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Algoritmi e Transumanesimo

Aa. Vv.
L’algoritmo pensante
Dalla libertà dell’uomo all’autonomia delle intelligenze artificiali
a cura di Christian Barone
Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020
«Quaderni di Synaxis»
Pagine 136 

La fusione tra neuroscienze e ingegneria informatica è l’orizzonte nel quale si inscrive oggi una parte sostanziale della questione antropologica. Un’espressione centrale di tale fusione è lo statuto stesso degli algoritmi – perché sono questi che contano, il software, assai più del supporto macchinico – i quali vanno sempre più comportandosi come agenti non soltanto autonomi ma anche e soprattutto in veloce evoluzione, come se fossero dei veri e propri organismi multicellulari. È il caso di software come ChatGPT e DeepSeek o di altri programmi che, ad esempio, ‘giocano’ in borsa (e ai quali viene dunque affidato il destino di ingenti patrimoni) o di programmi che conducono operazioni militari. Tali algoritmi prendono decisioni in pochi secondi (anche meno) e in modo del tutto autonomo da interventi umani, determinando a volte delle gravi perturbazioni nei mercati finanziari e certamente la morte in guerra di molti esseri umani.

L’’intelligenza’ di questi software, soprattutto se coniugati a degli hardware, è in realtà ancora infima, «il robot più performante attualmente esistente al mondo, non può essere benché minimamente paragonato alle capacità percettive e motorie di un’ape» (Paolo Arena, p. 49) ma è certamente in costante progresso. Ai tradizionali robot tele-operati, e quindi del tutto dipendenti dalla presenza umana, si affiancano infatti dei robot assai più autonomi nelle scelte e nelle operazioni – compresi quelli installati in un numero sempre maggiore di automobili – e soprattutto i robot cognitivi, che agiscono sia a livello logico-formale, ambito nel quale sono ovviamente fortissimi, sia in quelli operativi.
Anche la forma di intelligenza che chiamiamo pura razionalità è in realtà per sua natura l’intelligenza dell’ambiente e consiste nel:
-percepire il contesto con dei sensi/sensori
-decidere quale sia il comportamento più adeguato alla situazione rilevata
-eseguire movimenti e azioni volti a raggiungere gli scopi che dalle diverse e specifiche situazioni emergono.
E pertanto non è esatto dire che «la storia della civilizzazione umana è stata segnata dalla progressiva esternalizzazione delle funzioni cognitive» (Christian Barone, 11) poiché tali funzioni sono state da sempre ‘esternalizzate’. Più esattamente: la razionalità formale ha bisogno di organismi capaci di incidere sull’ambiente e l’ambiente condiziona, plasma, modifica la razionalità formale. L’intelligenza consiste pertanto nella capacità del corpomente di abitare lo spazio, il tempo, gli istanti, le condizioni, i rischi, le possibilità.
Il fondamentale e grave limite delle prospettive che si fanno chiamare transumaniste sta nell’ignorare tutto questo o nel non tenerne conto, sta nel riproporre uno spiritualismo antico e radicale pur se in forme immerse nelle tendenze tecnologiche e antropologiche proprie del XXI secolo.

Il transumanesimo nega la corporeità sino a disprezzarla, ritenendo che l’intelligenza possa davvero consistere in una «pura informazione» che ‘liberi’ l’umano «dal fardello della carne» (Antonio Allegra, 112). Il transumanesimo nega questo corpomente che siamo, sino a ritenere che esso sia «un incidente di noi stessi, qualcosa che ci definisce non più degli abiti che scegliamo di indossare» (Id., 113). Il dualismo di tali prospettive è evidente e radicale, è la più recente espressione di «un immaginario assolutamente potente, antico e modernissimo insieme: quello che riduce l’individuo all’informazione […] Il risultato è una spiritualizzazione totale dell’identità umana. Il dualismo proposto riprende quello attivo in alcuni momenti chiave della tradizione culturale occidentale. Il punto è estremamente rilevante: il transumanesimo a questo proposito non fa altro che assumere un lascito ben preciso -ma lo riattualizza» (Id., 112).
Da tali altezze spirituali il transumanesimo torna però poi alla miseria e alla paura della vita, la vita e basta, la nuda vita: «La vita, dal punto di vista transumanista, è a ben vedere l’unica cosa che merita, o a cui si deve, davvero il segno più», una vita talmente innamorata di se stessa da non voler finire mai e dunque dal voler semplicemente divinizzarsi: «La divinizzazione non è sempre esplicita ma è con tutta evidenza il vero tema della proposta transumanista. […] Si tratta di trasformare l’uomo in Dio grazie al controllo sull’evoluzione della specie. […] Si tratta, almeno sotto questo profilo, di una narrazione teologica» (Id., 104-105). Anche per questo il transumanesimo è parte della costellazione culturale tecnognostica.

