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Federico Nicolosi su Tempo e materia

Federico Nicolosi
Recensione a Tempo e materia. Una metafisica
il Pequod, anno V, n. 10, dicembre 2024
Pagine 137-142

«La metafisica di Biuso, radicalmente materialistica e antropodecentrica, si propone così di ‘comprendere ciò che siamo dentro l’intero che noi non siamo’, non subordinando solipsisticamente l’essere (existentia) degli enti al loro mero esser-conosciuti da un umano, bensì al contrario sforzandosi di comprenderli nella struttura diveniente e pur immutabile da cui di volta in volta si staccano rendendosi accessibili a un corpomente conoscente.
Questa struttura si chiama Tempo, o parimenti (e forse più correttamente) esseretempo; la condizione del suo darsi è quell’incessante, ineliminabile e sempre dinamico attrito tra identità e differenza che senza sosta anima il presentarsi e lo scomparire degli enti dal mondo, ovvero il loro emergere (come differenza) dall’Intero e il loro rientrarvi, mutando forma e a un tempo rimanendo ciò che sono».

[L’immagine (NASA/ESA Hubble Space Telescope) raffigura la nebulosa Westerlund 2, al cui centro si trova un magnifico ammasso stellare. Questo è il tempo, questa è la materia]

Gadda, il guerriero

Gadda, la guerra, la nazione
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
18 febbraio 2025
pagine 1-7

In Carlo Emilio Gadda, nella sua idea del mondo, non c’è posto per gli infingimenti, per le illusioni, per i sentimentalismi ‘umanitari’. Lo testimonia un esplicito brano, che Gadda scrisse anche se poi preferì non pubblicarlo: «Io non ho mai avuto sentimenti umanitarî, né in guerra né in pace, pur essendo molto sensitivo al dolore e alla miseria degli altri e anche alla gioia degli altri». Espressamente enunciata è invece una formulazione che della guerra mostra le innate radici nell’umano e nelle sue società: «Le armi Caino ferocemente le impugna: e talora anche contro alla nostra filantropia».
Ovunque e sempre nei suoi scritti – direi tratto caratterizzante l’intera sua opera – Gadda non ha inteso ‘migliorare il mondo’ ma ha voluto descriverlo nella sua realtà spesso surreale e divertente così come spesso è insensata e feroce: «essendo io un rètore, amo le scritture compiute e non amo gli edificanti stralci». Nessuna scrittura edificante, no, ma la descrizione di ciò che necessariamente consegue da una verità metafisica quale è il tempo che tutto intesse, involve e vince, al modo in cui anche Petrarca sa dirlo: «Così ’l Tempo triunfa i nomi e ’l mondo». Con densità ed efficacia simile a queste, Gadda scrive che «gli umani, nella brevità storica della lor vita, sono il sostegno efimero del divenire».
Eφήμεροι e patetici, con la pretesa – in alcune filosofie ed epistemologie – che  il divenire immenso (miliardi di anni) della materia, delle galassie distanti miliardi di anni luce, degli oceani terrestri, delle lave dell’Etna, tutta questa magnifica potenza dipenderebbe per esistere (non per essere semplicemente conosciuta dall’umano ma proprio per esistere) da quella dimensione parzialissima e insignificante che è la coscienza  di una entità abitante da pochi anni un periferico pianeta di una delle innumerevoli galassie che compongono il cosmo. Pretesa formulata da una entità, l’umano, frutto del tempo (come tutto), la cui vita è intramata di limiti, sofferenza, patologie, ed è destinata in un batter di ciglia a sparire.

