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Parthenope

Il tempo scorre accanto al dolore
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
7 novembre 2024
pagine 1-4

L’epigrafe è tratta anche stavolta da Céline, come accaduto per La grande bellezza: «Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto».
In questo film, come nell’esistenza, non ci si può che perdere poiché la poetica di Sorrentino è fatta di primi piani e insieme di immagini che si aprono al cielo e alla terra sconfinati, è fatta di fotogrammi tra di loro irrelati ma intensissimi, è fatta di salti onirici e di accadimenti grotteschi e surreali. Una poetica che qui vuole raccontare ciò che non è possibile dire.
Parthenope è infatti un film impossibile poiché ha l’intenzione e l’ambizione di svelare l’essenza della donna e l’essenza di Napoli. Due entità non svelabili, incomprensibili sempre, avvolgenti e tremende, tenere e cupe, carnali e astratte. Barocche.

Sempre su Il Pensiero Storico è uscita ieri (10.11.2024) una sapiente riflessione del suo direttore, Danilo Breschi, la quale affonda nel mito e restituisce il film nel profondo: Napoli si mostra anfibia allo sguardo di Sorrentino. Alcuni amici napoletani hanno invece stroncato l’opera pur riconoscendone il valore formale.
Per chi, come me, ritiene che l’arte cinematografica sia pura forma, questo film la incarna perfettamente ma comprendo che possa anche apparire da altre prospettive un film insostenibile. Come scrive Giuseppe Frazzetto, in un articolo che coglie per intero la dimensione teorica di Parthenope, «molti ne sono affascinati, mentre altri lo giudicano arrogante, perfino repellente. Ma non è il destino di ogni teoria, di ogni sequenza di sguardi punti vista trasalimenti intuizioni, neutre o discorsive, costruite o irrazionali?» (Sequenza per Parthenope, in segnonline, 29.10.2024).

Palermo 2024

Di tanto in tanto ho occasione di recarmi a Palermo, cosa che mi dà molta gioia. Si tratta infatti di una tra le più belle e contraddittorie città d’Europa, nella quale convivono fianco a fianco – praticamente strada accanto a strada – lo splendore di chiese, cattedrali, palazzi normanni e barocchi e la miseria di quartieri che sembrano essere stati appena bombardati. Uno di questi quartieri è stato da poco riqualificato. Si tratta della Marina, che ha al centro il Castello a mare; zona che per decenni è stata un insieme disordinato e sporco di macerie e che adesso scandisce tra la città e il mare uno spazio aperto, con specchi d’acqua, passeggiate, negozi. 

Tutto è nuovo e pulito ma trasmette una sensazione invincibile di artificiosità, lo spazio essendo stato riempito soprattutto di bar e ristoranti sin troppo alla moda. In ogni caso si tratta di un piccolo tratto di un fronte a mare assai più esteso, che richiederebbe non interventi cosmetici ma un vero ripensamento della città e del suo rapporto con il mare. Richiederebbe anche risorse finanziarie che i decisori politici nazionali preferiscono utilizzare in grande quantità per finanziare guerre e armi (nonostante la lettera e lo spirito dell’articolo 11 della Costituzione Repubblicana).
Altre strade di Palermo, che erano prestigiose e piacevoli, sono cadute nel degrado. In via Roma, l’arteria rettilinea che collega la Stazione centrale ai quartieri a ovest della città, un negozio su tre ha chiuso; saracinesche sprangate dappertutto; molti tra i negozi sopravvissuti sono drogherie venditutto, piene di ciarpame turistico. Sono locali gestiti per lo più da asiatici e da africani. Malinconia e sporcizia dappertutto.
Ma nelle stradine parallele e perpendicolari a via Roma pulsa ancora una città vera. In una piazzetta accanto a via Gagini un libraio accatasta tra il negozio e l’esterno 70.000 libri e riviste sugli argomenti più diversi. La qualità è bassa ma la passione del titolare e il fatto che si offrano e si acquistino libri di varie epoche regalano un sorriso.
Palermo è anche il manufatto edilizio incomprensibile che si vede qui sotto e che si trova nel Vicolo della neve all’alloro, una struttura che sembra nascere e finire nel nulla. E Palermo – come si vede nell’immagine di apertura – è anche un insieme armonioso di palme, rovine, castelli, mare e navi. Tutto insieme.