Tutto questo si crede al centro dell’essere, tanto che un umanista come Hans Jonas scrive che «la natura non poteva commettere sbaglio peggiore che creare l’uomo, creando l’uomo la natura ha distrutto se stessa»  (Il principio responsabilità, Einaudi 1990, p. 177, qui a p. 34). Parole imprudenti e tracotanti; non la ‘natura’, infatti, sarebbe in pericolo ma quella infima espressione della materia che è la vita sul nostro pianeta. Per la ‘natura’, vale a dire per la materia universale, per la sua massa, la sua energia, la sua impensabile potenza, tutto quello che accade su questo pianeta è un battito di ciglia inavvertito, è il nulla.

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Materia / Simboli

Dubuffet e l’art brut. L’arte degli outsider
Milano – Museo delle culture (Mudec)
A cura di Sarah Lombardi e Anic Zanzi, con il supporto di Baptiste Brun per la sezione Jean Dubuffet
In collaborazione con la Collection de l’Art Brut, Losanna
Sino al 16 febbraio 2025

L’arte del Novecento è un arcipelago ed è un continente. È un grande spazio percorso da strade e itinerari che si intersecano ed è un insieme di isole dalla struttura e dal paesaggio a volte disparati.
Jean Dubuffet (1901-1985) ha chiamato Art Brut uno dei tentativi, nella contemporaneità ricorrenti, di affrancarsi da ogni canone stilistico, psicologico, politico, per attingere al profondo dell’esigenza estetica, cromatica, formale, plastica. Gli artisti scoperti, incoraggiati, sostenuti e collezionati da Dubuffet provengono per lo più da un disagio psichico conclamato, vivono in ospedali psichiatrici o conducono esistenze certamente al di fuori di ogni regolarità.
Ma lo scopo, da Dubuffet pienamente conseguito, è far uscire questi artisti da qualunque catalogazione per cogliere dalle loro creazioni un senso e un significato che vanno al di là della semplice condizione personale.
E questo va fatto sempre. Vale per Tommaso d’Aquino come per Leopardi, per Baudelaire come per Nietzsche. Formuliamo una semplice osservazione: di persone folli il mondo e le istituzioni psichiatriche sono piene ma a dipingere, scolpire, creare manufatti di grande interesse sono ben pochi. Analogamente, di uomini oppressi dall’autorità familiare e in difficoltà con le donne ne esistono a milioni ma ciò non basta per diventare Giacomo Leopardi o qualcosa di simile.
Cancelliamo quindi la genesi personale e guardiamo alle opere, in questa mostra suddivise in una sezione dedicata a Dubuffet e in altre che si riferiscono agli artisti da lui scoperti e ai temi della Credenza e del Corpo.

Le creazioni di Dubuffet sono di grande suggestione. In esse la materia, proprio la materia del quadro, è densissima. In Le Gèologue (1950) ciò che conta non è l’omino geologo che in alto appare intento a osservare una realtà che lo sovrasta ma a contare è questa realtà stessa, questo grande ammasso di materia.