 

Algoritmi e Transumanesimo

Aa. Vv.
L’algoritmo pensante
Dalla libertà dell’uomo all’autonomia delle intelligenze artificiali
a cura di Christian Barone
Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020
«Quaderni di Synaxis»
Pagine 136 

La fusione tra neuroscienze e ingegneria informatica è l’orizzonte nel quale si inscrive oggi una parte sostanziale della questione antropologica. Un’espressione centrale di tale fusione è lo statuto stesso degli algoritmi – perché sono questi che contano, il software, assai più del supporto macchinico – i quali vanno sempre più comportandosi come agenti non soltanto autonomi ma anche e soprattutto in veloce evoluzione, come se fossero dei veri e propri organismi multicellulari. È il caso di software come ChatGPT e DeepSeek o di altri programmi che, ad esempio, ‘giocano’ in borsa (e ai quali viene dunque affidato il destino di ingenti patrimoni) o di programmi che conducono operazioni militari. Tali algoritmi prendono decisioni in pochi secondi (anche meno) e in modo del tutto autonomo da interventi umani, determinando a volte delle gravi perturbazioni nei mercati finanziari e certamente la morte in guerra di molti esseri umani.

L’’intelligenza’ di questi software, soprattutto se coniugati a degli hardware, è in realtà ancora infima, «il robot più performante attualmente esistente al mondo, non può essere benché minimamente paragonato alle capacità percettive e motorie di un’ape» (Paolo Arena, p. 49) ma è certamente in costante progresso. Ai tradizionali robot tele-operati, e quindi del tutto dipendenti dalla presenza umana, si affiancano infatti dei robot assai più autonomi nelle scelte e nelle operazioni – compresi quelli installati in un numero sempre maggiore di automobili – e soprattutto i robot cognitivi, che agiscono sia a livello logico-formale, ambito nel quale sono ovviamente fortissimi, sia in quelli operativi.
Anche la forma di intelligenza che chiamiamo pura razionalità è in realtà per sua natura l’intelligenza dell’ambiente e consiste nel:
-percepire il contesto con dei sensi/sensori
-decidere quale sia il comportamento più adeguato alla situazione rilevata
-eseguire movimenti e azioni volti a raggiungere gli scopi che dalle diverse e specifiche situazioni emergono.
E pertanto non è esatto dire che «la storia della civilizzazione umana è stata segnata dalla progressiva esternalizzazione delle funzioni cognitive» (Christian Barone, 11) poiché tali funzioni sono state da sempre ‘esternalizzate’. Più esattamente: la razionalità formale ha bisogno di organismi capaci di incidere sull’ambiente e l’ambiente condiziona, plasma, modifica la razionalità formale. L’intelligenza consiste pertanto nella capacità del corpomente di abitare lo spazio, il tempo, gli istanti, le condizioni, i rischi, le possibilità.
Il fondamentale e grave limite delle prospettive che si fanno chiamare transumaniste sta nell’ignorare tutto questo o nel non tenerne conto, sta nel riproporre uno spiritualismo antico e radicale pur se in forme immerse nelle tendenze tecnologiche e antropologiche proprie del XXI secolo.

Il transumanesimo nega la corporeità sino a disprezzarla, ritenendo che l’intelligenza possa davvero consistere in una «pura informazione» che ‘liberi’ l’umano «dal fardello della carne» (Antonio Allegra, 112). Il transumanesimo nega questo corpomente che siamo, sino a ritenere che esso sia «un incidente di noi stessi, qualcosa che ci definisce non più degli abiti che scegliamo di indossare» (Id., 113). Il dualismo di tali prospettive è evidente e radicale, è la più recente espressione di «un immaginario assolutamente potente, antico e modernissimo insieme: quello che riduce l’individuo all’informazione […] Il risultato è una spiritualizzazione totale dell’identità umana. Il dualismo proposto riprende quello attivo in alcuni momenti chiave della tradizione culturale occidentale. Il punto è estremamente rilevante: il transumanesimo a questo proposito non fa altro che assumere un lascito ben preciso -ma lo riattualizza» (Id., 112).
Da tali altezze spirituali il transumanesimo torna però poi alla miseria e alla paura della vita, la vita e basta, la nuda vita: «La vita, dal punto di vista transumanista, è a ben vedere l’unica cosa che merita, o a cui si deve, davvero il segno più», una vita talmente innamorata di se stessa da non voler finire mai e dunque dal voler semplicemente divinizzarsi: «La divinizzazione non è sempre esplicita ma è con tutta evidenza il vero tema della proposta transumanista. […] Si tratta di trasformare l’uomo in Dio grazie al controllo sull’evoluzione della specie. […] Si tratta, almeno sotto questo profilo, di una narrazione teologica» (Id., 104-105). Anche per questo il transumanesimo è parte della costellazione culturale tecnognostica.

