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Ecumene umana e mysterium iniquitatis

Recensione a:
Eugenio Mazzarella
Europa Cristianesimo Geopolitica
Il ruolo geopolitico dello ‘spazio’ cristiano
Mimesis Edizioni, 2022
Pagine 102
in Discipline Filosofiche, 4 aprile 2022

Il filosofo, l’europeo, il cristiano Eugenio Mazzarella presenta in questo denso e agile volume un vero e proprio manifesto per l’ecumene contemporanea. Ecumene cristiana ed ecumene umana, che per l’autore sono intrecciate e inseparabili. L’analisi parte dall’esplicito riconoscimento del mysterium iniquitatis nel quale siamo immersi, dello «scempio del male» che «non cessa di farsi avanti» e che assume forme molteplici, la più pervasiva e distruttiva delle quali è una globalizzazione mediante e dentro cui l’istanza liberista si è fatta «egemonica nella finanziarizzazione dell’economia a partire dagli anni ’80 in un’ottica di pura massimizzazione del profitto come lex mercatoria, primato indiscusso ed introiettato nello spazio pubblico e dei decisori economici e politici dell’homo oeconomicus del “libero mercato”».
Le radici profondamente corporee della filosofia di Mazzarella diventano qui uno dei fondamenti di una proposta politica, antropologica e soprattutto culturale assai chiara, inattuale e anche per questo coraggiosa, che la si condivida o meno. La lucidità e l’afflato di molte pagine del libro gli danno una tonalità malinconica, realistica e utopica. Una tonalità emblematica del cammino politico e teoretico di Mazzarella.

Sulla stessa rivista è stata oggi pubblicata una recensione di Enrico Palma al libro che Andrea Pace Giannotta ha dedicato alla Fenomenologia enattiva. Mente, coscienza e natura.
Entrambi sono miei allievi e rivolgo a tutti e due i più vivi complimenti 🙂

La pelle

Curzio Malaparte 
La pelle
Garzanti, 1967 (1949)
Pagine 334

I fatti. Anzitutto i fatti. Quelli che tutti conoscono ma che è bene tacere. I fatti dei quali molti europei erano stati testimoni e conservavano memoria ma che era bene trattare come se non fossero accaduti. I fatti dell’Italia e dell’Europa liberata dagli eserciti alleati. Fatti che aiutano a comprendere in modo più ampio che cosa quella liberazione fu, quale costo ebbe per i popoli del nostro continente.
I fatti.
Bambini e bambine venduti ai soldati vincitori da parte dei loro stessi familiari.
L’amicizia e i ‘fidanzamenti’ dei soldati americani, in particolare i soldati neri, come grandi affari necessari alla sopravvivenza: «Il negro non sospettava di nulla. Non si avvedeva di esser comprato e rivenduto ogni quarto d’ora e camminava innocente e felice […] Non sospettava neppure di esser venduto e comprato come uno schiavo. […] Un negro americano era una miniera d’oro» (p. 25).
Una ragazza vergine mostrata come cosa rara e con la possibilità di infilare un dito nella sua vagina in modo da verificare che vergine fosse realmente: «Per sentirsi eroi, tutti i vincitori hanno bisogno di veder queste cose. Hanno bisogno di ficcare il dito dentro una povera ragazza vinta» (50).
Un rito iniziatico della ‘Internazionale degli invertiti’, denominato ‘la Figliata’.
Degli ebrei crocifissi dai nazisti in Ucraina.
Le bombe al fosforo su Amburgo: «Il fosforo è tale che si appiccica alla pelle come una viscida lebbra, e brucia solo al contatto dell’aria. Non appena quei disgraziati sporgevano un braccio fuor della terra o dell’acqua, il braccio si accendeva come una torcia. Per ripararsi dal flagello, quegli sciagurati erano costretti a rimanere immersi nell’acqua o sepolti nella terra come dannati nell’Inferno di Dante. […] E nulla valeva ad arrestare il morso di quella terribile lebbra ardente» (104).
L’amatissimo cane di Malaparte -di nome Febo- rubato a Pisa, venduto per pochi soldi alla Clinica Veterinaria dell’Università, torturato con la vivisezione: «Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e gli occhi aveva pieni di lacrime. Aveva nello sguardo una meravigliosa dolcezza. Respirava lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un fremito orribile. Mi guardava fisso, e un dolore atroce mi scavava il petto» (159).
A un pranzo del Generale Cork viene portato in tavola l’ultimo rarissimo pesce rimasto nell’acquario di Napoli (gli Alleati avevano proibito la pesca per ragioni militari); un pesce-sirena che sembra pari pari una bambina bollita e che come tale viene accolto con orrore dai commensali: «Io guardavo quella povera bambina bollita, e tremavo di pietà e di orgoglio dentro di me. Meraviglioso paese, l’Italia ! pensavo. Quale altro popolo al mondo si può permettere il lusso di offrire a un esercito straniero, che ha distrutto e invaso la sua patria, una Sirena alla maionese con contorno di coralli? Ah ! Metteva conto di perder la guerra, sol per vedere quegli ufficiali americani, quell’orgogliosa donna americana, sedere pallidi e sbigottiti d’orrore intorno a una Sirena, a una deità marina distesa morta in un vassoio d’argento, sulla tavola di un generale americano!» (218).

