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La mafia subumana

Amo molto Leonardo Sciascia. Ammiro la sua scrittura limpida, ironica e tagliente, la sua anima intrisa di un disincanto malinconico e millenario come quello di tutti i siciliani, come il mio. E tuttavia è vero che molte tra le sue parole possono essere volte in apologia della mafia.
Qualche giorno fa, ad esempio, durante una festa/concerto in una delle zone più delinquenziali di Catania sono stati per l’ennesima volta rivendicati i livelli antropologici che Don Mariano Arena -il mafioso protagonista del Giorno della civetta– squaderna con arroganza davanti al capitano dei carabinieri Bellodi: «Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà…». E Bellodi riconosce che anche Don Mariano è certamente «un uomo». In un’altra pagina Sciascia immagina quanto Stendhal avrebbe amato la Sicilia se l’avesse visitata davvero -invece di fare soltanto finta- e si spinge a dire che «come il “fosco Alfieri” in cerca della “pianta uomo”, nel mafioso ne avrebbe visto il più esaltante rigoglio».
È anche quest’ammirazione per l’antropologia mafiosa a rendere inguaribile la metastasi che è Cosa Nostra. Sembra che Sciascia veda nel fenomeno mafioso qualcosa di “sublime” nel senso kantiano: terrificante e affascinante insieme. E invece i mafiosi siciliani, questi escrementi di fogna che recitano rosari assassini in buche costruite sotto le loro stalle o i loro palazzi senza gusto; questi amministratori e deputati di un’ignoranza crassa come le loro menti; questi imprenditori, avvocati, banchieri e persino “bibliofili” dalla violenza senza limiti sono -tutti- dei subumani. Non costituiscono «il più esaltante rigoglio» dell’umanità ma la decomposta putredine di una pianta morta, il cui fetore ammorba la Sicilia.

 

Borsellino e il presidente

Il 19 luglio del 1992 Paolo Borsellino veniva massacrato insieme alla sua scorta. Dopo qualche settimana un mio conoscente catanese, imparentato con una delle famiglie mafiose più potenti dell’Isola, mi disse che le morti di Falcone e Borsellino erano state in realtà un favore fatto da Cosa Nostra a importanti uomini politici. Pensai, naturalmente, che fosse un modo per giustificare i suoi familiari. Invece aveva ragione. L’ultima conferma è il modo con il quale Giorgio Napolitano si comporta alla prospettiva che si sappia quanto si sono detti lui e Nicola Mancino, che nel 1992 era ministro degli interni e con il quale Borsellino si incontrò pochi giorni prima di morire. Un incontro dal quale il giudice siciliano uscì sconvolto.

Invece di contribuire all’accertamento della verità -o almeno della verosimiglianza- su quella tragedia, la massima carica della repubblica italiana attacca i magistrati palermitani che indagano tra grandi difficoltà su quei fatti. Inserisco qui sotto il decreto con il quale Napolitano solleva un conflitto d’attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. Per comprendere il significato di questo testo, nel quale le parole sono utilizzate per nascondere e non per comunicare, consiglio la lettura del breve commento di un giurista che ben ne chiarisce il contenuto e dell’intervista a un altro giurista il quale afferma che rispetto a quanto asserisce Napolitano «le norme dicono l’opposto a lettori informati ed equanimi». La sorella e il fratello di Borsellino esprimono giustamente il loro sconcerto di fronte a tutto questo. Ai miei occhi è l’ennesima conferma della natura criminale dello Stato. Elias Canetti sostiene che il segreto indicibile è uno dei nuclei del potere. È vero. Il contenuto dell’incontro di Borsellino con Mancino era segnato nell’agenda rossa del magistrato, che fu sottratta da un carabiniere in occasione dell’attentato. Il contenuto dei colloqui tra lo stesso Mancino e Napolitano deve rimanere segreto. Possiamo intuire perché.
Se non fossero morti nel 1992, Falcone e Borsellino sarebbero stati accusati, disprezzati, emarginati dai governi -in gran parte berlusconiani- che si sono poi susseguiti, dalla stampa, da molti dei loro colleghi, da chi oggi li celebra. Dallo Stato e dalla società.

 

 

Corea (del Nord)

Quando il presidente di questa disgraziata repubblica (istituzione) era Francesco Cossiga, la Repubblica (giornale) lo attaccava (giustamente) tutti i giorni, a partire dal suo direttore-fondatore Eugenio Scalfari; e lo attaccava pure Giorgio Napolitano, chiedendone addirittura l’impeachment. Ora che il presidente è il suddetto Napolitano, la Repubblica e lui stesso rispondono con sdegno alle richieste di chiarimenti in merito ai fatti gravissimi che emergono dalle telefonate di Nicola Mancino. In pratica sembra che Napolitano stia facendo pressioni affinché venga insabbiata l’inchiesta sulle trattative tra il potere politico e il potere mafioso, il cui rifiuto costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta. Tutti coloro che sono dotati di un minimo di senno e di onestà capiscono bene che l’intromissione di un Presidente della Repubblica in inchieste di tale gravità è qualcosa di inaudito. Ma l’informazione italiana -oltre che, ovviamente, la politica- è priva sia di senno sia di onestà ed è invece tutta dedita a mistificare, sopire, troncare, falsificare, accusare, pur di difendere «il Totem sul Colle», «il nostro Caro Leader, nonché Conducator e Piccolo Padre».
Dietro il Napolitano presidente riemerge il Napolitano comunista. Ma non quello della lotta di classe e della giustizia bensì quello del culto della personalità. Quello stalinista e coreano insomma, quello che nel 1956 sostenne l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Armata Rossa. E la “libera stampa” italiana assume, giustamente, i toni della vecchia Pravda.