Tutto questo si crede al centro dell’essere, tanto che un umanista come Hans Jonas scrive che «la natura non poteva commettere sbaglio peggiore che creare l’uomo, creando l’uomo la natura ha distrutto se stessa»  (Il principio responsabilità, Einaudi 1990, p. 177, qui a p. 34). Parole imprudenti e tracotanti; non la ‘natura’, infatti, sarebbe in pericolo ma quella infima espressione della materia che è la vita sul nostro pianeta. Per la ‘natura’, vale a dire per la materia universale, per la sua massa, la sua energia, la sua impensabile potenza, tutto quello che accade su questo pianeta è un battito di ciglia inavvertito, è il nulla.

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Materia / Simboli

Dubuffet e l’art brut. L’arte degli outsider
Milano – Museo delle culture (Mudec)
A cura di Sarah Lombardi e Anic Zanzi, con il supporto di Baptiste Brun per la sezione Jean Dubuffet
In collaborazione con la Collection de l’Art Brut, Losanna
Sino al 16 febbraio 2025

L’arte del Novecento è un arcipelago ed è un continente. È un grande spazio percorso da strade e itinerari che si intersecano ed è un insieme di isole dalla struttura e dal paesaggio a volte disparati.
Jean Dubuffet (1901-1985) ha chiamato Art Brut uno dei tentativi, nella contemporaneità ricorrenti, di affrancarsi da ogni canone stilistico, psicologico, politico, per attingere al profondo dell’esigenza estetica, cromatica, formale, plastica. Gli artisti scoperti, incoraggiati, sostenuti e collezionati da Dubuffet provengono per lo più da un disagio psichico conclamato, vivono in ospedali psichiatrici o conducono esistenze certamente al di fuori di ogni regolarità.
Ma lo scopo, da Dubuffet pienamente conseguito, è far uscire questi artisti da qualunque catalogazione per cogliere dalle loro creazioni un senso e un significato che vanno al di là della semplice condizione personale.
E questo va fatto sempre. Vale per Tommaso d’Aquino come per Leopardi, per Baudelaire come per Nietzsche. Formuliamo una semplice osservazione: di persone folli il mondo e le istituzioni psichiatriche sono piene ma a dipingere, scolpire, creare manufatti di grande interesse sono ben pochi. Analogamente, di uomini oppressi dall’autorità familiare e in difficoltà con le donne ne esistono a milioni ma ciò non basta per diventare Giacomo Leopardi o qualcosa di simile.
Cancelliamo quindi la genesi personale e guardiamo alle opere, in questa mostra suddivise in una sezione dedicata a Dubuffet e in altre che si riferiscono agli artisti da lui scoperti e ai temi della Credenza e del Corpo.

Le creazioni di Dubuffet sono di grande suggestione. In esse la materia, proprio la materia del quadro, è densissima. In Le Gèologue (1950) ciò che conta non è l’omino geologo che in alto appare intento a osservare una realtà che lo sovrasta ma a contare è questa realtà stessa, questo grande ammasso di materia.