Anche da L’Organique tragique (1957) emergono delle figure umane completamente prive di autonomia, semplici espressioni dell’impasto materico.
Il siciliano Giovanni Bosco (di Castellammare del Golfo, 1948-2009) disegna forme umane accompagnate in ogni anfratto da parole e numeri, da una serie di segni enigmatici e colmi di paradossale armonia.
Giovanni Galli (1954) scandisce sulla carta dei nudi femminili come li potrebbe creare un bambino e li mescola a razzi e a formule fisico-chimiche.
Sono soltanto due esempi italiani di un insieme di artisti, quasi tutti autodidatti, i quali si esprimono con stilemi astratti, figurativi, primitivisti, seriali. Stili e materiali assai eterogenei, anche e soprattutto materiali di uso quotidiano: cartoni, stoviglie, pacchetti di carta, oggetti di plastica e molto altro. Questi elementi sono al servizio di un’ispirazione quasi sempre fortemente mitologica e sacrale, che si esprime e vive in icone, simboli, figure, diavoli, dèi, spiriti, ex voto. Evidente e potente è la presenza di archetipi e ierofanie. E questo conferma che l’umano sembra poter trovare pace soltanto nel sacro, esattamente nella materia sacra.

Dubuffet scrisse che «con Art Brut intendiamo opere eseguite da persone immuni da qualunque cultura artistica. […] Questi autori, pertanto, traggono ogni cosa [soggetti, scelta dei materiali, strumenti, ritmi, stili di scrittura, ecc.] da dentro se stessi e non dai cliché dell’arte classica o dell’arte che va di moda» (L’Art Brut préféré aux arts culturels, Galerie René Drouin, Paris 1949).
In realtà non sembra che sia proprio così. Nonostante infatti siano autodidatti (e alcuni schizofrenici), si tratta di artisti del tutto coerenti con le avanguardie e che appaiono immersi nel loro tempo e nelle proprie culture. Un’altra prova che l’individuo geniale è un’astrazione. A esistere sono le comunità umane, le quali lavorano incessantemente, come singoli e come insiemi, a dare forma e linguaggio ai simboli che germogliano dalla materia, anche dalla materia umana.

Giovanni Bosco, Senza titolo (2006-2009)

Su Lenin

Due commenti a Lenin
in Il Covile
anno XVI, numero 711
8 dicembre 2024
Pagine 1-8

Ringrazio la rivista il Covile per aver voluto ripubblicare un mio breve testo dedicato a Materialismo ed empiriocriticismo, uscito lo scorso febbraio su Il Pensiero Storico. Tanto più per averlo voluto affiancare alla analisi critica che nel 1933 Simone Weil rivolse allo stesso libro.

In realtà, l’articolo di Weil è dedicato a questioni più generali di epistemologia, che emergono in modo limpido ed efficace nella seconda parte del suo scritto. Una epistemologia con la quale concordo pienamente quando rileva che «si dovrà riconoscere l’esistenza, e di un mondo che è oltre il pensiero, e di un pensiero che, lungi dal riflettere passivamente il mondo, si esercita su di lui per conoscerlo e trasformarlo», come ho anch’io ribadito nel mio testo. Concordo poi sulla critica a una pratica scientifica, in particolare della fisica, diventata di fatto esoterica e pericolosamente vicina alle pratiche di fede, «al punto che l’oscurità, e finanche l’assurdità, appaiono oggi, in una teoria scientifica, come segni di profondità. […] In questo senso, la bella espressione di Marx a proposito della critica della religione come condizione primaria di ogni critica deve essere estesa anche alla scienza moderna».

