esclude il divenire e accoglie piuttosto la differenza ontologica tra l’essere e gli enti: temporali i secondi, onnitemporale il primo. La metafisica spinoziana si tende dentro la materia sino al punto da coglierne certamente la struttura di fondo, la quale è da sempre ed è per sempre, ma che intanto nella complessità sconfinata delle sue modalità è durata che diviene, è anch’essa tempo.
La magnificenza, insensibilità ed eternità del cosmo è per Spinoza e per ogni pensiero davvero materialistico ragione di meditazione e di contemplazione, di autentica gioia. La spinoziana laetitia sorge dal comprendere che al di là della materia organica e sofferente (che costituisce un’eccezione del tutto trascurabile) la materia inorganica è massa ed è energia, è sempre in divenire ed è sempre potenza. Qualcosa che può dare solo pace, finalmente.
Lo spinozismo si conferma in questo modo come una tenace volontà di trovare il mondo perfetto. Spinoza ha in questo ragione per la grandissima parte dell’essere, per quasi tutto il cosmo, la materia, gli astri, le galassie. Si sbaglia soltanto su una piccola, insignificante e quasi inconsistente parte del cosmo, sulla materia organica nella sua forma vivente e animale, la quale essendo intrisa di limite e sofferenza costanti rappresenta il confine ultimo dell’essere, quello nel quale la potenza e perfezione del divino sembra impallidire. Anche questo pallore è il tempo.

Bruno, la materia, il tempo

Giordano Bruno
De la causa, principio e uno
(1584)
in «Dialoghi italiani / Dialoghi metafisici»
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni, Firenze 1985 (1958)
I volume, pagine 173-342 

«Per amor della mia tanto amata madre filosofia e per zelo della lesa maestà di quella» (p. 202) agisce la passione ‘eroica’ di Giordano Bruno a favore di un sapere non più in mano a pedanti ripetitori del già detto e dell’appreso ma per una scienza capace di mostrare la radice unitaria degli opposti. Infatti, «chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrari e oppositi. Profonda magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto de l’unione» (340).
È dunque chiaro che il pensiero del Nolano si genera e si dispiega nel nodo costituito da Identità e Differenza. Infatti, una è «la omniforme sustanza, uno essere il vero ed ente, che secondo innumerabili circostanze e individui appare, mostrandosi in tanti e sì diversi suppositi» (184). Più esattamente, «ne la moltitudine è l’unità, e ne l’unità è la moltitudine; e come l’ente è un moltimodo e moltiunico, e in fine uno in sustanza e verità» (185). Sino a una conclusione che coniuga in modo consapevole e argomentato l’unità e identità del mondo con la molteplicità e la differenza che lo intridono e lo rendono ciò che è: «Quel che si vede di differenza negli corpi, quanto alle formazioni, complessioni, figure, colori e altre proprietadi e comunitadi, non è altro che un diverso volto di medesima sustanza; volto labile, mobile, corrottibile di uno immobile, perseverante ed eterno essere» (326-327).
Il panteismo si coniuga a un profondo immanentismo, consapevole che «mai le forme riceversi da la materia come di fuora, ma quella, cacciandole come dal seno, mandarle da dentro» (183).

Tutto dunque è materia e la materia è tutto afferma Dicsono, l’interlocutore principale di Teofilo/Bruno. Noi vediamo infatti «che tutte le forme naturali cessano dalla materia e novamente vegnono dalla materia; onde par realmente nessuna cosa esser costante, ferma, eterna e degna di aver esistimazione di principio, eccetto che la materia» (273). La continuità delle strutture materiali è intrinseca alla estrema varietà delle loro forme; la molteplicità degli enti si fonda sul loro esser tutti enti naturali ed espressione dell’energia che genera incessantemente la differenza.