Anche da L’Organique tragique (1957) emergono delle figure umane completamente prive di autonomia, semplici espressioni dell’impasto materico.
Il siciliano Giovanni Bosco (di Castellammare del Golfo, 1948-2009) disegna forme umane accompagnate in ogni anfratto da parole e numeri, da una serie di segni enigmatici e colmi di paradossale armonia.
Giovanni Galli (1954) scandisce sulla carta dei nudi femminili come li potrebbe creare un bambino e li mescola a razzi e a formule fisico-chimiche.
Sono soltanto due esempi italiani di un insieme di artisti, quasi tutti autodidatti, i quali si esprimono con stilemi astratti, figurativi, primitivisti, seriali. Stili e materiali assai eterogenei, anche e soprattutto materiali di uso quotidiano: cartoni, stoviglie, pacchetti di carta, oggetti di plastica e molto altro. Questi elementi sono al servizio di un’ispirazione quasi sempre fortemente mitologica e sacrale, che si esprime e vive in icone, simboli, figure, diavoli, dèi, spiriti, ex voto. Evidente e potente è la presenza di archetipi e ierofanie. E questo conferma che l’umano sembra poter trovare pace soltanto nel sacro, esattamente nella materia sacra.

Dubuffet scrisse che «con Art Brut intendiamo opere eseguite da persone immuni da qualunque cultura artistica. […] Questi autori, pertanto, traggono ogni cosa [soggetti, scelta dei materiali, strumenti, ritmi, stili di scrittura, ecc.] da dentro se stessi e non dai cliché dell’arte classica o dell’arte che va di moda» (L’Art Brut préféré aux arts culturels, Galerie René Drouin, Paris 1949).
In realtà non sembra che sia proprio così. Nonostante infatti siano autodidatti (e alcuni schizofrenici), si tratta di artisti del tutto coerenti con le avanguardie e che appaiono immersi nel loro tempo e nelle proprie culture. Un’altra prova che l’individuo geniale è un’astrazione. A esistere sono le comunità umane, le quali lavorano incessantemente, come singoli e come insiemi, a dare forma e linguaggio ai simboli che germogliano dalla materia, anche dalla materia umana.

Giovanni Bosco, Senza titolo (2006-2009)

Su Lenin

Due commenti a Lenin
in Il Covile
anno XVI, numero 711
8 dicembre 2024
Pagine 1-8

Ringrazio la rivista il Covile per aver voluto ripubblicare un mio breve testo dedicato a Materialismo ed empiriocriticismo, uscito lo scorso febbraio su Il Pensiero Storico. Tanto più per averlo voluto affiancare alla analisi critica che nel 1933 Simone Weil rivolse allo stesso libro.

In realtà, l’articolo di Weil è dedicato a questioni più generali di epistemologia, che emergono in modo limpido ed efficace nella seconda parte del suo scritto. Una epistemologia con la quale concordo pienamente quando rileva che «si dovrà riconoscere l’esistenza, e di un mondo che è oltre il pensiero, e di un pensiero che, lungi dal riflettere passivamente il mondo, si esercita su di lui per conoscerlo e trasformarlo», come ho anch’io ribadito nel mio testo. Concordo poi sulla critica a una pratica scientifica, in particolare della fisica, diventata di fatto esoterica e pericolosamente vicina alle pratiche di fede, «al punto che l’oscurità, e finanche l’assurdità, appaiono oggi, in una teoria scientifica, come segni di profondità. […] In questo senso, la bella espressione di Marx a proposito della critica della religione come condizione primaria di ogni critica deve essere estesa anche alla scienza moderna».

