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Depravazione

Kreuzweg – Le stazioni della fede
di Dietrich Brüggemann
Germania, 2017
Con: Lea Van Acken (Maria), Franziska Weisz (la madre), Lucie Aron (Bernardette), Moritz Knapp (Christian), Florian Stetter (Padre Weber)
Trailer del film

Maria fa parte di un movimento cattolico fedele ai dettami della Chiesa preconciliare. L’adolescenza negata dalla madre fanatica e la vita in un ambiente che vede ovunque il peccato distruggono il corpomente della ragazza. I sacramenti – confessione, cresima, eucaristia – diventano per lei mortali.
Un film veramente cristiano e dunque immerso in una concezione sacrificale della vita; permeato di un’intransigenza dottrinaria che ignora, nega e maledice ogni differenza; intessuto di irrazionalità, perversione e follia; caratterizzato dal profondo egoismo di chi dirige ogni propria azione in vista dell’agognato paradiso; scandito dall’arroganza (nel loro gergo «superbia») che pretende di salvare gli altri giudicandoli a priori infetti; pervaso dalla colpa e dal peccato.
Le parole definitive su questo fenomeno le ha pronunciate naturalmente Friedrich Nietzsche, sia a proposito del libro sacro della setta sia dell’essenza ultima del cristianesimo:

«Si prenda in mano un libro veramente pagano, per esempio Petronio, in cui in fondo non si fa, non si dice, non si vuole e non si giudica niente che non sia, secondo un criterio cristianamente ipocrita, peccato, anzi peccato mortale. E tuttavia, che senso di benessere nell’aria più pura, nella superiore spiritualità dell’andatura più veloce, nella forza liberata e traboccante, sicura del proprio avvenire! In tutto il Nuovo Testamento non si trova una sola bouffonerie: ma con ciò un libro è confutato…Paragonato a quel libro, il Nuovo Testamento rimane un sintomo di una cultura decadente e della corruzione -e come tale ha operato, come fermento della putrefazione»
(Frammenti postumi 1887-1888, 9[143], trad. di S. Giametta, «Opere» III/2, Adelphi, pp. 70-71).

«Ich heisse das Christenthum den Einen grossen Fluch, die Eine grosse innerlichste Verdorbenheit, den Einen grossen Instinkt der Rache, dem kein Mittel giftig, heimlich, unterirdisch, klein genug ist, – ich heisse es den Einen unsterblichen Schandfleck der Menschheit.
‘Definisco il cristianesimo l’unica grande maledizione, l’unica grande e più intima depravazione, l’unico grande istinto di vendetta, per il quale nessun mezzo è abbastanza velenoso, furtivo, sotterraneo, meschino -lo definisco l’unica immortale macchia d’infamia dell’umanità’
(Der Antichrist. Fluch auf das Christenthum, § 62; L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, trad. di Ferruccio Masini, «Opere» VI/3, pp. 260-261).

Kreuzweg significa via crucis. Il film è infatti scandito in dodici stazioni formalmente autonome anche se legate tra di loro. Dodici piani sequenza nella cui immobilità vortica l’immobilità del male che il cristianesimo è sempre stato. Un film dell’orrore.

Rosso

Irréversible
di Gaspar Noé
Francia 2002
Con: Vincent Cassel (Marcus), Monica Bellucci (Alex), Albert Dupontel (Pierre), Philippe Nahon (Philippe)
Trailer del film

