Skip to content


Il lavoro intellettuale come professione

(Wissenschaft als Beruf – Politik als Beruf, 1918)
di Max Weber
Traduzione di Antonio Giolitti
Einaudi, Torino 1994
Pagine XLII-121

In due conferenze tenute nel 1918 all’Università di Monaco, Max Weber raccoglie il senso delle sue riflessioni e della sua dottrina. Affrontando il problema della scienza e della politica come Beruf, vocazione e professione, Weber enuncia alcuni dei temi chiave del suo pensiero: le modalità attraverso le quali si seleziona una classe dirigente; lo Stato quale organismo che «esige per sé (con successo) il monopolio della forza fisica legittima» (pag. 48); i tre tipi di potere e le loro caratteristiche: tradizione, carisma, norma; etica della convinzione ed etica della responsabilità; scienza contemporanea e specializzazione; razionalità e disincantamento del mondo.

Chi senta di possedere il dono (Gabe) della scienza e voglia coltivarlo con serietà e fecondità deve prima di tutto distinguere fra le proprie personali opinioni e le acquisizioni scientifiche che raggiunge e anteporre sempre le seconde alle prime. Quando poi lo studioso sia anche un insegnante, è suo specifico dovere non utilizzare l’inevitabile prestigio rispetto agli allievi per farsi propagandista di un’idea dalla cattedra, poiché«tra le pareti dell’aula d’insegnamento una sola virtù ha valore: la semplice probità intellettuale» (42). Pur nella lucida consapevolezza che «nessuna scienza è assolutamente priva di presupposti» (39), lo studioso deve mirare alla verità raggiungibile nel suo tempo e rispetto all’oggetto di indagine. Ciò diventa possibile solo tramite il duro lavoro che non da ispirazioni improvvise si aspetta chissà quali rivelazioni ma dalla costanza dell’impegno quotidiano. Un tale rigore consente poi a chi insegna di esporre tutti quei fatti “imbarazzanti” dai quali scaturiscono le domande e quindi il sapere.

Una simile etica della ricerca consente a Weber di osservare la realtà storica e politica senza pregiudizi e di poter formulare quindi delle valutazioni spregiudicate e a volte persino profetiche. Fra queste ultime sono di particolare rilievo quelle dedicate alle conseguenze di una pace punitiva verso la Germania (previsioni analoghe a quelle di Lloyd George e Keynes) e alla dinamica della Rivoluzione sovietica. Lo sferzante giudizio sull’Ottobre come «un carnevale che si ammanta del nome altisonante di ‘rivoluzione’» (101) è giustificato in primo luogo dalla constatazione che i bolscevichi vanno restaurando gran parte delle istituzioni borghesi contro cui sono insorti, al semplice e vitale scopo di far funzionare lo stato e l’economia, e poi dalla acuta conoscenza della dinamica di tutte le rivoluzioni.

Il realismo di Weber consiste in due principali elementi: la consapevolezza che in politica il mezzo decisivo è la forza e la conseguente, netta, distinzione fra politica e religione. Weber descrive in maniera accurata i meccanismi del potere in luoghi diversi e in differenti epoche, dallo spoil system statunitense alle clientele dei partiti europei con le loro distribuzioni di impieghi e prebende. Se l’esercizio del potere è un fine in se stesso, «per godere del senso di prestigio che ne deriva» (49), «non si dà aberrazione dell’attività politica più deleteria dello sfoggio pacchiano del potere e del vanaglorioso compiacersi nel sentimento della potenza, o, in generale, di ogni culto del potere semplicemente come tale» (103). Si direbbe che Weber abbia previsto quali forme di degenerazione dell’attività politica si sarebbero presentate in Italia nei nostri anni. In quanto attività esclusivamente mondana, la politica necessita della violenza e del compromesso. Chi dunque «anela alla salute della propria anima e alla salvezza di quella altrui, non le cerca attraverso la politica» (117).

Da questi presupposti realistici scaturisce quello che è stato definito il cesarismo quale unico antidoto alle degenerazioni della società di massa. In realtà Weber ritiene che le forme della democrazia contemporanea siano già di per sé «una dittatura fondata sullo sfruttamento della natura sentimentale delle masse» (89). In tale condizione una democrazia senza capi carismatici si consegna al dominio dei politici di professione, privi di progetti e di capacità che non siano quelli del mero utilizzo personale del potere. La fiducia weberiana verso il carisma è certo eccessiva e ambigua, ciò non toglie che la descrizione delle democrazie di massa come regimi partitocratici in mano a notabili rimanga esatta.