Questo fu la Seconda guerra mondiale a Napoli, in Italia, in Europa, ovunque. Compresa la guerra di resistenza al nazifascismo. Quest’ultima fu «un’atroce guerra civile» (302) e la guerra universale fu una «guerra non contro gli uomini, ma contro Cristo» (301), nome che compare lungo tutto il romanzo -anche il cane Febo è un Cristo crocifisso- a indicare probabilmente per contrasto l’impossibile purezza dell’umanità. Una guerra che sarebbe stato vergogna vincere (così la chiusa, p. 328). Una guerra che vide le popolazioni sottomettersi con gioia ai nuovi padroni e alla loro sorridente e ottimistica depravazione. Una guerra i cui luoghi italiani stupiscono i militari americani, che mostrano tutta la loro ignoranza su Roma e sull’Italia. Una guerra dove, a Napoli, nobiltà e plebe confermano ancora una volta la loro complicità, la loro reciproca fedeltà, la loro familiarità. Una guerra alla fine della quale uscirono dalle loro tane coloro che in esse si erano rifugiati -tane letterali, tane metaforiche- e che poi, «un giorno, morto il tiranno, faran gli eroi della libertà» (161). Una guerra che diventa piccola cosa al cospetto della potenza di due vulcani: l’«Etna, Olimpo di Sicilia» (161) e soprattutto il Vesuvio, la cui eruzione del 1944 viene descritta da Malaparte nel modo epico che quell’evento merita e che vide punite l’arroganza e il sentimento di superiorità dei soldati alleati, diventati anch’essi dei pezzenti del terrore, straccioni in fuga di fronte alla potenza del fuoco.

La lingua di Malaparte sembra davvero la pittura di Brueghel o di Bosch (esplicitamente ricordati a p. 29). La follia di Brueghel e di Bosch ricondotta e trasformata nella follia della Napoli e dell’Europa contemporanee.
Napoli, «la più misteriosa città d’Europa» (40); Napoli vittima di una peste, di un «nuovissimo morbo […] che non corrompeva il corpo, ma l’anima» (33), simile in questo al morbo contemporaneo denominato Covid19; Napoli, l’antica cui «nobile voce della fame, della pietà, del dolore, della gioia, dell’amore, l’alta rauca, sonora, allegra, trionfante voce era spenta» (322) ma con la dignità del suo popolo intatta, nonostante tutte le azioni turpi e infami delle quali diventa complice a favore dei ‘liberatori’; Napoli della quale Malaparte disegna come a nessun altro ho visto fare «il sapore e l’odore della luce» (120).
Al di là di Napoli, tutta l’Europa «è un paese misterioso, pieno di segreti inviolabili» (21); è una terra nobile, saggia ed estrema. E tale rimane anche quando non viene «purificata ma corrotta dalla sofferenza», anche quando non viene «esaltata ma umiliata dalla raggiunta libertà» (123). Durante la catastrofe delle due guerre nelle quali e con le quali l’Europa si è uccisa, dopo e di fronte agli effetti di tale autodistruzione, pur in mezzo alla «sottile, cinica, perversa propaganda condotta di lontano, e mirante a dissolvere il tessuto sociale europeo, in previsione di ciò che gli spiriti deboli del nostro tempo salutano come la grande rivoluzione dell’età moderna» (130), l’Europa è ancora la culla della luce pur rischiando d’essere la sua tomba.
E questo anche per merito dei suoi scrittori, filosofi e artisti, come lo stesso Curzio Malaparte, perseguitato dal fascismo e ostracizzato dall’antifascismo, avendo «sofferto la galera per la libertà dell’arte» (99) e l’emarginazione e delle bizzarre accuse per la stessa ragione. Come altri scrittori, filosofi e artisti, Malaparte può dire con chiarezza in mezzo alla devastazione, «io ero l’Europa. Ero la storia d’Europa, la civiltà d’Europa» (199).
I morti di Napoli e i morti universali; «hanno una forza terribile, i morti, e potrebbero spezzare i ferri, romper la cassa, buttarsi fuori a mordere» (70). Morti i quali, e qui l’intuizione antropologica è profonda, «eran stranieri, appartenevano a un’altra razza, alla razza degli uomini morti, a un’altra patria, la morte» (308). È infatti un libro di antropologia La pelle. Un’antropologia disincantata e dagli accenti gnostici. Di fronte all’intera vicenda di macello e di dissoluzione che è la storia umana, infatti, si deve constatare che «gli uomini son capaci di qualunque vigliaccheria per vivere : di tutte le infamie, di tutti i delitti, per vivere» (44). Realisticamente ed empiricamente, «l’uomo è cosa ignobile. […] L’uomo è una cosa orrenda» (319-320), tanto che disprezzare in sé e negli altri questa umanità «è la prima condizione della serenità e della saggezza nella vita umana» (159-160).

