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Poiesis / Techne

Hangar Bicocca– Milano

Chiara Camoni
Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e Fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentasse

A cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli
Sino al 21 luglio 2024

Nari Ward  – Ground Break
A cura di Roberta Tenconi e Lucia Aspesi
Sino al 28 luglio 2024

Chiara Camoni cerca, raccoglie, plasma, inventa, progetta e costruisce la materia vegetale e minerale. La materia bella. La materia – rami, marmo, sassi, fiori – trasformata in forme religiose, mitologiche, sacre.

Il religioso è un sentimento che si esprime anche in forme istituzionali, in dottrine più o meno rigorose e dogmatiche, in rivelazioni che il fedele può interpretare ma non respingere. Il mitologico è la potenza del racconto che spiega in forme molteplici, contraddittorie, ironiche e violente l’origine del cosmo, il derularsi della materia, l’incarnazione del divino, l’identità con esso dell’umano. Il sacro è l’enigma di un significato assoluto, perduto, sempre tenacemente ricercato e a volte trovato sia in interiore homini  sia nel cosmo, nella tonalità panteistica della sapienza.
Camoni esprime soprattutto quest’ultima dimensione attraverso il fiorire di alberi antropomorfici che diventano idoli ai quali anche accendere candele; attraverso il gioco simbolico di pavimenti a mosaico che sembrano resti di antiche basiliche dove si adora il cielo; 

attraverso marmi, argille, terrecotte che assumono forme zoomorfe come serpenti di pietra sinuosi tra le dee e i pavimenti; assumono soprattutto le forme di leonesse, di cani e di una bellissima, fiera, ieratica lupa.

Lo spazio di Chiara Camoni è tutto alla luce del giorno. Quello di Nara Ward è invece immerso in un buio dal quale emergono anche in questo caso forme e figure simboliche e apotropaiche. Sembrano quindi due mostre in apparente e in parte reale continuità. Ma rispetto alla freschezza materica di Camoni, Ward ripete di continuo il gesto di Duchamp, raccogliendo oggetti di uso quotidiano, elevandoli e trasformandoli in forme archetipiche. E quindi vediamo e osserviamo l’ennesima raccolta di rifiuti, di elettrodomestici, di sanitari. È una discarica plasmata in forme a volte anche pretenziose.
Pretesa che raggiunge il culmine della furbizia con la Home Smiles, una macchinetta per scatolette attraverso la quale – a dire del catalogo – «l’artista raccoglie e vende i sorrisi, offerti dai passanti che si specchiano all’interno di scatolette di latta che vengono poi sigillate» (pp. 23-24). Il fatto che poi questi ‘sorrisi inscatolati’ vengano venduti (a 15 € l’uno) a sostegno dell’organizzazione «Save the Children» aggiunge a questa banale imitazione della Merda d’artista di Piero Manzoni (1961) un’insopportabile patina di compassionevole conformismo.
L’insieme delle due mostre in corso allo Hangar potrebbe essere sintetizzato come un itinerario dalla sacralità della Terra alla ὕβρις della tecnologia, dalla ποίησις alla τέχνη.

In generale, e con riferimento all’opera di Ward ma anche di moltissimi altri artisti e performer viventi, si assiste sempre più all’inevitabile manierismo del contemporaneo. Forse sarebbe da auspicare un’avanguardia che compia opera di rottura con gli epigoni del XX secolo (il plagio di Ward da Manzoni fa anche tenerezza nella sua esplicita mancanza di creatività) ed esprima in forme riconoscibili, in forme altre, in forme distanti, una bellezza pura, metafisica. Senza però indulgere in classicismi e in nostalgie. È difficile, certo, ma ormai è necessario per evitare l’eterno ritorno dell’identico in numerose mostre, in troppi artisti. Una piccola traccia di questa possibilità è un’opera dello stesso Ward che si intitola Wishing Arena (2023); opera che viene presentata in questo modo: «l’artista si misura con l’architettura del sacro» (p. 14) e che nella sua struttura circolare e armonica permette di meditare mentre la si osserva. Torniamo così all’inizio, torniamo all’essenziale.