Il più intimo pensiero di Weber emerge nelle righe conclusive di queste conferenze, laddove lo studioso sostiene -con un’energia che maschera l’amarezza di fondo- come abbia vocazione per la politica solo chi di fronte alla volgarità e stupidità degli uomini non si ritiri disgustato, voglia ancora offrire un progetto e un itinerario e dica a se stesso: «Non importa, continuiamo!» (121). In tale affermazione convergono il rigore etico, il realismo antropologico, l’ottimismo della volontà che ispirano dalla prima all’ultima frase questo testo. Che Weber si sia alla fine ritirato dall’attività politica dopo una fase di intenso impegno non rappresenta un suo privato fallimento ma la conferma dell’impossibilità di fatto -da parte di chi indaga criticamente sulla realtà- di accostarsi all’insipienza delle masse. Lo stesso fallimento di Platone.

Bouvard e Pécuchet

di Gustave Flaubert
(Bouvard et Pécuchet, 1881)
Trad. di Camillo Sbarbaro
Con un saggio di Lionel Trilling
Einaudi, Torino 1982
Pagine XXXIII-243

I due protagonisti di questa parabola non possono esser dimenticati facilmente. Da un lato sono dei personaggi reali, con le loro inconfondibili fisionomie, con il perfetto delinearsi dei caratteri. Dall’altro costituiscono una sferzante allegoria. Pur se ingenui, precipitosi, superficiali, imprudenti, i due impiegati che, ricevuta una cospicua eredità, decidono di apprendere tutto ciò che possa essere appreso -scienze agrarie, pedagogia, letteratura, medicina, archeologia, chimica, ingegneria, astronomia…- rimangono i più autentici tra gli esseri che costellano il romanzo. Composto insieme al Dictionnaire des idées reçues, e a esso strettamente legato, questo singolare capolavoro rappresenta infatti un’antologia della stupidità universale.

Dalle sue pagine emerge con una chiarezza persino dolorosa ciò che nega un autentico sapere: i pregiudizi privati e collettivi, l’apologia della consuetudine, la consacrazione delle norme, il provincialismo, la grettezza dello spazio interiore, l’invidia verso chi nell’apprendere è felice, l’acritica chiusura della mente. Nei confronti di tutto questo, Bouvard e Pécuchet si comportano da inconsapevoli ma implacabili demistificatori. E anche quando sembrano cadere nel colmo del non pensiero, il bigottismo biblico, portano il loro atteggiamento al punto estremo in cui la scempiaggine di una fede che «ha per punto di partenza una mela» (p. 211) si illumina da sé del proprio grottesco splendore.

Ai loro occhi «il mondo si trasformava in simbolo» (98), «aristocrazia e popolo si equivalevano» (133), «i socialisti invocano sempre la tirannia» (140), «la metafisica non serve a niente» (176), «ammanendo con la massima serietà queste fandonie al pubblico, la stampa ne coltivava la credulità» (155). È il “progresso”, quindi, il nome che l’imbecillità assume nel XIX secolo, quel pregiudizio sul quale Céline scriverà: «L’ho pur visto arrivare il Progresso…ma sempre senza trovare un posto…Tornavo ogni volta a casa bischero come prima…» (Morte a credito, Corbaccio, 2000, p. 271).

Non geniali ma neppure idioti, fratelli di Emma Bovary, i due uomini comuni nei quali Flaubert ricapitola il suo disprezzo per l’inutile mondo di mediocri che popola la specie costituiscono la paradossale luce di un mondo spento. Essi «mettevano in dubbio la probità degli uomini, la castità delle donne, l’intelligenza dei governanti, il buonsenso del popolo: minavano, in una parola, le basi. […] Nei due amici maturò allora una disposizione d’animo destinata a renderli infelici: quella di vedere la stupidità umana e di non poter più tollerarla» (182).

Massa e potere

di Elias Canetti
(Masse und Macht, Classen Verlag, Hamburg 1960)
Trad. di Furio Jesi
Adelphi, Milano 1981
Pagine 615