«Il male è inguaribile» (60) e la sua bandiera politica, il suo simbolo antropologico, il suo stendardo esistenziale è un uomo schiacciato da un carro armato alleato mentre correva per le strade di Roma ad accogliere festante i vincitori. Ridotto a una sottile striscia di carne e di pelle, quello che di lui rimase «è la bandiera della nostra patria, della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle. […] E unitici al corteo dei becchini, ci avviammo dietro la bandiera. Era una bandiera di pelle umana, la bandiera della nostra patria, era la nostra stessa patria. E così andammo a vedere buttare la bandiera della nostra patria, la bandiera della patria di tutti i popoli, di tutti gli uomini, nell’immondezzaio della fossa comune» (288-290).
Un romanzo di guerra e di memorie, scritto come una poesia che si trasforma in studio antropologico e in danza macabra. E sopra ogni cosa l’intelligenza del mondo e della storia.

«Perché è malvagia»

Tommaso
di Abel Ferrara
Italia, 2019
Con: Willem Dafoe (Tommaso), Cristina Chiriac (Nikki), Anna Ferrara (DiDi)
Trailer del film

Ad Abel Ferrara non manca certo il coraggio. Film forti e perturbanti come The Addiction (1994), Il cattivo tenente (1992), The Funeral (1996) lo dimostrano. Questi tre titoli compensano ampiamente le eventuali successive cadute. In Tommaso il coraggio consiste nel mettere in scena le proprie difficoltà, i fallimenti, le debolezze. E farlo in modo esplicito e poco compiaciuto.
Il Tommaso di Dafoe è infatti marito di Nikki e padre di Didi, che sono interpretate dalla moglie e dalla figlia di Ferrara. Vivono a Roma, dove Tommaso progetta un film, cerca di imparare l’italiano, continua a frequentare un gruppo di alcolisti anonimi che raccontano le loro vite e l’uscita dalla addiction del bere, diventa molto geloso della giovane moglie, sino ad alcune violente scenate di gelosia. E infine, in due delle scene/metafora del film, offre il proprio cuore a un gruppo di africani e si fa crocifiggere davanti alla stazione Termini.
Termini, l’ingresso di Roma, città che ha evidentemente ammaliato il regista newyorchese (come accadde per il cuore nero e pulsante di Napoli), che in questo film ha la capacità di offrirne un ritratto singolare, lontano sia dalla magnificenza estetica sia dal degrado incombente; radicato invece nel quotidiano movimento tra le strade, tra i negozi del quartiere, i cortili, i balconi, gli ascensori. Ed è forse la cosa più suggestiva di Tommaso.
Artisti, filosofi, teologi, sociologi, fisici, parlano sempre anche di sé, qualunque sia il grado di oggettività delle loro opere. Già la scelta di diventare regista, pittore, filosofo, astronomo, giurista, è una dichiarazione autobiografica che testimonia in modo evidente del proprio sguardo sul mondo, della teleologia che l’esistere si ritiene abbia o non abbia, della propria tonalità caratteriale. Quando poi si prende la penna, la cinepresa, il pennello, uno strumentario tecnologico, in essi e attraverso essi riverbera immediatamente il senso che si vuole dare al tempo che si è. Il valore di un’opera d’arte o d’intelletto consiste anche nell’essere intramata da questa potenza della persona e però conseguire ed esprimere elementi, esiti, concetti universali, collettivi, condivisi.