Assai meno condivisibile è la breve prima parte dell’articolo, incentrata su Lenin, e questo per varie ragioni.
La prima è che in essa Weil ribadisce di fatto una posizione intramata di cartesianesimo e di idealismo, la quale a proposito della ovvia struttura materica del corpomente umano, compreso il cervello, parla ironicamente di «inesplicabile caso» e di «Provvidenza» per le teorie epistemologiche realistiche che affermano la continuità (che non è certo identità e non è opposizione) tra come è fatto il mondo e come la mente umana (o di qualsiasi altro animale) lo apprende.
Ma il limite più grave è di natura polemico-politica. La filosofa pubblicò infatti questo scritto su una rivista militante, come La Critique Sociale, e si nota subito che l’obiettivo non è soltanto e neppure principalmente epistemologico ma tende a sminuire Lenin filosofo allo scopo di accusarlo, come in modo nettissimo fa, di dogmatismo anche politico, scrivendo ad esempio che «un tale metodo di pensiero non è quello di un uomo libero. Come tuttavia avrebbe potuto ragionare altrimenti? […] Molto tempo prima di strappare la libertà di pensiero alla Russia tutta intera, il partito bolscevico l’aveva già tolta al proprio capo».
Weil scriveva nel pieno dello stalinismo e delle polemiche interne al movimento comunista. Possiamo dunque comprendere la riduzione allo stalinismo che Weil opera di un libro militante (l’ho rilevato con chiarezza nella mia analisi) ma certamente anche del tutto filosofico qual è Materialismo ed empiriocriticismo.
Sulle ragioni specifiche – epistemologiche e teoretiche – per le quali non condivido in nessun modo la lettura che Weil fa del libro di Lenin non aggiungo nulla poiché esse sono indicate e discusse nel mio articolo.

Contro la nascita

Contro la nascita
il Pequod
anno V, numero 10, dicembre 2024
pagine 38-51

Indice
1 βίος
2 Strategie
3 Una tragedia ridicola
4 Entropia e DNA
5 Oltre la vita, la materia
6 Il mondo è perfetto

«Chi genera un umano genera un condannato a morte. Il quale non soltanto morirà ma lungo tutto il corso del suo esistere dovrà sostenere difficoltà, inquietudini, malattie, pianti. Una simile azione non può che essere definita come frutto di egoismo supremo. Certo, essa viene compiuta in obbedienza a un potente ordine del βίος, dell’impulso che guida ogni entità vivente a riprodurre se stessa e tramite se stessa far sopravvivere la specie alla quale appartiene. Per sottrarsi a una simile forza è necessaria molta consapevolezza, molta tenacia, molta razionalità. Ma appunto tale è l’esistenza che la pratica filosofica regala, un’esistenza fatta anche e specialmente di consapevolezza, tenacia, razionalità. Questo è ciò che Homo sapiens può fare: sottrarsi al demone della nascita, all’imperativo della specie, all’ordine della morte.
[…]
Il mondo in quanto tale, al di là dei viventi, è un’energia e un destino che accadono senza dolore, come senza dolore esistono e accadono ‘la roccia o il mare, una cosa sorda e refrattaria, qualcosa che non può soffrire perché non conosce sofferenza: né quella che lui dà agli altri né quella che gli altri dànno a lui’ (Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca). Il mondo è perfetto ovunque non ci sia nascita organica ma si dia la potenza senza dolore della materia e del tempo».

[Considero questo uno dei testi fondamentali del mio percorso. Poche pagine nelle quali ho cercato di riassumere quanto ho compreso della materia e dell’esserci. Spero che i miei amici vorranno leggerlo e conservarmi la loro amicizia, soprattutto gli amici che hanno avuto dei figli 🙂 .
In ogni caso, la tesi più importante che il saggio intende argomentare è che il mondo è perfetto. Espressione che va presa alla lettera. È dunque un testo dalla tonalità del tutto positiva]

Più duraturi

La pienezza dell’assenza
Luca Gilli
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXX – numero 83 – ottobre 2024
pagine 56-63

Come la narrativa di Morselli, la fotografia di Luca Gilli mette in atto una epochè metafisica e insieme del tutto pratica, ponendo tra parentesi la presenza umana dentro il mondo e mostrando che il mondo senza gli umani continua. La potenza degli oggetti diventa simile a quella degli enti naturali. Come le nuvole, infatti, o le rocce, o gli alberi, o le aquile, o i serpenti, o le querce, e così via e così via nella innumerabile densità del mondo, come tutti questi enti non prodotti dall’opera degli uomini esistevano prima dell’avvento della nostra specie, esistono insieme a essa e continueranno a esserci dopo che gli umani saranno scomparsi, così gli oggetti artefatti, vale a dire frutto della presenza umana, sono più duraturi del loro facitore.

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