Un solo colore, il rosso. Lo percorre tutto fino agli ultimi secondi che si aprono sul verde dei prati e sull’azzurro del cielo. Un sogno di riscatto dall’incubo che questa creatura è. Questa, l’umano. Immerso qui, in questo film, in una chiara rappresentazione dell’Inferno. Sono gli stessi colori di Mark Rothko e di Hieronymus Bosch, lo stesso incomprensibile e inesorabile disordine di quest’ultimo, gli oggetti che si fondono tra loro, i viventi che si ibridano con gli oggetti, i luoghi che si sciolgono, le prospettive che crollano, il vortice, il vortice dovunque, come un immenso fluire delle cose verso un’irredimibile sporcizia.
E poi la furia che cancella ogni linguaggio. Anche l’unico personaggio consapevole, Pierre, quando dialoga in metropolitana con la sua ex compagna Alex e il nuovo uomo di lei, Marcus, si esprime seguendo il singulto di banalità, desideri e frammenti degli altri due. Ma sarà lui, Pierre, nella scena conclusiva posta all’inizio del film a compiere il gesto supremo del dare la morte per vendetta, moltiplicando così la furia dentro la propria calma.
«Il tempo distrugge tutto» si dice nel primo dialogo e si ripete nella formula che chiude il film. Il tempo irreversibile, per fortuna. Il tempo grande liberatore, oltre che scultore. Poiché se l’umano distrugge ogni cosa, anche ciò che ama, nella pulsione profonda che lo guida verso il male e la morte, il tempo distrugge il male, dal quale il film è pervaso in un modo che definire fastidioso è eufemistico. 12 minuti di efferato stupro fanno precipitare il film nella mediocrità e le ambizioni nel compiacimento.
Tutte le sue scene si muovono, nella prima parte addirittura fremono, al confine della perversione. Che la vicenda venga montata e raccontata partendo dalla fine tenebrosa per tornare al suo inizio dentro un prato, dove delle signore leggono al sole e dei bambini giocano nella luce, è la conferma che la Caduta è irreversibile. E le storie umane abitano in questa Geworfenheit, nell’autenticità della loro miseria.

Proust / Il male

Antoine Compagnon
Proust tra due secoli
Miti e clichés del decadentismo nella Recherche
(Proust entre deux siècles, Éditions du Seuil 1989)
Traduzione di Francesca Malvani con la collaborazione di Pierfranco Minsenti
Einaudi, 1992
Pagine XXIII-329

«Entre-deux», il tra, lo spazio della molteplicità e della differenza, il tempo che coniuga e che attende. È questa la chiave di lettura della Recherche proposta da Antoine Compagnon. Il romanzo di Proust, infatti, è intessuto di simmetrie, costituito di rimandi e paralleli che poi però lo scrittore fa saltare, deviare, li perde, per ricongiungerli infine in una imprevedibile sintesi. La stessa scrittura di Proust, che accumula paperoles, personaggi, vicende, al di là del progetto iniziale e delle prime redazioni, testimonia di una vicenda artistica e teoretica che somiglia a un labirinto, che è un labirinto.
Come si situa quest’opera nella storia culturale europea? A tale domanda Compagnon offre una molteplicità di risposte, tutte comunque sotto il segno dell’entre-deux. La Recherche è romanzo ed è critica, è letteratura ed è filosofia. Vive nello iato fra tradizione e innovazione, fra continuità e rottura. «Proust non è né reazionario, né futurista» (p. 306) e anche per questo la sua opera rimane inclassificabile. Il suo è l’ultimo romanzo organico dell’Ottocento ed è insieme il primo grande romanzo sperimentale del Novecento. E ciò proprio in forza della sua costitutiva molteplicità, che rende impossibile riassumerlo sotto un unico segno.

Compagnon cerca di cogliere la duplicità del romanzo attraverso una serie di scandagli in alcuni dei suoi innumerevoli anfratti. Emerge così la centralità di Baudelaire nella costruzione dell’estetica proustiana, un Baudelaire significativamente accomunato a Racine come sintesi di misura ed eccesso, classicità e mutamento. Acquista quindi un significato non soltanto esistenziale il tema dell’omosessualità, del travestimento, dell’analogia tra ebrei e invertiti in quanto figure della compresenza, dell’ambiguità non riducibile a uno solo dei suoi componenti. Non è un caso che il personaggio più citato da Compagnon sia il barone di Charlus, e cioè l’autentico grande protagonista -dopo il Narratore- del romanzo.
La musica, in particolare Fauré; la lettura così intima del Rinascimento italiano; i lunghi inserti etimologici di Brichot; l’estetica militante di Mme de Cambremer; l’aggettivazione disuguale, sono solo alcuni dei temi nei quali emerge la molteplicità di prospettive del romanzo. Compagnon li analizza tutti con efficacia. Ma c’è un problema che consente più di altri di cogliere la profondità metafisica del romanzo. È il tema del male, che tutto lo pervade: «Nessuno potrà negare che il male regni nella Ricerca del tempo perduto» (p. 145)

