Di ritorno qualche giorno fa da Catania a Milano, ho dovuto sottopormi a cinque controlli prima, durante e dopo il volo (quindi nell’arco di circa tre ore). Con tanto di autocertificazioni, di verifiche da parte della polizia, di timbri apposti su fogli, di ossessivi richiami audio alla disciplina, scanditi di continuo e a cadenze regolari da altoparlanti, di ripetute dichiarazioni del mio nome, cognome, età, indirizzo.
Dove è finita l’ondata libertaria del Sessantotto? Dove sono spariti i difensori della riservatezza (privacy)? Dove si è inabissato qualunque spirito ribelle del corpo sociale?
L’editoriale del numero 358 (novembre-dicembre 2020) della rivista Diorama Letterario fornisce alcune risposte a tali interrogativi. L’autore è il politologo Marco Tarchi. Condivido per intero le sue analisi, che riporto sia in pdf (con le note al testo e le mie sottolineature) sia qui sotto (senza note).
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Sarebbe difficile pensare qualcosa di più emblematico della condizione psicologica e culturale che la nostra epoca sta sperimentando, e nel contempo di più avvilente – se non ci si vuole spingere ad usare lʼaggettivo «ripugnante» – degli spot che il governo tedesco ha ideato per convincere i connazionali a rispettare nel modo più rigido i provvedimenti di limitazione della libertà di movimento imposti al fine di circoscrivere i contagi da Covid-19. Nel primo di essi, un ragazzo sui ventʼanni sprofondato nel divano di casa, lattina di Coca cola in mano e patatine fritte a portata di bocca, annega nella noia di una giornata inutile. Nel secondo, il medesimo soggetto, ipotetico studente di ingegneria alla Università di Chemnitz, condivide la sua abulia con la ragazza; dal divano si è passati al letto e ad allietare lʼinerzia questa volta ci sono porzioni copiose di pollo fritto. Nel terzo, al centro dellʼattenzione cʼè «Tobi il pigro», nullafacente per scelta e autodefinizione, che passa il proprio tempo davanti al computer mangiando ravioli freddi in scatola perché non ha neppure la minima voglia di scaldarli. Queste scene sono ambientate nel «terribile» inverno del 2020 e ad accompagnarle cʼè oltre ad un suggestivo commento musicale, il racconto postumo degli invecchiati protagonisti, che vantano soddisfatti lʼ“impresa” compiuta mezzo secolo prima barricandosi in casa a non fare nulla e diventando così – avendo evitato di diventare veicoli del contagio – degli eroi. Parola, questʼultima, più volte ripetuta (a Tobi sarebbe spettata addirittura una medaglia per la sua esemplare astinenza dalla vita di società) assieme ad altre non meno altisonanti, come «fato», «dovere sociale», «destino della nazione» e lʼormai onnipresente «nemico invisibile».
Non può certo stupire che il prodotto di questa fase post-goebbelsiana dellʼapparato di propaganda bellica della Germania abbia lasciato simultaneamente incantati giornali come «Vanity Fair», «il Foglio» e «La Repubblica», affiatati nel definirlo «geniale», né che la sua ironia non proprio sottile sia stata lodata dai pubblicitari italiani. Cosa può esserci di meglio, in effetti, per descrivere il tipo di uomo (e donna, ça va sans dire) ideale della Cosmopoli agognata dai fautori dellʼideologia dei “diritti umani” di un consumatore seriale di cibo-spazzatura docilmente pronto ad obbedire al richiamo delle autorità democratiche e dei mass media e a rinchiudersi senza reagire nel più stretto e gregario individualismo, sostentandosi magari con videochiamate, chat, serie di fiction su qualche piattaforma multimediale e, perché no?, firme virtuali di petizioni a sostegno di cause “di genere” o “inclusive” disponibili sugli appositi siti?