Qui Ferrara mette in comune la propria vicenda di persona e il proprio sguardo di regista cinematografico. Con un candore che è da apprezzare, con una forse raggiunta saggezza rispetto al male del mondo che si esprime chiaro e inquietante in The Bad Lieutenant, The Addiction, The Funeral.
Nel primo emerge un mondo svuotato, una ferocia senza direzione, l’oscillare tra perdizione e redenzione, altari, santini, prime comunioni, tutto immerso in un radicale pessimismo antropologico. Un film freddo e appassionato, duro e coraggioso, una vera e propria discesa nell’inferno dell’abiezione umana.
Il secondo coniuga con naturalezza vampirismo e filosofia in una metafora dal significato evidente: l’umanità corrotta moltiplica il male moltiplicando se stessa. In una delle discussioni metafisiche che intessono il film (numerose citazioni da Sartre, Heidegger, Kierkegaard, e perfino un brano musicale di Nietzsche) si afferma che «gli uomini non sono peccatori perché commettono dei peccati ma commettono peccati perché sono peccatori. L’umanità non è malvagia poiché compie il male ma compie il male perché è malvagia».
Il terzo è un’opera funebre e geometrica, intessuta anch’essa di simboli cattolici: preghiere, statue, dottrine. La vicenda e i dialoghi confermano la natura gnostica della visione di Ferrara, che condanna l’uomo e con lui il suo malvagio demiurgo.
Tali cupe verità sono in Tommaso trasformate al fuoco degli affetti, dei desideri e dei ritmi quotidiani. Non vengono certo negate – il cuore estratto dal petto e la crocifissione ce le ricordano– ma sono espresse con il disincanto sull’orrore che la vita alla fine insegna.

Dürrenmatt / Gnosi

Friedrich Dürrenmatt
L’incarico
ovvero
Sull’osservare di chi osserva gli osservatori
Novella in ventiquattro frasi
[Der Auftrag oder Vom Beobachten des Beobachters der Beobachter. Novelle in vierundzwanzig Sätzen, 1986]
Traduzione di Giovanna Agabio e Roberto Cazzola
Adelphi, 2012
Pagine 108

La storia, certo. La storia contemporanea. Con le sue guerre senza fine, pur se definite ‘a bassa intensità’. Con i suoi conflitti politici tra l’Occidente e il mondo arabo. Il mondo arabo come luogo nel quale l’Occidente prova le proprie armi, le usa, le distrugge e quindi può tornare a produrne, «un ciclo geniale per mantenere a pieno ritmo l’industria bellica e con ciò l’economia mondiale» (p. 85).
La storia, certo. Quella privata di uno psichiatra svizzero, di sua moglie che viene dichiarata morta tra le rovine di un deserto mediorientale, stuprata, strangolata, dilaniata dagli sciacalli.
La storia, certo. Quella di tecnologie a supporto della guerra e della violenza; tecnologie televisive e digitali mediante le quali tutti osservano tutti e nessuno può sfuggire, tanto da sembrare «talora che la natura osservi a sua volta l’uomo che la osserva e diventi aggressiva […] mentre i nuovi virus, i terremoti, le siccità, le inondazioni, gli uragani, le esplosioni vulcaniche, eccetera, sono ben mirate misure difensive della natura osservata nei confronti di chi la osserva» (19-20).
La storia, certo. Quella di una giornalista che viene incaricata dallo psichiatra di scoprire che cosa sia accaduto in quel deserto a sua moglie. Lei che accetta e che precipita in una serie di vicende grottesche, violente, estreme, sino a un finale tecnico-politico che si conclude con il sarcasmo di una nascita. 