Nella lettura di Compagnon il male non è per Proust qualcosa di ontologico, la natura non è malvagia, come invece pensa Baudelaire. Il male è, semplicemente, il desiderio. È la gratuità del desiderio sessuale, là dove esso manca di scopi, dove non è volto alla riproduzione: «Tranne che per gli angeli e gli ermafroditi, la sterilità si identifica alla ferocia. Per Proust, come per Baudelaire, l’amore, se non è riproduzione, è crudeltà: questo è il male fatidico» (p. 165). Ma sia Baudelaire sia Proust odiano la riproduzione sessuale. Ogni volta che nella Recherche appare una donna incinta il tono è immancabilmente sarcastico, la gravidanza è descritta come una malattia. L’amore è quindi ferocia, una lotta tra i sessi che niente può riscattare. Se sterile, l’accoppiamento è sadismo. Se fecondo, è malattia. È un amore inseparabile dall’odio, sempre. Tanto è vero che con grande semplicità Proust scrive che «‘appena non si ama più si smette di odiare’. Una lezione identica emerge da tutti gli amori della Ricerca del tempo perduto, amori fondati sull’odio, sul disgusto, sull’orrore, che costituiscono la condizione stessa del loro essere: amori senza carità in un mondo senza Dio» (p. 181).

E tuttavia Compagnon sottolinea la distanza di Proust dalla Gnosi e, in generale, dal sacro: «Mentre ogni metafisica del male porta a proteggere un’aristocrazia in lotta contro la stupidità del mondo, a privilegiare una scrittura segnata dal desiderio di solitudine […] nulla di tale si manifesta in Proust. […] Il male, in Proust, è comune, consiste nel desiderio, nel desiderio e nell’orrore» (Ibidem).
Il male sarebbe quindi una realtà soltanto psicologica, non metafisica. Ma è veramente così? Non è l’umanità stessa una escrescenza della materia che soltanto la bellezza può redimere? Non pulsa anche nella Recherche il disprezzo verso le masse? I lunghi anni nella solitudine della scrittura sono frutto soltanto della malattia e del bisogno di salvare il tempo? Nello sguardo sensibile ma distante, gelido e ironico di Marcel Proust che cosa si svela e si nasconde?
«Sous l’apparence de la femme, c’est à ces forces invisible dont elle est accessoirement accompagnée que nous nous adressons comme à d’obscures divinités. C’est elles dont la bienveillance nous est nécessaire, dont nous recherchons le contact sans y trouver de plaisir positif», ‘Sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero’ (Sodome et Gomorrhe, in À la recherce du temps perdu, Gallimard 1999, p. 1602; trad. di Elena Giolitti, Einaudi 1978, p. 561)

Sui sette volumi della Recherche ho scritto qui:

La strada di Swann

All’ombra delle fanciulle in fiore

I Guermantes

Sodoma e Gomorra

La prigioniera

La fuggitiva

Il Tempo ritrovato

Eva

Recensione a:
Giuseppe O. Longo

La gerarchia di Ackermann
Jouvence, 2016
Pagine 365
in Nuova Prosa. Semestrale di narrativa
Numero 68 – Settembre 2017 – Socialpatie, a cura di Simona Castiglione
Pagine 129-132

L’amare, il desiderare, il cantare i propri giorni come se fossero altro da un Requiem all’inizio sereno e pieno di attese ma che poi volge alla inesorabilità dell’ardere dentro «le fornaci del caos», dominate dal principio di dissoluzione; dominate dalla patomimesi che ripete ogni giorno le sofferenze dei nostri avi, spalmate nel tempo ma non per questo meno cristalline e presenti; dominate dalla nostalgia di una pienezza della quale serbiamo ricordo ma che ci sembra lontana lontana.
La gerarchia di Ackermann è un libro terribile e potente, che conferma per intero e sino in fondo la trama gnostica del pensiero di Giuseppe O. Longo.