Avanza anche così, sulle ali della paura istigata da una incessante comunicazione ansiogena, quella graduale trasmutazione antropologica che, in atto da decenni, ha trovato nelle vicende epidemiche un nuovo efficacissimo veicolo. La recisione dei legami interpersonali è indicata infatti con sempre maggiore enfasi e frequenza come lʼunico rimedio possibile al replicarsi dei contagi da coronavirus, e cʼè chi arriva a vedervi degli aspetti positivi. Non stupisce che fra costoro si recluti Bill Gates, pronto a descrivere lo scenario del mondo futuro con accenti non troppo preoccupati: per un numero imprevedibile di anni, ci dice, avremo quantomeno unʼatmosfera più pulita, perché con un calo del cinquanta per cento dei viaggi le emissioni di gas serra nellʼatmosfera si ridurranno considerevolmente, anche se dovremo rassegnarci ad avere pochi amici. Il telelavoro prospererà – e con esso, si potrebbe aggiungere, lʼulteriore uso di prodotti Microsoft – e i rapporti sociali si atrofizzeranno.
La prospettiva non sembra suscitare eccessive inquietudini né fra gli intellettuali mediatizzati, né fra i politici, né fra gli scienziati. Molti dei primi antepongono il «diritto alla salute» – concetto del tutto insensato, che nessuno si sognerebbe di contrapporre al sopravvenire di un infarto, di unʼemorragia cerebrale o di una grave forma di tumore, ben sapendo che nessun soggetto colpito da patologie di quei tipi sarebbe in grado di esercitarlo, e che andrebbe sostituito con il plausibile ed auspicabile diritto alla cura – a qualunque timore di sfaldamento del legame sociale.
Quasi tutti i secondi li seguono a ruota e pensano esclusivamente a calmare le ovvie proteste delle categorie produttive danneggiate dalle chiusure imposte con sussidi a pioggia e in buona parte a fondo perduto che saranno in futuro pagati con sostanziosi aumenti di carichi fiscali, perché i deficit del bilancio statale non potranno essere mantenuti in eterno. Le conseguenze dellʼobbligato (e auspicato) «distanziamento» fra i cittadini sulla capacità di tenuta del tessuto sociale li lascia del tutto indifferenti.
Quanto infine agli esperti della materia medica, la loro unilaterale convinzione che della vita conti assai più la dimensione quantitativa della durata che quella relativa alla qualità si esprime a ritmo quotidiano nei modi più diversi e su tutti i palcoscenici televisivi, radiofonici e della carta stampata. Si pensi, per riassumere tutto in un solo esempio, ad Ilaria Capua – gettonatissima virologa di formazione veterinaria che, come ci fa sapere la sua più consultata biografia in rete, alle elezioni politiche del 2013 è stata candidata alla Camera dei deputati, nella circoscrizione Veneto 1, come capolista di Scelta Civica per lʼItalia (la lista di Mario Monti), venendo eletta deputata della XVII Legislatura, dal 7 maggio 2013 al 20 luglio 2015 è stata vicepresidente della Commissione Affari Sociali della Camera e «dopo il proscioglimento nel corso del procedimento penale a cui era stata sottoposta, ed in considerazione dei danni causati alla propria vita personale da tale vicenda, [ha] rassegna[to] le dimissioni dalla Camera per trasferirsi in Florida e tornare ad occuparsi di ricerca scientifica» – che, evidentemente convinta dellʼinutilità, se non della “pericolosità” di teatri e cinema, ha proposto, dando per scontato ed opportuno che debbano rimanere chiusi per altri mesi o anni, di trasformarli (ribattezzandoli addirittura CineVax) prima in presidi per gestire le vaccinazioni anti-Covid di massa, riempiendoli di congelatori a temperatura di meno 70 gradi per conservare le fiale, e poi «per il recupero delle vaccinazioni pediatriche che sono saltate a causa dellʼemergenza».
A queste tre componenti fondamentali della classe dirigente delle democrazie occidentali, cioè di quei regimi politici che dovrebbero incarnare il migliore dei modelli possibili di governo dei “paesi avanzati”, a causa della cecità indotta dal ferreo conformismo allʼideologia del politicamente corretto, sfugge un dato insradicabile della realtà, ovvero lʼineliminabilità del rischio dallʼesistenza umana, tanto individuale quanto collettiva. E lʼancor più dolorosa necessità di accettarne la presenza.