Assai meno condivisibile è la breve prima parte dell’articolo, incentrata su Lenin, e questo per varie ragioni.
La prima è che in essa Weil ribadisce di fatto una posizione intramata di cartesianesimo e di idealismo, la quale a proposito della ovvia struttura materica del corpomente umano, compreso il cervello, parla ironicamente di «inesplicabile caso» e di «Provvidenza» per le teorie epistemologiche realistiche che affermano la continuità (che non è certo identità e non è opposizione) tra come è fatto il mondo e come la mente umana (o di qualsiasi altro animale) lo apprende.
Ma il limite più grave è di natura polemico-politica. La filosofa pubblicò infatti questo scritto su una rivista militante, come La Critique Sociale, e si nota subito che l’obiettivo non è soltanto e neppure principalmente epistemologico ma tende a sminuire Lenin filosofo allo scopo di accusarlo, come in modo nettissimo fa, di dogmatismo anche politico, scrivendo ad esempio che «un tale metodo di pensiero non è quello di un uomo libero. Come tuttavia avrebbe potuto ragionare altrimenti? […] Molto tempo prima di strappare la libertà di pensiero alla Russia tutta intera, il partito bolscevico l’aveva già tolta al proprio capo».
Weil scriveva nel pieno dello stalinismo e delle polemiche interne al movimento comunista. Possiamo dunque comprendere la riduzione allo stalinismo che Weil opera di un libro militante (l’ho rilevato con chiarezza nella mia analisi) ma certamente anche del tutto filosofico qual è Materialismo ed empiriocriticismo.
Sulle ragioni specifiche – epistemologiche e teoretiche – per le quali non condivido in nessun modo la lettura che Weil fa del libro di Lenin non aggiungo nulla poiché esse sono indicate e discusse nel mio articolo.

Contro la nascita

Contro la nascita
il Pequod
anno V, numero 10, dicembre 2024
pagine 38-51

Indice
1 βίος
2 Strategie
3 Una tragedia ridicola
4 Entropia e DNA
5 Oltre la vita, la materia
6 Il mondo è perfetto

«Chi genera un umano genera un condannato a morte. Il quale non soltanto morirà ma lungo tutto il corso del suo esistere dovrà sostenere difficoltà, inquietudini, malattie, pianti. Una simile azione non può che essere definita come frutto di egoismo supremo. Certo, essa viene compiuta in obbedienza a un potente ordine del βίος, dell’impulso che guida ogni entità vivente a riprodurre se stessa e tramite se stessa far sopravvivere la specie alla quale appartiene. Per sottrarsi a una simile forza è necessaria molta consapevolezza, molta tenacia, molta razionalità. Ma appunto tale è l’esistenza che la pratica filosofica regala, un’esistenza fatta anche e specialmente di consapevolezza, tenacia, razionalità. Questo è ciò che Homo sapiens può fare: sottrarsi al demone della nascita, all’imperativo della specie, all’ordine della morte.
[…]
Il mondo in quanto tale, al di là dei viventi, è un’energia e un destino che accadono senza dolore, come senza dolore esistono e accadono ‘la roccia o il mare, una cosa sorda e refrattaria, qualcosa che non può soffrire perché non conosce sofferenza: né quella che lui dà agli altri né quella che gli altri dànno a lui’ (Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca). Il mondo è perfetto ovunque non ci sia nascita organica ma si dia la potenza senza dolore della materia e del tempo».

[Considero questo uno dei testi fondamentali del mio percorso. Poche pagine nelle quali ho cercato di riassumere quanto ho compreso della materia e dell’esserci. Spero che i miei amici vorranno leggerlo e conservarmi la loro amicizia, soprattutto gli amici che hanno avuto dei figli 🙂 .
In ogni caso, la tesi più importante che il saggio intende argomentare è che il mondo è perfetto. Espressione che va presa alla lettera. È dunque un testo dalla tonalità del tutto positiva]

Più duraturi

La pienezza dell’assenza
Luca Gilli
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXX – numero 83 – ottobre 2024
pagine 56-63

Come la narrativa di Morselli, la fotografia di Luca Gilli mette in atto una epochè metafisica e insieme del tutto pratica, ponendo tra parentesi la presenza umana dentro il mondo e mostrando che il mondo senza gli umani continua. La potenza degli oggetti diventa simile a quella degli enti naturali. Come le nuvole, infatti, o le rocce, o gli alberi, o le aquile, o i serpenti, o le querce, e così via e così via nella innumerabile densità del mondo, come tutti questi enti non prodotti dall’opera degli uomini esistevano prima dell’avvento della nostra specie, esistono insieme a essa e continueranno a esserci dopo che gli umani saranno scomparsi, così gli oggetti artefatti, vale a dire frutto della presenza umana, sono più duraturi del loro facitore.