Ma non è la storia, non sono le storie la trama di questo romanzo, come di ogni scritto di Dürrenmatt. Il tema, il suo tema, è «la terribile stupidità del mondo» (104), osservata con lo stesso gelo che lo scrittore attribuisce qui a un fotografo zoppo dal nome Polifemo, il quale «veniva osservato mentre osservava […] lui, Polifemo, era un dio caduto» (90-91) e il suo amico ed ex commilitone Achille è un «dio idiota» (104).
Termini, vicende, trame e sentimenti che confermano la natura profondamente gnostica dell’opera di Friedrich Dürrenmatt, nella quale l’accadere è generato da «un dio contaminato dalla sua creazione, un dio che stermina le sue creature» (99), osservare il quale significa guardare «dentro un gelido orrore» (92).
Tutto trema, si scioglie, si dissolve in un tempo che non redime, nel quale si è gettati. Tutto accade, acceca, annebbia in un mondo che è stato generato dalla potenza orba e ubriaca di Yahweh/Yaldabaoth, il quale nella sua presunzione ha generato «questa vita a rovescio ed enigmatica, intollerabile», come scrive Kierkegaard (alcuni personaggi del romanzo sono danesi) nella frase che fa da epigrafe al libro e che viene ripresa a p. 60. Tutto appare e sparisce in un «processo che si risolve nel puro nulla, dato che persino i protoni finiscono per disintegrarsi, e in questo ciclo terra, piante, animali ed esseri umani nascono e muoiono» (88-89).
F., questo il nome della giornalista che si avventura dentro il male, «si sentiva come una figura degli scacchi spinta di qua e di là» (69). Gli scacchi. Una geometria nella quale la pura razionalità del calcolo è metafora della guerra. Guerra che è ovunque in questa «novella in ventiquattro frasi» che infatti dilata per 24 volte il virtuosismo di uno dei primi racconti di Dürrenmatt, Il figlio (1943), dove in un unico denso periodo si mostra l’essenza selvaggia dell’uomo roussoviano, ritenuto per natura innocente.
I 24 capitoli de L’incarico sono tutti composti da un unico e lungo periodo, il libro consiste in 24 frasi che narrano una vicenda assai strana ma dall’inquietante sapore familiare, «in un grumo di odio e di ribrezzo» (14). Il grumo della storia.

Depravazione

Kreuzweg – Le stazioni della fede
di Dietrich Brüggemann
Germania, 2017
Con: Lea Van Acken (Maria), Franziska Weisz (la madre), Lucie Aron (Bernardette), Moritz Knapp (Christian), Florian Stetter (Padre Weber)
Trailer del film

Maria fa parte di un movimento cattolico fedele ai dettami della Chiesa preconciliare. L’adolescenza negata dalla madre fanatica e la vita in un ambiente che vede ovunque il peccato distruggono il corpomente della ragazza. I sacramenti – confessione, cresima, eucaristia – diventano per lei mortali.
Un film veramente cristiano e dunque immerso in una concezione sacrificale della vita; permeato di un’intransigenza dottrinaria che ignora, nega e maledice ogni differenza; intessuto di irrazionalità, perversione e follia; caratterizzato dal profondo egoismo di chi dirige ogni propria azione in vista dell’agognato paradiso; scandito dall’arroganza (nel loro gergo «superbia») che pretende di salvare gli altri giudicandoli a priori infetti; pervaso dalla colpa e dal peccato.
Le parole definitive su questo fenomeno le ha pronunciate naturalmente Friedrich Nietzsche, sia a proposito del libro sacro della setta sia dell’essenza ultima del cristianesimo:

«Si prenda in mano un libro veramente pagano, per esempio Petronio, in cui in fondo non si fa, non si dice, non si vuole e non si giudica niente che non sia, secondo un criterio cristianamente ipocrita, peccato, anzi peccato mortale. E tuttavia, che senso di benessere nell’aria più pura, nella superiore spiritualità dell’andatura più veloce, nella forza liberata e traboccante, sicura del proprio avvenire! In tutto il Nuovo Testamento non si trova una sola bouffonerie: ma con ciò un libro è confutato…Paragonato a quel libro, il Nuovo Testamento rimane un sintomo di una cultura decadente e della corruzione -e come tale ha operato, come fermento della putrefazione»
(Frammenti postumi 1887-1888, 9[143], trad. di S. Giametta, «Opere» III/2, Adelphi, pp. 70-71).

«Ich heisse das Christenthum den Einen grossen Fluch, die Eine grosse innerlichste Verdorbenheit, den Einen grossen Instinkt der Rache, dem kein Mittel giftig, heimlich, unterirdisch, klein genug ist, – ich heisse es den Einen unsterblichen Schandfleck der Menschheit.
‘Definisco il cristianesimo l’unica grande maledizione, l’unica grande e più intima depravazione, l’unico grande istinto di vendetta, per il quale nessun mezzo è abbastanza velenoso, furtivo, sotterraneo, meschino -lo definisco l’unica immortale macchia d’infamia dell’umanità’
(Der Antichrist. Fluch auf das Christenthum, § 62; L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, trad. di Ferruccio Masini, «Opere» VI/3, pp. 260-261).

