Manlio Sgalambro
Trattato dell’età
Una lezione di metafisica
Adelphi, 1999
Pagine 130
Il fondamento metafisico di questo trattato è il fatto che la realtà, tutta la realtà, è distruzione. Esattamente «una distruzione continuata. […] È come se alla realtà corrispondesse (o qualcosa facesse corrispondere) quel minimo indispensabile affinché la ‘distruzione’ possa compiersi. L’individuo vive quel tanto che è necessario per morire. […] Le cose hanno quel tanto di realtà che consente loro di essere distrutte» (pp. 10-11). Un’affermazione del tutto corretta e lontana da ogni ‘pessimismo’ o atteggiamento ‘apocalittico’, come con chiarezza Sgalambro scrive nelle pagine finali: «‘Io non sono un apocalittico, ma un termodinamico’, afferma l’esponente della conoscenza tarda, lo spirito freddo, colui che abbiamo chiamato il ‘vecchio’; ‘La vecchiaia sopravviene per perdita di calore’, Stoicorum veterum fragmenta, B, f, 769» (106).
L’errore di Sgalambro sta nel rifiutare per questa dinamica fisica e metafisica il nome di divenire. Che «la realtà si disgreghi, non ‘diviene’. Non c’è divenire» (12) significa semplicemente chiamare in un modo diverso –disgregazione– la potenza della materia: la termodinamica appunto, l’entropia, il fatto che niente sia e tutto divenga.
Chiarita e rimossa questa opzione lessicale, il trattato va al nucleo reale del tempo e dell’età, che del tempo è un altro nome. Il tempo reale è per Sgalambro non il tempo vissuto, la durata interiore, il flusso di una coscienza, tutte forme queste di un tempo antropocentrico e come tale infimo e inferiore, ma il tempo «esteriore e trascendente […] tempo ‘inumano’» (16), il tempo della Φύσις, dell’intero, il tempo «di una roccia, o quello che si oggettiva nella scorza rugosa di un albero» (ivi), il tempo oggettivo, il tempo del cosmo:
Il tempo non serve a niente, ma siamo noi che ‘serviamo’ il tempo quando esso, dissoltasi la durata, sopravviene come tempo immutabile. Il tempo non va avanti né indietro. Il tempo è pieno ma di se stesso. […] Il tempo è della natura delle cose, non delle coscienze (122).
L’essere, il tempo sono dunque il κόσμος , o – come si esprime Sgalambro – il ‘sistema solare’. Il cosmo la cui legge è appunto la termodinamica, l’entropia, l’incessante distruzione e trasformazione di ogni ente, evento e processo.
Dentro questa ontologia gli umani e tutti i viventi sono poco più di niente, il risultato di una mescolanza di liquidi che produce qualcosa di simile alle feci:
Adorare le proprie fetide evacuazioni o i propri parti è la stessa cosa, metafisicamente parlando. […] Una malattia, un’infermità che la specie si procura semplicemente col riprodursi, viene ritenuta in maniera fuorviante il suo scopo eterno. […] Mia cara, noi sappiamo invece – vero? -che l’amore raggiunge il suo apice allorquando è ‘sterile’ (63).
Amore sterile che viene definito come «l’estrema purezza che si astiene dalla vita, che non dà seguito a questa orrida malattia!» (85). Il filosofo afferma di detestare «quell’atto genitale da cui germina la vita, anche se vi ho ceduto tante volte»1 (64) e formula una assai chiara valutazione della nostra specie:
Devo dire che la malattia più perversa, un flagello più iniquo della peste, è quella che si trasmette col seme e, generando, riempie di ‘dannati’ la terra. Questo è il virus più nefando. Portatori di questa infezione mortale sono coloro nei quali trionfa ‘rebellio membri genitalis contra imperium voluntatis’ Baio, De peccato originis et equa remissionis, cap. III (41-42).
A questo male si contrappone «l’uomo di conoscenza» (il modo in cui Sgalambro definisce il filosofo), in particolare il vecchio e la sua possibilità di un «amore tardo», fatto di parole e di conoscenza oltre che della calma forza del corpo e delle capacità delle quali è ancora intriso. L’amore tardo è in effetti il grande tema, insieme al tempo e alla vecchiaia, di questo trattato.
Gli umani sono amortali poiché «io non muoio, ripeto. Io sono amortale. La morte, la mia morte, è una fola raccontata per impaurirmi. È solo per gli altri che muoio. Sono essi che sanciscono la mia morte nello stesso tempo in cui affermano: è morto» (83). Se questo è vero per tutti i membri della specie, lo diventa in modo peculiare per il vecchio, al quale l’età aggiunge una identità teologica, sacra: «Il ciclo riproduttivo, quello lavorativo, quello sociale sono conclusi per sempre. La ‘vita’ è finita. Ora può cominciare a vivere. Ecco perché in ogni suo atto si coglie il numinoso, come se egli stesso fosse il numen» (110).
Significativo è che la saggezza antica e schopenhaueriana di Sgalambro riconosca tra i suoi maestri non soltanto Kant e Hegel ma anche un nome che in scritture e pensieri come questi fa l’effetto straniante di una luce proveniente da altre stelle: «Le Logische Untersuchungen, quest’opera che – voi lo sapete – è la pietra di paragone di ogni mia ambizione filosofica» (111).
Evidentemente Husserl insegna la filosofia anche a chi, come Sgalambro, pensa in forme e modi così diversi da quelli che Husserl definisce strenge Wissenschaft, scienza rigorosa, e così somiglianti, invece, allo sfogo di un vecchio. Una filosofia che troppo risente di tale vecchiezza non nell’indicare con fermezza che il Sole morirà e che ogni conformazione delle cose è, appunto, «una distruzione continuata» ma nel non sentire che questa è una notizia luminosa, che questa è la verità.
Nota
1. In effetti non soltanto vi ha ceduto ma ha generato anche cinque umani, a conferma della separazione – da Sgalambro teorizzata – tra la vita e l’opera del filosofo; cfr. D. Miccione, «I molti nomi del filosofo», in Manlio Sgalambro. Breve invito all’opera, LetteredaQALAT, Caltagirone 2017.