Per millenni, la cultura dei popoli – di tutti i popoli della Terra – si è rassegnata a questo dato di fatto, lo ha collegato alla volontà imperscrutabile del Fato e/o della divinità venerata e lo ha incorporato nei sistemi di norme destinati a governare la vita delle comunità. Lʼillusione prometeica tipica della modernità alimentata dai pregiudizi del razionalismo non meno di quanto le epoche precedenti lo erano state da quelli della magia, ha spinto taluni, non solo negli ambienti scientifici, a credere che a questa legge di natura sia possibile, se non doveroso, ribellarsi. E che lʼesistenza individuale possa e debba essere esentata dallʼalea dellʼimprevedibile e dellʼinatteso, impermeabilizzata dai rovesci del Caso, tenuta sotto controllo – securizzata, per dirla con la neolingua oggi in voga – in ogni contesto. Con la conseguenza di inseguire e celebrare un orizzonte ideale in cui il vegetare si è sostituito al vivere.
Alle presenze corporee in stato vegetativo magnificate dagli spot tedeschi è stato pertanto affidato il messaggio del rifiuto del rischio interpretato come un atto di eroismo. Un formidabile controsenso, che spiega meglio di tante parole la sostanza profonda dello spirito del tempo che stiamo vivendo.
Chi dissente da questa visione si vede ovviamente affibbiare una patente di insensibilità, quando non di follia. La vecchia figura dellʼuntore torna a stagliarsi minacciosa nellʼimmaginario collettivo sullo sfondo dei dibattiti che riempiono i talk shows, mentre lʼopinione pubblica si spacca verticalmente, in tutti i paesi colpiti dallʼepidemia, tra i terrorizzati che si rallegrano del panorama spettrale di città desertificate dal lockdown e vorrebbero vederlo rimanere tale e quale perlomeno fino allʼepifania di un miracoloso vaccino, e gli insofferenti del confinamento, che attendono il minimo spiraglio normativo per rituffarsi nei riti di massa dellʼaperitivo e dello struscio.
Allʼottusità del negazionismo – che qualcuno, esagerando e scherzando un poʼ troppo con i dettami della biologia, che già in passato hanno dato luogo ad usi politici alquanto problematici, ha definito frutto di «un processo mentale che non tanto dissimile da quello che accade in certe forme di demenza» – se ne è dunque affiancata una simile e contraria, che istiga allʼincomprensione e al rifiuto delle ragioni di coloro che, ad uno scenario di persistenti restrizioni della libertà di movimento, di obblighi sine die di indossare maschere chirurgiche, mantenere un metro e ottanta di distanza dal prossimo ed evitare “luoghi di socialità” ed incontri con familiari ed amici, ne preferirebbero uno in cui, pur attenendosi temporaneamente alle opportune misure di prudenza, il rischio venga accettato e gradualmente reinserito nellʼorizzonte della normalità.
La demonizzazione di questa scelta e lʼinsistenza ansiogena sui presagi funesti – sul vaccino che non funzionerà o avrà effetti limitati nel tempo, sulle mortifere “terze ondate” in arrivo e così via – sortiranno quasi certamente effetti opposti a quelli proclamati, precipitando strati crescenti di popolazione in uno stato di prostrazione psicologica difficilmente riassorbibile, di cui si riscontrano già evidenti sintomi (Cfr. Gianni Santucci, Lʼabisso del lockdown: tra lʼ8 marzo e il 4 maggio sono aumentati i tentativi di suicidio, in «Corriere della sera», 19 novembre 2020, dove si cita uno studio dellʼospedale Niguarda di Milano, il quale «mostra che nei 56 giorni di chiusura sono triplicati in Rianimazione i ricoveri di persone che volevano farla finita. Un disastro umano e di solitudine nascosto nella zona dʼombra del disastro Covid»).
Ma, a quanto pare, i dogmi ideologici che dominano la scena culturale dei nostri giorni impediscono di accettare qualunque atteggiamento nei confronti dellʼesistenza che possa apparire eccessivamente virile – e dunque, nella traduzione banalizzante della vulgata progressista, “maschilista”. Vegetare, quindi, sta diventando lʼimperativo categorico del Terzo millennio. Non ci resta che sperare che, un giorno, un sussulto collettivo di orgoglio di fronte ad un panorama così deprimente possa trasformarsi in una seria, sacrosanta reazione – e fare, nel nostro piccolo, tutto il possibile perché ciò avvenga.