Idealismo e transumanesimo

Materia e transumanesimo in Giovanni Gentile
in Dialoghi Mediterranei
n. 70, novembre-dicembre 2024
pagine 540-545

Indice
-Attualismo e idealismo
-Gentile, l’estetica
-Gentile, il realismo, la materia
-Idealismo e transumanesimo

La struttura storica dell’umano e di ogni suo prodotto costituisce una conferma dei limiti della nostra specie, del non poter mai tale animale aspirare a un Assoluto posto fuori dallo spaziotempo. La filosofia di Gentile è probabilmente l’ultima espressione tradizionale di tale pretesa, che però nel presente sembra riapparire nelle forme certo ben mascherate ma sempre visibili del cosiddetto transumano.
Il transumanesimo è un’evidente forma di ὕβρις, fondata sulla volontà di espansione della soggettività umana. Anche per questo alcuni dei concetti centrali di ogni idealismo, compreso quello di Gentile, quali l’‘assoluto’, sono in realtà poco più che intuizioni e metafore con le quali una parte della materia dotata di coscienza coglie il tempo come un tutto ora, come il tutto che era prima, come il tutto che sarà poi.
Perché il sempre non è una forma statica ma è proprio questo eventuarsi senza posa della materia, ora e in ogni istante del suo accadere.
Uno dei paradossali meriti dell’attualismo gentiliano è la chiarezza con la quale la pretesa antropocentrica si esprime e dunque precipita e fallisce. Anche da Gentile scaturisce pertanto la necessità di abbandonare ogni antropocentrismo e ogni dualismo/contrapposizione tra l’umano e il cosmo nel quale l’umano è posto nei modi più diversi come signore.
Signore di che cosa? Non decidiamo di nascere, né come e dove nasciamo né siamo padroni delle nostre vite e del morire, perché in questo caso saremmo tutti dei felici signori del tempo. E invece del tempo siamo soltanto una necessaria espressione e ciò che chiamiamo morire è la formula del limite umano incapace di cogliere la permanenza della materia al di là delle sue contingenti espressioni.
La radice e l’espressione immanentistica dell’attualismo gentiliano costituiscono alla fine una distanza da ogni transumanesimo, nonostante il contributo che l’idealismo possa offrire e abbia offerto alle tesi transumane.

Astronomia

Massimo Capaccioli
L’incanto di Urania
Venticinque secoli di esplorazione del cielo
Carocci, Roma 2020
«Sfere / 157»
Pagine 531

Urania è la musa dell’astronomia, l’unica scienza dura ad avere una propria musa. Una scienza del tutto particolare, nella quale non sono possibili i comuni esperimenti da laboratorio ed è invece richiesto un grande talento ermeneutico/teorico nella interpretazione dei dati, che per millenni sono stati raccolti con il semplice ausilio degli occhi e da quattro secoli con quello di strumenti all’inizio ancora soltanto ottici e ora multimessaggeri, vale a dire capaci di conservare e far interagire tra loro fonti diverse di informazione sulla materia, come fotoni (la luce, appunto), raggi cosmici, neutrini, onde radio, onde gravitazionali.
L’astronomia è stata anche uno dei grandi ingressi alla civiltà postmedioevale. Fu essa infatti a mettere in crisi il paradigma antropocentrico – sostenuto per millenni dalla cosmologia tolemaica e aristotelica – e poi ad ampliare gli spazi della mente e della materia verso misure impreviste e impensabili. Se l’astronomia antica dava conforto alla mortalità umana ponendo la nostra specie in ogni caso al centro del cosmo, la scienza contemporanea ha aperto agli astronomi e a tutti gli umani «il regno delle galassie e relegato la Via Lattea a semplice esemplare di un universo isola» (p. 278).
Una ‘contemporaneità’ assai recente – un secolo circa – nella quale le misure lineari si sono dilatate tanto da richiedere un nuovo criterio che non è più lo spazio statico ma uno strumento dinamico e temporale quale la velocità della luce. Come tutto ciò che esiste, anche le stelle hanno mostrato una natura temporale, iniziando la loro esistenza «con un collasso gravitazionale di una nube di gas che scalda il cuore della protostella, completandosi con l’accensione di una fornace centrale. Qui la fusione dell’idrogeno in elio procura l’energia con cui vengono rimpiazzate le perdite per irraggiamento» (437). Un’esistenza che può durare più o meno a lungo ma sempre su tempi per l’umano immensi.