Kreuzweg significa via crucis. Il film è infatti scandito in dodici stazioni formalmente autonome anche se legate tra di loro. Dodici piani sequenza nella cui immobilità vortica l’immobilità del male che il cristianesimo è sempre stato. Un film dell’orrore.

Rosso

Irréversible
di Gaspar Noé
Francia 2002
Con: Vincent Cassel (Marcus), Monica Bellucci (Alex), Albert Dupontel (Pierre), Philippe Nahon (Philippe)
Trailer del film

Un solo colore, il rosso. Lo percorre tutto fino agli ultimi secondi che si aprono sul verde dei prati e sull’azzurro del cielo. Un sogno di riscatto dall’incubo che questa creatura è. Questa, l’umano. Immerso qui, in questo film, in una chiara rappresentazione dell’Inferno. Sono gli stessi colori di Mark Rothko e di Hieronymus Bosch, lo stesso incomprensibile e inesorabile disordine di quest’ultimo, gli oggetti che si fondono tra loro, i viventi che si ibridano con gli oggetti, i luoghi che si sciolgono, le prospettive che crollano, il vortice, il vortice dovunque, come un immenso fluire delle cose verso un’irredimibile sporcizia.
E poi la furia che cancella ogni linguaggio. Anche l’unico personaggio consapevole, Pierre, quando dialoga in metropolitana con la sua ex compagna Alex e il nuovo uomo di lei, Marcus, si esprime seguendo il singulto di banalità, desideri e frammenti degli altri due. Ma sarà lui, Pierre, nella scena conclusiva posta all’inizio del film a compiere il gesto supremo del dare la morte per vendetta, moltiplicando così la furia dentro la propria calma.
«Il tempo distrugge tutto» si dice nel primo dialogo e si ripete nella formula che chiude il film. Il tempo irreversibile, per fortuna. Il tempo grande liberatore, oltre che scultore. Poiché se l’umano distrugge ogni cosa, anche ciò che ama, nella pulsione profonda che lo guida verso il male e la morte, il tempo distrugge il male, dal quale il film è pervaso in un modo che definire fastidioso è eufemistico. 12 minuti di efferato stupro fanno precipitare il film nella mediocrità e le ambizioni nel compiacimento.
Tutte le sue scene si muovono, nella prima parte addirittura fremono, al confine della perversione. Che la vicenda venga montata e raccontata partendo dalla fine tenebrosa per tornare al suo inizio dentro un prato, dove delle signore leggono al sole e dei bambini giocano nella luce, è la conferma che la Caduta è irreversibile. E le storie umane abitano in questa Geworfenheit, nell’autenticità della loro miseria.

Proust / Il male

Antoine Compagnon
Proust tra due secoli
Miti e clichés del decadentismo nella Recherche
(Proust entre deux siècles, Éditions du Seuil 1989)
Traduzione di Francesca Malvani con la collaborazione di Pierfranco Minsenti
Einaudi, 1992
Pagine XXIII-329

«Entre-deux», il tra, lo spazio della molteplicità e della differenza, il tempo che coniuga e che attende. È questa la chiave di lettura della Recherche proposta da Antoine Compagnon. Il romanzo di Proust, infatti, è intessuto di simmetrie, costituito di rimandi e paralleli che poi però lo scrittore fa saltare, deviare, li perde, per ricongiungerli infine in una imprevedibile sintesi. La stessa scrittura di Proust, che accumula paperoles, personaggi, vicende, al di là del progetto iniziale e delle prime redazioni, testimonia di una vicenda artistica e teoretica che somiglia a un labirinto, che è un labirinto.
Come si situa quest’opera nella storia culturale europea? A tale domanda Compagnon offre una molteplicità di risposte, tutte comunque sotto il segno dell’entre-deux. La Recherche è romanzo ed è critica, è letteratura ed è filosofia. Vive nello iato fra tradizione e innovazione, fra continuità e rottura. «Proust non è né reazionario, né futurista» (p. 306) e anche per questo la sua opera rimane inclassificabile. Il suo è l’ultimo romanzo organico dell’Ottocento ed è insieme il primo grande romanzo sperimentale del Novecento. E ciò proprio in forza della sua costitutiva molteplicità, che rende impossibile riassumerlo sotto un unico segno.