Vendetta

Assassinio sull’Orient Express
(Murder on the Orient Express)
di Kennet Branagh
USA, 2017
Con: Kennet Branagh (Poirot), Michel Pfeiffer (Hubbard), Johnny Depp (Ratchett)
Trailer del film

Le azioni umane sono probabilmente tutte inevitabili, guidate da leggi naturali sia fisiche sia interiori. Il risultato è l’esistenza individuale e collettiva. Nella trama degli eventi e nel labirinto dei giorni, necessario è dunque anche il bisogno della vendetta, quando μῆνις si alza dentro il cuore, quando una collera intensa e duratura è frutto di un’offesa che tocca l’essenza stessa di un umano, il suo orizzonte, i suoi affetti, la sua natura totale e profonda. Parlare in questi casi di superamenti e di misericordie significa parlare al vento. Razionalità e persino volontà possono certo spingere in quelle direzioni ma la φύσις vi si opporrà sempre. A meno che un sentimento ancora più potente ponga μῆνις nelle retrovie del corpomente. Ma allora significa che l’offesa ricevuta non era mortale. Che è stata magari più dolorosa di altre ma della loro stessa qualità. Toccare un umano nel suo είδος, nella sua natura, significa invece tranciare con la lama dello strazio ogni possibilità di perdono.
È questo il nucleo narrativo del romanzo di Agatha Christie ed è questo il maggior merito della trasposizione cinematografica che lo sceneggiatore Michael Green e il regista Kennet Branagh hanno ideato. Branagh si ritaglia il ruolo di un Hercule Poirot lucido e nevrotico, geometrico e tormentato, profondamente consapevole del male del mondo.
Il film è elegante e fastoso. La vicenda è un piano inclinato. Tanto è vero che anche Poirot sarà costretto, alla fine, a riconoscere la potenza di Ἀνάγκη, rinunciando al suo concetto liberale e borghese di giustizia, accogliendo invece quello antico e greco di vendetta, che della ‘giustizia’ rimane il vero nome, il segreto, l’essenza.

Gettàti

Il sospetto
(Jagten)
di Thomas Vinterberg
Con: Mads Mikkelsen (Lucas), Thomas Bo Larsen (Theo), Annika Wedderkopp (Klara), Lars Fogelstrøm (Marcus), Susse Wold (Grethe), Anne Louis Hassing (Agnes), Alexandra Rapaport (Nadja), Lars Ranthe (Bruun)
Danimarca, 2012
Trailer del film

Lucas lavora nell’asilo di un paese della Danimarca. È separato dalla moglie ma molto amato dal figlio adolescente Marcus. I bambini giocano sempre con lui e di lui si fidano totalmente. Ha molti amici, con i quali va a caccia, beve, fa festa. La figlia di uno di questi amici, anche lei all’asilo, gli regala un cuore e durante i giochi lo bacia sulle labbra. Lucas le dice che i regali si fanno agli altri bimbi e che solo ai genitori si danno quei bacetti. Klara ci rimane molto male e alla prima occasione dice alla direttrice dell’asilo che Lucas è cattivo, è brutto, e le ha fatto vedere il pisellino «rivolto verso il cielo», frase che aveva sentito casualmente pronunciare dal fratello davanti a un’immagine porno. Da quel momento l’intera comunità, che prima apprezzava tanto Lucas, gli si rivolta contro senza dargli possibilità di appello. Anche quando la magistratura lo assolve, il sospetto rimane.
Un essere umano ha bisogno dei suoi simili ma i suoi simili sono anche l’inferno. È questa una delle tante contraddizioni nelle quali la nostra vita si involve. Chi ci è amico e amore può da un momento all’altro trasformarsi in una belva che vuole il nostro sangue. L’insecuritas è tale da poter generare infamia e violenza anche dal dispetto di una bambina, da cui inizia una vera e propria isteria collettiva dietro e dentro la quale abitano evidenti profondità emotive pronte a scatenarsi. Non a caso uno dei motivi conduttori del film è la caccia, i molti armati contro il singolo separato dal branco.
Il cinema danese continua a creare delle opere coinvolgenti, capaci di scavare dentro quel gorgo di sentimenti e di passioni che è la famiglia. Opere che costituiscono delle vere e proprie meditazioni sull’esistenza e sul suo dolore. Il fulmineo finale di questo film è una metafora della possibilità di essere in ogni istante della vita colpiti da qualcuno o da qualcosa senza sapere perché e a quale scopo. L’umano è veramente Geworfen, gettato nel male.

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