[Poliinnio] Non credete che, se la materia si contentasse de la forma presente, nulla alterazione o passione arrebe domíno sopra di noi, non moriremmo, sarrebom incorrottibili ed eterni?
[Gervasio] E se la si fosse contentata di quella forma, che avea cinquanta anni addietro, che direste? sareste tu, Poliinnio? Se si fusse fermata sotto quella di quaranta anni passati, sareste sì adultero…dico, sì adulto, si perfetto, sì dotto? Come dunque ti piace che le altre forme abbiano ceduto a questa, cossì è in volontà de la natura, che ordina l’universo, che tutte le forme cedano a tutte. Lascio che è maggior dignità di questa nostra sustanza di farsi ogni cosa, ricevendo tutte le forme, che, ritenendone una sola, essere parziale. Cossì, al suo possibile, ha la similitudine di chi è tutto in tutto (296-297).

All’essere stesso è dunque intrinseca la sua forma temporale, la sua struttura diveniente, la differenza inseparabile dall’identità, la molteplicità coniugata all’unità, la permanenza degli enti nella trasformazione incessante che li rende esistenti e vivi. Se l’universo in quanto tale è uno, infinito, immobile ed eterno, le sue modalità d’essere sono molteplici e temporali.
Non ci si muta in altro essere -perché nulla si crea dal nulla-  ma si diviene in altri modi di essere, una dinamica fondata sulla differenza ontologica tra l’essere e gli enti: «E questa è la differenza tra l’universo e le cose de l’universo; perché quello comprende tutto lo essere e tutti i modi di essere: di queste ciascuna ha tutto l’essere, ma non tutti i modi di essere […]. Però intendete tutto essere in tutto, ma non totalmente e omnimodamente in ciascuno. Però intendete come ogni cosa è una, ma non unimodamente» (322-323). Bruno conclude dunque che tutti gli enti sono nell’universo e l’universo è in tutti gli enti. La struttura perfettamente unitaria dell’essere è una struttura di differenze. Il nucleo logico e ontologico di tale differenza è il Tempo.
Rispetto all’infinità spaziale e temporale, ogni misura parziale non può che essere identica a tutte le altre: «Alla proporzione, similitudine, unione e identità de l’infinito, non più ti accosti con essere uomo che formica, una stella che un uomo; perché a quello essere non più ti avicini con esser sole, luna, che un uomo o una formica; e però nell’infinito queste cose sono indifferenti» (320). Anche tale struttura logico-ontologica conferma la molteplice unità di tutte le cose tra di loro.

L’universo è la potenza stessa, è -in termini contemporanei- energia che si dispiega in una varietà lussureggiante di forme, espressioni, leggi, forze. Un universo animato da trasformazioni incessanti all’interno di una forma che non muta.
L’anima mundi  «è tutta in qualsivoglia parte, come la mia voce è udita tutta da tutte le parti di questa sala» (253). Anche così si comprende la differenza tra causa e principio.
Non tutto ciò che è principio è anche causa. Il punto è principio della linea ma non la produce; l’istante è principio dell’azione ma non è sua causa. Il principio spaziotemporale rappresenta un concetto più generale rispetto a quello di causa efficiente. Il principio è parte costitutiva degli enti, degli eventi e dei processi. È una struttura intrinseca e immanente, è -nel linguaggio aristotelico- causa formale.
La causa è invece una struttura che concorre in modo esteriore e trascendente al farsi degli enti, degli eventi e dei processi, sia che la si intenda come causa efficiente sia come causa finale.
Intessuta di principi, cause e tempo, la materia è viva, animata, sacra: «È cosa indegna di razionale soggetto posser credere che l’universo e altri suoi corpi principali sieno inanimati; essendo che da le parti ed escrementi di quelli derivano gli animali che noi chiamiamo perfettibili» (179). 