Compagnon cerca di cogliere la duplicità del romanzo attraverso una serie di scandagli in alcuni dei suoi innumerevoli anfratti. Emerge così la centralità di Baudelaire nella costruzione dell’estetica proustiana, un Baudelaire significativamente accomunato a Racine come sintesi di misura ed eccesso, classicità e mutamento. Acquista quindi un significato non soltanto esistenziale il tema dell’omosessualità, del travestimento, dell’analogia tra ebrei e invertiti in quanto figure della compresenza, dell’ambiguità non riducibile a uno solo dei suoi componenti. Non è un caso che il personaggio più citato da Compagnon sia il barone di Charlus, e cioè l’autentico grande protagonista -dopo il Narratore- del romanzo.
La musica, in particolare Fauré; la lettura così intima del Rinascimento italiano; i lunghi inserti etimologici di Brichot; l’estetica militante di Mme de Cambremer; l’aggettivazione disuguale, sono solo alcuni dei temi nei quali emerge la molteplicità di prospettive del romanzo. Compagnon li analizza tutti con efficacia. Ma c’è un problema che consente più di altri di cogliere la profondità metafisica del romanzo. È il tema del male, che tutto lo pervade: «Nessuno potrà negare che il male regni nella Ricerca del tempo perduto» (p. 145)

Nella lettura di Compagnon il male non è per Proust qualcosa di ontologico, la natura non è malvagia, come invece pensa Baudelaire. Il male è, semplicemente, il desiderio. È la gratuità del desiderio sessuale, là dove esso manca di scopi, dove non è volto alla riproduzione: «Tranne che per gli angeli e gli ermafroditi, la sterilità si identifica alla ferocia. Per Proust, come per Baudelaire, l’amore, se non è riproduzione, è crudeltà: questo è il male fatidico» (p. 165). Ma sia Baudelaire sia Proust odiano la riproduzione sessuale. Ogni volta che nella Recherche appare una donna incinta il tono è immancabilmente sarcastico, la gravidanza è descritta come una malattia. L’amore è quindi ferocia, una lotta tra i sessi che niente può riscattare. Se sterile, l’accoppiamento è sadismo. Se fecondo, è malattia. È un amore inseparabile dall’odio, sempre. Tanto è vero che con grande semplicità Proust scrive che «‘appena non si ama più si smette di odiare’. Una lezione identica emerge da tutti gli amori della Ricerca del tempo perduto, amori fondati sull’odio, sul disgusto, sull’orrore, che costituiscono la condizione stessa del loro essere: amori senza carità in un mondo senza Dio» (p. 181).

E tuttavia Compagnon sottolinea la distanza di Proust dalla Gnosi e, in generale, dal sacro: «Mentre ogni metafisica del male porta a proteggere un’aristocrazia in lotta contro la stupidità del mondo, a privilegiare una scrittura segnata dal desiderio di solitudine […] nulla di tale si manifesta in Proust. […] Il male, in Proust, è comune, consiste nel desiderio, nel desiderio e nell’orrore» (Ibidem).
Il male sarebbe quindi una realtà soltanto psicologica, non metafisica. Ma è veramente così? Non è l’umanità stessa una escrescenza della materia che soltanto la bellezza può redimere? Non pulsa anche nella Recherche il disprezzo verso le masse? I lunghi anni nella solitudine della scrittura sono frutto soltanto della malattia e del bisogno di salvare il tempo? Nello sguardo sensibile ma distante, gelido e ironico di Marcel Proust che cosa si svela e si nasconde?
«Sous l’apparence de la femme, c’est à ces forces invisible dont elle est accessoirement accompagnée que nous nous adressons comme à d’obscures divinités. C’est elles dont la bienveillance nous est nécessaire, dont nous recherchons le contact sans y trouver de plaisir positif», ‘Sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero’ (Sodome et Gomorrhe, in À la recherce du temps perdu, Gallimard 1999, p. 1602; trad. di Elena Giolitti, Einaudi 1978, p. 561)

Sui sette volumi della Recherche ho scritto qui:

La strada di Swann

All’ombra delle fanciulle in fiore

I Guermantes

Sodoma e Gomorra

La prigioniera

La fuggitiva

Il Tempo ritrovato

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