Qui sotto l’ingresso di Palazzo Steri, sede del Rettorato dell’Ateneo del quale sono stato di recente ospite per conversare su temporalità e metamorfosi con Salvatore Tedesco, Chiara Agnello, Rosaria Caldarone, Peppino Nicolaci e altri amici nella magnifica sede dell’Orto Botanico dell’Università. 

Una quantità innumerevole di specie vegetali e animali occupa gli ettari di questo luogo. Come viventi, la loro trasformazione è continua. Ma anche le pietre, i palazzi, i quartieri vivono una incessante metamorfosi. Perché, impalpabile e sfuggente, il tempo è motore della corruzione e della fine e anche per questo è l’adesso e l’ovunque, «il tempo sembra essere presente in ogni cosa, sulla terra e nel mare e nel cielo» (Aristotele, Phys., IV, 223a). Realtà e metamorfosi sono la medesima struttura, come le città mostrano agli occhi e alle gambe di chi dentro esse cammina.

«Dentro più dentro dove il mare è mare»

Giovedì 18 maggio 2023 alle 16.00 continueremo a dialogare sull’opera di Stefano D’Arrigo.
Nella sede del Centro Studi di Catania, l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza infatti il secondo incontro del ciclo dedicato all’autore di Horcynus Orca.
A parlarne saremo io e il Prof. Fernando Gioviale, profondo conoscitore di D’Arrigo, al quale ha dedicato un libro pieno di dèi: Crepuscolo degli uomini. Attraverso D’Arrigo in un prologo e tre giornate.
Horcynus Orca è anche la saggezza millenaria della vanità di ogni cosa, «il mare della Nonsenseria», «un mare lordo di fere nell’inutilità di tutto», un mare che c’era prima degli umani, che rimarrà quando degli umani si sarà persa ogni memoria, un mare che continuerà a diventare ciò che è, ciò che è sempre stato: sostanza e metafora della morte.
Il romanzo di D’Arrigo si chiude nel segno da cui era nato, che lo intesse e lo rende esteticamente sublime, proprio nel senso kantiano di qualcosa che attira e che spaventa, che sgomenta perché attrae, che coinvolge perché spaura. «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

 

 

Il caso Horcynus Orca

Anche quest’anno l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza un ciclo di incontri dedicato a Filosofia e Letteratura.
Dopo Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020), Céline (2021) e Manzoni (2022) quest’anno leggeremo Stefano D’Arrigo, i suoi due romanzi.
Il primo incontro si svolgerà giovedì 27 aprile 2023 alle ore 16.00 presso il Centro Studi di Via Plebiscito, 9 a Catania. Cercherò di presentare la figura di D’Arrigo e il peculiare luogo che occupa nella letteratura contemporanea italiana ed europea.
«Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» si afferma in Cima delle nobildonne. E quello che succede in Horcynus Orca sembra accadere nello spazio profondo del mare e del mito. È vero ma in questo romanzo ad accadere siamo noi, con il nostro andare nel tempo e con la nostra morte. Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. La lingua che lo intride è antica, espressionistica, avvolgente e lontana.

D’Arrigo

Il mare e la morte nell’opera di Stefano D’Arrigo
in Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre-ottobre 2022
pagine 147-151

Indice
-Il mare, la morte
-Omero / Heidegger
-L’Orca, la materia
-La potenza della femmina
-Un lessico arcaico, splendente e magico
-Il mare della Nonsenseria

Dentro le spire dello spazio e i gorghi del tempo; dentro una lingua antica, espressionistica e lontana, «quell’isola macerata e persa, la Sicilia» ha generato lungo i secoli eventi, parole e umani sorridenti e solitari. Alla fine ha generato il mare, ha generato la morte. La morte e il mare che sono la stessa cosa, il secondo rende visibile la prima.
Alla fine la Sicilia ha generato l’Orca di Stefano D’Arrigo, emblema fisico e materico dell’essenza del vivente, che è appunto il morire, il quale comincia sin dal primo istante dello stare al mondo.
Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. Omerico per il mare e per i nomi, per la struttura epica che tutto lo pervade, perché romanzo marino e occidentale. Romanzo heideggeriano perché incentrato sull’«essere che passa per la Morte», sulla morte come necessità del vivente e destino cosmico.
Horcynus Orca è soprattutto una macchina linguistica che senza requie inventa la propria strada e la percorre con gli strumenti della parola, delle parole inventate, ricreate, rese una cosa sola con il reale. Un lessico arcaico, splendente e magico nel quale un siciliano ritrova suoni, verbi, avverbi, aggettivi della propria storia, quali: incantesimato, scandaliare, pìccio, per la madosca, tappinara, nisba; nel quale i costrutti e il vocabolario sono a ogni pagina inventati, creati, reinventati, metabolizzati, metamorfizzati. Parole dentro le quali si sprofonda: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