Il valore dell’energia che è in gioco nelle stelle è diventato inimmaginabile, come hanno confermato la scoperta (nel 1934) delle supernovae, «astri ipertesi, con una massa come quella del Sole e grandi come una città» (362) a dimostrazione di quanto estrema possa diventare la densità della materia, e poi la scoperta (nel 1964) delle sorgenti radio quasi stellari, quasar e ancora (nel 1968) la scoperta delle pulsar, sorgenti radio capaci di variare più volte al secondo i propri valori. E su tutto sta il duplice enigma dei buchi neri e della materia oscura, la conoscenza della cui natura è lenta e difficile.
I black holes costituiscono delle singolarità, vale a dire fenomeni per i quali non valgono le leggi fisiche conosciute e che rimangono inaccessibili all’esperienza, «oggetti talmente compatti da essere contenuti entro il proprio orizzonte, ossia entro un ideale guscio che demarca il confine tra lo spazio-tempo reale e quel non mondo dal quale nemmeno la luce può fuggire» (435).
Della dark matter si conosce ancor meno. Sostanzialmente si sa che si tratta di materia «relativamente fredda, cioè animata da velocità modeste rispetto alla luce (il che implica particelle ‘oscure’ con masse individuali relativamente grandi) e non collisionale, ossia che non interagisce né con sé stessa né con la materia ordinaria, gravità a parte» (442). Una presenza pervasiva, dagli effetti decisivi sulla costituzione della materia visibile, della luce e del vuoto. Quasi il 75% della materia/energia sarebbe infatti oscura e la luce rappresenterebbe soltanto una parte piuttosto piccola del cosmo, «un ingrediente marginale dell’universo» (440).
E questo significa che «il vuoto non è affatto vuoto e anzi possiede risorse che crescono proporzionalmente alla dilatazione dello spazio. […] Ci sono invece molte e diverse osservazioni a conferma di un paradigma di universo dove la materia ordinaria è ormai poco più che una traccia spersa in un mare di componenti oscure» (447).
Il lungo percorso – reso da questo libro avvincente – che dall’osservazione dei cieli babilonesi e greci perviene all’astrofisica del XXI secolo è molto differenziato ma è anche segnato da costanti teoretiche, sociologiche e psicologiche.

La prima e più importante riguarda l’indissolubilità del legame tra astronomia e temporalità. Studiare gli astri vuol dire analizzare lo spaziotempo in qualche modo infinito, in qualche modo eterno, in qualche modo costante e insieme dinamico. Se le ipotesi di Wright, Kant, Laplace mettevano «la parola fine al lungo capitolo dell’universo sidereo immutabile e perfetto, introducendo nella filosofia naturale quel concetto di evoluzione che avrebbe avuto come prima conseguenza la nascita della termodinamica in fisica, e nella genetica l’esplosione della rivoluzione darwiniana e lamarckiana» (180), al tempo si piega anche la fisica relativistica, la quale nonostante le tendenze eleatiche e spinoziste del suo fondatore – che da «grande estimatore di Baruch Spinoza, proprio dal filosofo sefardita bandito dalla sua comunità per le temerarie riflessioni sulla religione aveva tratto il convincimento che Dio e natura fossero in qualche misura sinonimi, e che pertanto il cosmo dovesse godere del medesimo attributo della divinità: un’eternità immobile e senza tempo» (289) – ha contribuito alla scoperta e alla comprensione di molti fenomeni che confermano la natura pulsante ed evolutiva della materia, tanto che da una ventina d’anni ormai sembra accertato che «l’età dell’universo [sia di] 13,72 miliardi di anni, con un’incertezza di un centinaio di milioni d’anni. Oramai il modello stazionario di Hoyle, Bondi e Gold era stato ampiamente falsificato dall’accidentale scoperta della radiazione cosmica di fondo (Cosmic Microwave Background Radiation – CMBR)» (392).