Manierismo del contemporaneo

Eva Marisaldi
Trasporto eccezionale

Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Diego Sileo
Sino al 3 febbraio 2019

Nell’opera di Eva Marisaldi sembrano vivere i «tre stati dell’arte» dei quali parla Giuseppe Frazzetto in Artista sovrano. Marisaldi è infatti insieme artigiana e sovrana. E la sua opera può essere designata come artistica solo perché una comunità di critici, di colleghi, di istituzioni e di visitatori la riconosce in quanto tale. A Marisaldi si attagliano perfettamente le categorie di Frazzetto poiché nelle sue opere, chiara espressione e prosecuzione del ready-made, «balena l’opposizione fra il modello coltivazione/allevamento e il modello caccia/raccolta. Anziché agire seguendo la crescita, lo sviluppo, la ‘coltivazione’ (=cultura) l’artista del montaggio sembra porsi come un cacciatore/raccoglitore, operante su un territorio di materiali culturali già pronti» (Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore 2017, p. 83).
Negli spazi del Padiglione d’Arte Contemporanea si susseguono infatti bracci meccanici guidati da software; post-it e carte da parati; lastre di Polaroid; piccoli oggetti simili a giocattoli e raffiguranti città che vanno da Siviglia a Tokyo, da Gallipoli a Miami, con relative piantine; calchi in gesso; (bei) disegni con sopra sassolini; specchi sul pavimento; disegni spray su tessuto; due cucchiai che combattono tra loro come antichi pupi; lampade rivolte alle pareti; polvere di ferro su una pedana magnetizzata; pantaloni semoventi nella polvere; quattro grammofoni con puntine di carta; oggetti-onda; finte insegne di taxi poggiate a terra e illuminate; stampe a getto d’inchiostro che mostrano il talento grafico dell’artista; lamiere e grandi stampe in alluminio; tende costruite con stampanti; cartoni e suoni di risacca su una spiaggia; scarafaggi di plastica qua e là.
I numerosi video mostrano carrozzine che si muovono da sole in un porto accanto al mare; iguane accompagnate da brani musicali; oggetti animati, in particolare sassi che sono presenti in varie installazioni; viaggi assemblati come videogiochi; autoscontri con al centro un attore accoccolato e la sua voce narrante; forme grafiche vagamente impressioniste.
Nella mostra c’è moltissima inventiva ma anche una scarsa innovazione. Ci si sente insomma immersi nel manierismo del contemporaneo. In ogni caso, e si tratta forse dell’elemento più significativo, tutto questo è espressione, forma, testimonianza della gratuità, di un’arte che non serve a nulla poiché a nulla l’arte deve servire. Come accade nelle passioni, il significato dell’arte sta nel significante. 

Gelo

Loro 1
di Paolo Sorrentino
Italia, 2018
Con: Toni Servillo (Silvio), Elena Sofia Ricci (Veronica), Riccardo Scamarcio (Sergio Morra), Euridice Axen (Tamara), Fabrizio Bentivoglio (Santino Recchia), Katia Smutniak (Kira), Roberto De Francesco (Fabrizio Sala), Anna Bonaiuto (Cupa Calafa), Alice Pagani (Stella)
Trailer del film

Al di là di Albert Spica. Al di là del personaggio più volgare che sinora avessi incontrato al cinema. Il protagonista de Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante è un gangster analfabeta e violento ma genuino nella sua volgarità. Invece loro sono cartapesta, baratro, dipendenza e televisione. Sono statue femminili pronte a scopare, ministri pronti a servire e a tradire, lenoni sempre in moto, magnaccia, paraninfi, papponi, mezzani. Dove la merce sono apparentemente i corpi ma nella sostanza è il potere. È sottile e solare la soddisfazione che si prova a far agire un proprio simile ai nostri comandi. Lo si può fare con la mediazione dell’intelligenza, lo si può fare con la mediazione del denaro. E nel loro mondo la donna è una preziosa e arrapante banconota da spendere nel mercato dell’autorità.
Due volte vi compaiono altri animali. Un ratto che attraversa Roma mentre il corteo delle mondane va in pellegrinaggio dal Presidente e la scena diventa volo di un camion della spazzatura che diffonde tutt’intorno il letamaio. E soprattutto la pecora della scena iniziale, che nella solitudine della grande villa sarda attraversa il prato, entra nella casa, osserva con attenzione lo schermo perennemente acceso dal quale l’ennesimo Mike Bongiorno lancia le sue allegrie. Intorno alla pecora telespettatrice la temperatura scende, scende, sino a diventare gelo. Il freddo del tubo televisivo che ghiaccia ogni intelligenza. E la uccide.
L’epigrafe de La grande bellezza era tratta dal Voyage di Céline: «Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato, è un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non si sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi, è dall’altra parte della vita». Quella a Loro 1 è di Giorgio Manganelli, tratta dalla sua prefazione a Pinocchio: ««Tutto documentato, tutto arbitrario».
Danze, movimenti, genitali al vento e alla luce. Da tempo a Sorrentino interessa soltanto la pura forma dello spazio, il fremente andare degli umani dentro i luoghi. Sempre più artificioso, sempre più poietico. Un magnifico manierismo della corruzione.