[La foto di D’Arrigo è di Ferdinando Scianna (1988)]

Raccontami

Cùntami
di Giovanna Taviani
Italia, 2021 (Festival del Cinema di Venezia 2021)
Con: Mimmo Cuticchio, Vincenzo Pirrotta, Gaspare Balsamo, Mario Incudine, Giovanni Calcagno

Il mare che scintilla. I prati verdi e le terre brulle. I vicoli di Partinico, le cattedrali di Palermo. La potenza del vulcano, il turchese di un cielo senza fine. Le torri di Paternò, i teatri abbandonati. Le spiagge in lontananza, le saline di Trapani, le colline che seguono a colline. E dentro tutto questo i Paladini, i cantastorie, Ulisse e Polifemo, Bradamante e la follia di Orlando, Don Chisciotte e il suo scudiero. Il canto, il senso, le parole. E la luce. La Luce magnifica e totale della Sicilia ad avvolgere e coprire le tenebre profonde, la solitudine, l’incanto, la rassegnazione al dolore che gli umani si infliggono l’uno contro l’altro.
La cadenza altalenante di Mimmo Cuticchio sembra raccontare il respiro stesso della terra, quella cadenza appresa dal suo maestro Peppino Celano e che i suoi allievi modulano ognuno in modo differente. Coinvolgente è infatti, quasi plastica visibile toccabile, la follia di Orlando nel corpo di Pirrotta, il sogno del Quijote nei gesti di Balsamo, le sofferenze d’amore di Polifemo per Galatea che diventano l’urlo nella notte di Calcagno.
Il furgone rosso che va per la Sicilia portando dentro il vento i pupi secolari di Cuticchio si perde dentro i rovi del tempo, nella immobilità sempre rinnovata delle marionette che guidano il puparo almeno quanto il puparo guida loro. Le «storie popolari» costituiscono in realtà la potenza ancora del mito, della più profonda forma letteraria che le culture umane abbiano creato per dire i loro sogni, i dolori, le guerre, gli amori.
Giovanna Taviani descrive tutto questo con l’empatia di chi si è innamorato dell’Isola e delle sue leggende, con la raffinata cadenza del montaggio che da sé crea le proprie storie, con una fotografia smagliante, epica e avvolgente. Un bellissimo film che restituisce per intero il cùnto che la vita dei siciliani da sempre rappresenta.

La carne, il tempo, la morte

Le sorelle Macaluso
di Emma Dante
Italia, 2020
Con: Maria Rosaria Alati, Serena Barone, Rosalba Bologna, Eleonora De Luca, Donatella Finocchiaro, Laura Giordani, Simona Malato, Alissa Maria Orlando, Susanna Piraino, Anita Pomario, Ileana Rigano, Viola Pusateri
Trailer del film

La carne delle labbra giovani che si adornano di rossetto per baciare altre vite, il mare, lo spazio. La carne che divora il cibo, in una disperata ricerca di salvezza. La carne che si disfa, si raggrinza, si ferma. Come quella di animali dissezionati in un laboratorio.
Il tempo che trionfa nelle pareti a poco a poco disadorne delle case, sulle quali cornici, foto, pitture lasciano l’alone della luce, ferendo in questo modo la vista con l’assenza. Il tempo che è visibile nella carne che trionfa di infanzia e giovinezza e poi – ancora una volta –  si disfa, si raggrinza, si ferma.
La morte che le colombe annunciano sin dall’inizio in quel loro caos di colori, di ali, di piatti dove beccano la vita. Colombe ovunque, colombe nei cieli e nelle stanze, colombe nel terrazzo e dentro la memoria.
Colombe che accompagnano un Pinocchio che sembra invecchiare anch’esso come invecchiano le sorelle Macaluso nella luce e nella morte di Palermo. Dopo essere state vita assetata, sostanza raggrumata, desiderio molteplice, acqua, follia e letture.
È il destino individuale e collettivo dei corpi che si sfidano, si intrecciano, si abbracciano, si amano, si feriscono. È il mito della Madre disseminata nelle sorelle e nella loro differenza.
La carne percepita dentro l’anima.
Il tempo che è memoria delle passioni che furono, che sono e che saranno.
La morte che arriva dentro il mare, nel suo sfondo, nell’orizzonte intravisto dalla bara.
La carne che nel tempo transita verso il suo finire.

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