La costante sociologica si esprime nella inseparabilità delle vicende di una scienza in qualche modo assoluta qual è l’astronomia rispetto alle vicende storiche e sociologiche alle quali il libro dedica riferimenti sintetici ma sistematici. E si esprime soprattutto in un fattore tutto interno al lavoro scientifico, il quale è sempre sottoposto alle forze d’inerzia della tradizione, del potere accademico, delle strumentalizzazioni e dei finanziamenti da parte del potere politico. «Un esempio recente e clamoroso di questo condizionamento psicologico è il modello statico cui Albert Einstein fu indotto dalla sua adesione al panteismo spinoziano che pretendeva l’immutabilità del tutto; una pregiudiziale visione del mondo che il genio tedesco riconobbe essere stato il ‘più grande errore’ della sua vita» (34) e un altro esempio riguarda sempre Einstein attraverso il sostegno datogli da uno dei maggiori astronomi del Novecento, Arthur Eddington, il quale arrivò a misure che collimavano perfettamente con le previsioni einsteiniane ma che successivamente vennero dimostrate false: «Forse, nel cercare una risposta commise qualche errore o forse, abbagliato dal desiderio di poter provare la veridicità di una teoria che lo aveva completamente sedotto, forzò la mano ai dati. Buon per Einstein, che di punto in bianco diventò un’autentica star» (289).

La costante psicologica è data dalla presentazione sempre vivace, disincantata e persino divertita dei caratteri degli astronomi, delle loro passioni, idiosincrasie, gelosie, cecità, miserie. Tra i più spregiudicati e scorretti scienziati di ogni tempo vi è certamente Newton, il quale giunse «persino a far distruggere una tela che rappresentava il suo nemico [Robert Hooke] nelle sale della Royal Society. Meschino ma anche pavido: non osò infatti pubblicare il suo trattato di ottica (Opticks, 1704) sin quando Hooke, piegato dagli acciacchi, non si spense. Forse il contorto genio del Trinity College temeva l’insorgere di altre accuse di plagio, come quella rivoltagli dal tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz in merito alla teoria delle flussioni. Una disputa internazionale nella quale Newton diede nuovamente prova della sua totale mancanza di scrupoli» (135). Tendenza al plagio che caratterizzò anche alcuni momenti della carriera di Edwin Hubble (313).

Storia dunque di umani e di macchine, di astrazioni e di tecnologie – dettagliatissima la storia dei telescopi –, di paradigmi e di rompicapo che mettendo in crisi le verità conducono a nuove risposte perché fanno sorgere rinnovate domande. Emblematico il caso della cosiddetta ‘costante di Hubble’ che dovrebbe indicare l’età dell’universo e che è caratterizzata da una radicale incostanza, mutando valore con una certa frequenza. Essa infatti non soltanto «assume valori differenti a seconda del metodo impiegato» ma diventa un elemento «patologico qualora le misure siano molto precise e tuttavia in disaccordo tra di loro. Se confermata, questa anomalia richiederà un drastico ripensamento della teoria che ne prevede la costanza» (447).
In ogni caso, l’astronomia conferma di costituire insieme alla matematica la più filosofica delle scienze poiché per sua natura la cosmologia è «la scienza che studia il tutto nel suo insieme con l’intento di spiegarne l’origine e la trasformazione» (444), uno degli obiettivi costanti della filosofia.

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