Loro 2

Figli

Stoker
di Chan-wook Park
Con: Mia Wasikowska (India), Matthew Goode (Charlie Stoker), Nicole Kidman (Evelyn Stoker)
USA, Gran Bretagna 2013
Trailer del film

India compie 18 anni. Lo stesso giorno suo padre muore in un incidente d’auto. Mentre la famiglia è in lutto si presenta lo zio Charlie, fratello del padre. India sente i suoi pensieri, che la affascinano e la respingono. Silenziosa, intoccabile e determinata, scoprirà a poco a poco chi è lo zio, quello che ha fatto. E se ne libererà, nel nome del Padre.
La ferocia di film molto densi come Sympathy for Mr. Vengeance, Oldboy e Sympathy for Lady Vengeance si sublima e stempera nella violenza manieristica e interiore di Stoker, che intreccia vampirismo psicologico, lucida follia, elegante delirio.
Si tratta di un film/iniziazione, un’opera sull’educazione ai sentimenti e soprattutto sull’assassinio che i figli compiono nei confronti degli adulti: allontanandoli, ricattandoli, seducendoli, amandoli, sostituendoli nel tempo e nello spazio. La madre di India si chiede per quale ragione a un certo punto della vita si facciano dei figli.
Stoker è anche un sapiente, compiaciuto, coinvolgente esercizio di stile, nel quale ogni inquadratura ha una logica estetica e narrativa impeccabile. E gelida.

 

Orizzonti e didascalie

Alberto Garutti. didascalia / caption
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Paola Nicolin e Hans Ulrich Obrist
Sino al 3 febbraio 2013

C’è una manieristica vivacità nel contemporaneo. Emerge con chiarezza in questa mostra che ripercorre l’opera di Garutti scultore, architetto, fotografo, performer. Matasse di nylon lunghe quanto le distanze tra i luoghi dove l’artista vive; piante di ficus che dovrebbero segnare la continuità tra l’interno del PAC e il suo esterno-giardino; strati di moquette ritagliati sull’alternarsi dei mobili e del pavimento nella casa di Garutti; statue di madonne che si accendono sino a raggiungere la temperatura del corpo umano. E così via. Un evidente narcisismo, come se il mondo si potesse racchiudere nelle intenzioni dell’artista.
Più oggettive sono le installazioni che dialogano con le città e dedicate agli abitatori delle strade, ai ragazzi che si innamorano in piccoli teatri, ai bambini che nascono e che nascendo producono l’accensione di alcune luci mediante dei pulsanti posti nel reparto maternità di un ospedale.
Le opere più riuscite sono Didascalia -che dà il titolo alla mostra- e Orizzonte.
La prima raccoglie nel corridoio centrale del PAC migliaia di fogli colorati e accatastati, con stampate le didascalie in varie lingue delle installazioni che Garutti ha sparso per il mondo. Il visitatore può prendere tutti i fogli che vuole e portarseli a casa.
Orizzonte occupa una lunga parete con 19 «lastre di vetro di diversi formati e dimensioni, dipinte sul retro, per metà con pittura nera e per metà bianca» (Catalogo/Guida alla mostra, p. 35). L’effetto è lo spazio che si fa ritmo poiché la linea che divide la metà bianca da quella nera di ogni opera è posta sempre alla stessa altezza e sono le due sezioni colorate a scandire come musica la fuga dei quadri. Il moto e il suo divenire sembrano quindi non finire.

Arcimboldo

Palazzo Reale – Milano
A cura di Sylvia Ferino-Pagden
Sino al 22 maggio 2011

Nei modi suoi propri -e quindi palesi, visibili, materici- l’arte figurativa è sempre stata compagna delle grandi narrazioni filosofiche, religiose, scientifiche. C’è un artista che di sé e della propria opera ha fatto un’espressione tra le più riuscite e originali di questo incrocio di forme estetiche e concettuali: Arcimboldo.

La recensione continua su Vita pensata 11 – Maggio 2011

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