Come ogni altro ente, l’umano partecipa di tale vita e di questa sacralità. Diventarne consapevoli è condizione per non temere più di tanto la fine del composto che si è, in quanto «si mostra chiaro che ne le cose naturali quanto chiamano sostanza, oltre la materia, tutto è purissimo accidente; e che da la cognizione de la vera forma s’inferisce la vera notizia di quel che sia vita e di quel che sia morte; e, spento a fatto il terror vano e puerile di questa, si conosce una parte de la felicità che apporta la nostra contemplazione, secondo i fondamenti de la nostra filosofia: atteso che lei toglie il fosco velo del pazzo sentimento circa l’Orco ed avaro Caronte, onde il più dolce della nostra vita ne si rape ed avelena» (179-180).
Anche e soprattutto qui sta la luce che la filosofia offre a chi la coltiva. Luce che invade chi la ama e che produce inevitabilmente odio in chi non ne comprende natura, fondamenti, scopi.
Figlio della filosofia, Giordano Bruno così descrive se stesso: «Io, odiato da stolti, dispregiato da vili, biasimato da ignobili, vituperato da furfanti e perseguitato da genii bestiali; io, amato da savii, admirato da dotti, magnificato da grandi, stimato da potenti e favorito dagli dei» (177). E così rispose ai giudici del Tribunale dell’Inquisizione cattolica che l’8 febbraio 1600 lo condannarono a essere bruciato vivo: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam», ‘Forse avete più paura voi a pronunciare contro di me questa sentenza che io a riceverla’.
A un uomo siffatto -a un filosofo- davvero «ogni terreno è patria» (201), ogni luogo dello spazio, ogni istante del tempo.

Fiumi

Nel pomeriggio di domenica 8 settembre 2019 terrò a Catania (via Plebiscito 9) una lezione/conversazione nell’ambito dell’edizione 2019 di un Convegno annuale dal titolo MitoMania, dedicato quest’anno alle Conversazioni con le Ninfe e i Fiumi.
Il titolo del mio intervento è Il fiume, l’amore, la morte.
Il sentimento amoroso è un incessante fluire del sogno che si fa desiderio. Un fluire animale, profondo, ermeneutico. Un fluire specchio, un fluire sacro e diseguale. Un fluire linguistico e temporale, semantico, iconico e innocente. Un fluire infinito. Un fiume le cui acque, composte di gaudio e di tormento, sono destinate a confluire nel grande estuario della materia eterna -senza nascita e senza tramonto- dalla quale veniamo.
Una goccia pulita dentro il grande fiume del tempo. Questo si può e si deve cercare di essere, questa possibilità ci offre l’esperienza amorosa quando ha la forma dell’amore/dedizione, dell’amore/passione, del puro amore.

 
[L’immagine in alto è il particolare di una fotografia di Paolo Monti]

What Yet Remains

Sheela Gowda. Remains
Milano –  Hangar Bicocca
A cura di Nuria Enguita e Lucia Aspesi
Sino al 15 settembre 2019

What Yet Remains è il titolo-metafora di un’opera del 2017 costruita con ciò che ancora rimane di alcune lastre di metallo dalle quali in India si ricavano i bandli, contenitori sferici di materiali utilizzati dai muratori. L’artista trasforma costruisce inventa anche ciò che rimane dello sterco delle mucche, che diventa combustibile mattoni fertilizzante. Lo trasforma in scultura ritmo simbolo.
Carta e inchiostro ricomposti sono ciò che rimane di tante pagine di giornale.
Edifici, rifugi, monumenti e rettangoli grigi e colorati sono ciò che rimane di innumerevoli bidoni. Dentro uno di essi -dal titolo Chimera (2004)– si muove una spirale e riposa al fondo una luna.
Di molti tessuti rimangono i colori e le forme.
Delle porte rimangono linee, superfici, volumi che si librano nell’aria.
Di molta gomma rimangono tappeti.
Di chilometri di capelli resta la forza verticale.
Di alcune fotografie restano gli umani immobilizzati nell’atto della violenza, nel gesto della rivolta. Nell’opera più enigmatica –Collateral (2007)– rimane la cenere, la corteccia, la polvere.
Della pittura dell’occidente resta Quadrato nero di Kazimir Malevič, un’opera che ha segnato a fondo l’astrattismo.
Nell’arte antica e sacra di Sheela Gowda rimane la materia, τὸ ἄπειρον, l’illimitato, la polvere della terra e del tempo, il suo flusso infinito. La materia minerale, la sua complessità, l’alchimia, l’eternità. Dissolti nell’icona gli umani; degli animali rimaste soltanto tracce; il vivente diventato ricamo combustione segno. Metabolizzati nello spaziotempo le piante i fiori il grano. Rimane soltanto la materia. E basta. Rimane ciò che merita di rimanere. Rimane lo splendore delle pietre.
Il resto è stato un sogno dello spazio, un’invenzione del tempo, una forma votata alla dissipatio, una metamorfosi. What Yet Remains è la gloria.

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