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Morandi

Giorgio Morandi
1890-1964

Palazzo Reale – Milano
A cura di Maria Cristina Bandera
Sino al 4 febbraio 2024

Un rigore formale che attinge alle geometrie di Piero della Francesca ma con la tonalità tutta novecentesca di un immanentismo che si fa anch’esso distanza dagli eventi e dalla morte, come accade allo slancio verticale di Piero. Una prospettiva stratificata su più piani, attraverso forme e pennellate che all’inizio sembravano vicini alla Metafisica e al Realismo magico e poi divennero altro, divennero il sacro che dalle tele di Morandi spira.
Una luminosità fredda e antica si fa forma nelle fronde immobili, in un dolore oggettivo, nelle conchiglie, nei fossili, negli oggetti che si raggrumano e producono nel loro tacere luce. È un mondo fatto di geometrie, di parallelepipedi, di paesaggi «inameni», come li definì Roberto Longhi. Un mondo abitato da una forza di gravità interiore che stringe sempre più gli oggetti gli uni con gli altri, rendendo fermo lo spazio.
Giustamente la curatrice della mostra milanese afferma che in Morandi «la  luce ha un’incidenza metafisica. Lo spazio non è misurabile né percepibile» e nelle opere ultime la sua è «una materia che sta scomparendo». Una materia che si dissolve nella pienezza dell’essere. Morandi lo intuì e scrisse che «quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose».

Morandi. Natura morta, 1918-1919

L’arte di Morandi mostra tale essenza, dispiega la potenza della materia e del silenzio. Nessun umano appare nei suoi quadri. Anche per questo offrono la pace della materia che in un suo intervallo sarà stata anche protoplasmatica, vegetale e animale, sarà stata materia artificiale e macchinica. Ma a rimanere sarà la materia minerale e cosmica, la sua potenza. Rimarrà la materia e basta. Non più gli umani, materia miserrima dentro il cosmo, e neppure soltanto gli altri animali, vertebrati o invertebrati, di terra o di mare, volatili e insetti. Nemmeno le piante, i fiori, il grano. Rimarrà soltanto la materia, le rocce, le lave. E le stelle. La pura luce, la loro luce. Le trasformazioni elettromagnetiche che invadono di fulgore lo spazio silenzioso e perfetto nel quale di tanto in tanto la materia si raggruma in polvere, pianeti, astri. Qui non c’è sofferenza. Non c’è mai stata. Nulla nasce e nulla muore. E il tempo accade senza posa nel movimento delle masse e nella potenza dell’energia.

Morandi. La strada bianca, 1941

[L’immagine di apertura è una Natura morta del 1957. Le ultime righe di questo testo sono già state utilizzate da me in altre pagine del sito, parlando della musica di Jean-Philippe Rameau, di un film di fantascienza (Life, 2017), di una lezione alla Scuola Superiore di Catania. Si tratta infatti di una concezione della materia/luce del tutto affrancata da ogni antropocentrismo, una tesi per me fondamentale]

Natura morta metafisica

Carlo Carrà
Milano – Palazzo Reale
A cura di Maria Cristina Bandera
Sino al 3 febbraio 2019

Si viene accolti da Strada di casa (1900), un piccolo magnifico dipinto in movimento. Tutta in moto è infatti l’arte di Carlo Carrà, che fu tra i più convinti sostenitori del Futurismo, come testimoniano molte opere e la gigantografia che lo vede ritratto a Parigi nel 1912 insieme a Marinetti, Russolo, Boccioni, Severini. Il movimento del chiaro di luna (1910) è uno dei quadri più riusciti del periodo, fatto di strutture verticali che si addensano nello spazio con la forza del colore. Il particolare utilizzo del colore è uno degli elementi costanti dell’opera di Carrà, con la sua intensa presenza al confine tra naturalismo e immaginazione.
Un colore che crea città, umani, mare, case, cieli. Ai luoghi l’artista dedica un’attenzione profonda, creando una pittura urbana e insieme corporea, marina, vegetale. Luoghi naturali e luoghi costruiti. È ben presente la lezione di Cézanne, con  le case e i tetti immersi nella vegetazione. Ogni forma è scandita, si staglia, parla. Davvero «gli elementi architettonici subordinano a sé tutti i valori figurativi di forma e colore», come Carrà con chiarezza disse.
Ai miei occhi l’apice di questo artista è il periodo metafisico. La metafisica di Carrà è un cubismo raffinato, pulito, luminoso. Natura morta metafisica (1919, qui sopra) immerge nella materia come ombra e come luce dentro le quali abita il corpomente umano, circondato e intriso di oggetti perfetti, che sono una cosa sola con i colori, le forme, la vibrante geometria, il divenire.
Poi Carrà cercò e percorse una strada tutta sua, intessuta di corpi dentro l’aria, palpitanti nello spazio, intramati con i luoghi, con la luce. È quanto testimoniano le opere sue forse più celebri: Il pino sul mare (1921, qui accanto), Dopo il tramonto (il faro) (1927), Cavallo sulla spiaggia (1952), le cui costanti sono l’inoltrepassabile solitudine e la potente malinconia che emergono anche nei versi di Ungaretti, del quale Carrà fu amico.
Come questi: «Balaustrata di brezza / per appoggiare stasera / la mia malinconia» (Stasera [1916] da «L’Allegria», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori 1977, p. 31).
O questi altri: «Cercata in me ti ho a lungo / Non ti trovavo mai, / Poi universo e vivere / In te mi si svelarono. // Quel giorno fui felice, / Ma il giubilo del cuore / Trepido mi avvertiva / Che non ne ero mai sazio. // Fu uno smarrirmi breve, / Già dita tue di sonno, / Apice di pietà, / Mi accarezzano gli occhi. // Davi allora sollecita / Quella quiete infinita / Che dopo amare assale / Chi ne godé la furia» (Soliloquio I [1969], da «Nuove», ivi, p. 322).

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