massa_potere

Questo libro restituisce del tutto, senza risolverlo ma addirittura ampliandolo, l’enigma della massa. Non si tratta di un affresco storico né di una tipologia sociologica ma di una serie di frammenti per pensare. Canetti tenta (in un senso molto diverso da Foucault) una fisica e, di più, una biologia del potere. La massa e il comando vengono pensati a partire dalle loro scaturigini nel mondo vegetale e animale. Psicologia, etnologia, storia, antropologia, etologia confluiscono nel magma di un tentativo lucidissimo di comprendere ciò che accade.
La dinamica individuo-massa viene imperniata sul contrasto fra due forze opposte. Quella centrifuga spinge a conservare l’identità del singolo tramite l’isolamento nel quale ognuno sta come un mulino a vento in una pianura sconfinata. Questa situazione, tuttavia, comporta un tale peso d’angoscia -il sentimento alla lunga inaccettabile dell’esser soli- da spingere a immettersi nella forza opposta, quella che unisce gli sparsi individui e tramite la quale «l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa [la massa] è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto (…) D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo» (pag. 18). Nascono così gli insiemi fisici, gli aggregati centripeti, la semplice vastità del numero. Ma il momento decisivo nel quale da una raccolta più o meno vasta di individui si passa alla vera e propria massa è la «scarica» nella quale tutti decidono di fare e di essere la stessa cosa, diventano uguali e provano con ciò un enorme sollievo, di carattere appunto fisico, biologico. Alcuni esempi: la paura improvvisa di fronte a un pericolo (un predatore, un’inondazione, l’esercito avversario, le forze dell’ordine) crea la massa in fuga; il rifiuto di un’azione dovuta fa nascere la massa del divieto (lo sciopero); la volontà di uscire a tutti i costi da una situazione giudicata insostenibile forma quella del rovesciamento (rivoluzioni e jacqueries); un gruppo che si autocelebra proiettando se stesso nella natura, in un eroe o in un dio, produce la massa festiva.

Cos’è, oltre la scarica, a unificare tali e altre forme di massa? In primo luogo la necessità di crescere indefinitamente, di penetrare ovunque senza lasciare nulla fuori di sé, di coincidere -alla fine- con tutto ciò che esiste. Poi, una eguaglianza «assoluta e indiscutibile» (35), che pervade la massa dando unità alla molteplicità di sensazioni, esperienze, volontà. Ancora: una concentrazione fisica di cui la massa sente comunque sempre l’insufficienza dato che essa vorrebbe annullare lo spazio fra un elemento e l’altro dei suoi componenti. Infine, la direzione, il muoversi tutti insieme verso qualcosa, unica garanzia contro il pericolo sempre incombente del disgregamento. E quindi la forma-massa davvero originaria, modello e insieme simbolo di ogni altra, sta nella natura e nelle diverse sue manifestazioni: grano, foreste, pioggia, vento, sabbia, mare, fuoco.

Di fronte alla massa -suo prodotto? suo nemico? Canetti non sembra chiarirlo del tutto- sta il potere, la cui natura è in primo luogo biologica e consiste nell’afferrare ciò che sta davanti e a disposizione, mangiarlo, incorporarlo e annientare così ogni diversità rispetto a colui che divora. In ogni luogo e ovunque appaia, che cosa è il potere? «L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza» (273). Il potente è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili; il suo trono poggia su mucchi sterminati di cadaveri: «Il più antico ordine -impartito già in epoca estremamente remota, se si tratta di uomini- è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire. Sarà bene pensarci quando si parla dell’ordine fra gli uomini» (366).  Lo strumento e la tonalità del potere è la dissimulazione, il silenzio sulle proprie reali intenzioni, il segreto indicibile, il moltiplicarsi delle maschere, la finzione. Solo così la parola detta, quando sarà detta, avrà il peso di un’autorità senza limiti, di una sentenza senza appello. Ogni ordine è parte di questa morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare solo trasmettendo a un altro lo stesso identico comando. Ma anche il potente vive la sua angoscia: essa è il contraccolpo della sorte, il poter perdere l’autorità e dover subire la vendetta di coloro a cui si è comandato: «sapere che tutti coloro cui si sono impartiti comandi, tutti coloro che si sono minacciati di morte vivono e si ricordano (…), questa sensazione profondamente radicata e tuttavia indeterminata, poiché non si sa mai quando i minacciati passeranno dal ricordo all’azione, questa tormentosa, invincibile e indefinita sensazione di pericolo è appunto l’angoscia del comando» (373). È questa per Canetti la spirale paranoica del potere.

L’unica forma di liberazione dall’impulso a sopravvivere distruggendo ciò che è diverso da noi «è per propria natura una soluzione riservata solo a pochi» e consiste in «un isolamento creativo che faccia acquistare l’immortalità» (570): l‘arte, il sapere, la cultura come sopravvivenza che non si nutre della morte altrui, anzi moltiplica e ricrea la vita: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio del morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (336).

Canetti non giudica la massa, la descrive come qualcosa che costituisce il mondo, sia umano sia animale e vegetale. Valuta invece il potere, svelandone la vera e propria natura patologica. Ma in questa modalità del giudizio sembra permanere l’idea roussoviana delle masse che autolegittimano il loro potere nella volontà generale, masse che si autocelebrano come Volk e come fonte di una giustizia inappellabile. Masse che esprimono anch’esse quel desiderio di morte che «si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell’uomo per trarla alla luce» (87).
Il libro coinvolge a fondo. Un maestro della scrittura -Premio Nobel per la letteratura nel 1981- in delle pagine splendenti offre una comprensione radicale del potere, guarda il volto della Medusa e sopravvive.

Vai alla barra degli strumenti