Riina

Ieri -30 settembre- la Repubblica ha diffuso i verbali delle dichiarazioni rese da Salvatore Riina nel luglio 2009 e nel luglio 2010. Sul quotidiano sono usciti degli stralci, sulla versione on line i testi integrali. La Procura di Caltanissetta ha però ieri sera ordinato l’oscuramento di queste pagine. Non entro nel merito delle affermazioni di Riina -enunciate in perfetto stile obliquo e allusivo, come è nella natura linguistica di Cosa Nostra. Mi limito a osservare tre cose:

  • Per la prima volta, che io sappia, in Italia si procede all’oscuramento di documenti di tale rilevanza.
  • Il sequestro è avvenuto alcune ore dopo la loro pubblicazione. Perché? Arretratezza tecnologica della magistratura, incapace di capire che dopo così tanto tempo (dodici ore) la Rete ha avuto modo di leggere, conservare, copiare, diffondere? Applicazione fiscale delle norme a proposito di “notizie riservate”? Richieste dall’alto (dal potere politico)?
  • Leggendo l’articolo che sintetizza all’estremo le dichiarazioni di Riina, è evidente che nonostante l’età avanzata, i diciotto anni di isolamento carcerario, le malattie, questa persona appare sicura di sé e consapevole del proprio potere. Un atteggiamento che aiuta a spiegare il fascino che lo stile di vita mafioso può esercitare, la forza che può offrire. U zu’ Totò possiede la granitica resistenza delle cose. L’umano ricondotto alla pietra. Anche questo è Cosa Nostra.

La donna e i poliziotti

Militarizzazione del territorio, manganelli, lacrimogeni ad altezza d’uomo, ruspe, distruzione delle tende dei cittadini, armi chimiche. Anziani, donne, persone inermi picchiate, inseguite nei boschi, insanguinate. Perché? Questa è l’azione dei manichini armati al servizio delle aziende mafiose, dei partiti corrotti, delle banche per le quali un’opera tecnicamente ed economicamente del tutto inutile e dannosa -la linea ad Alta Velocità da Torino a Lione- è una fonte di danaro fuori da ogni controllo. La pagheremo tutti noi quest’opera, con i nostri soldi, con le tasse, con i servizi sempre più scadenti. Valli distrutte, umani umiliati, potenti ghignanti. No, non si tratta di una questione soltanto locale. È la metafora più pregnante della guerra che lo stato sta conducendo contro i cittadini italiani, della distruzione di risorse comuni che il peggior governo e la peggiore opposizione dell’Italia repubblicana vanno praticando con tenace volontà di morte.
La grande stampa (per non dire le televisioni) è quasi tutta schierata a favore della disinformazione. Anche per questo invito a visitare il sito No Tav e a vedere due filmati. Nel primo una donna espone le ragioni del rifiuto del Tav a una schiera di poliziotti rigidi come burattini. Il secondo è un’efficace sintesi di testi, immagini, voci che documentano quanto sta avvenendo in Val di Susa. Durano nove minuti ciascuno. Meritano il nostro tempo.

150

150 anni di unità politica e amministrativa. Non entro nella questione Piemonte/Borboni, centralismo/autonomie. Non ne ho le competenze storico-scientifiche. Non parlerò dell’Italia ma degli italiani. Quindi ciò che dirò non ha nulla a che vedere con la balordaggine della Lega Nord e del suo ormai più che evidente secessionismo, che dovrebbe allarmare la destra sua alleata, se tale destra avesse una pur minima capacità di pensare in termini politici e non soltanto affaristici o fallici.
In questo secolo e mezzo il territorio della Penisola è stato saccheggiato in modo feroce dalla speculazione urbanistica, da una antropizzazione pervasiva e devastante, da mafie e camorre che ora -2011- sono arrivate direttamente al potere e lo gestiscono con determinazione a favore degli interessi loro e dei gruppi sociali che le sostengono. Perché è accaduto tutto questo? Perché gli italiani sono un popolo grottesco, patetico e cialtrone. E soprattutto un popolo di una ignoranza che non ha pari in Europa. Chi viaggia per le capitali e le città del Continente vede quasi ovunque le persone lèggere; le biblioteche e i musei aperti sino a notte; il paesaggio, la storia e i luoghi difesi e anche utilizzati come fonte economica, rispettandone l’identità. Gli italiani sono dei barbari analfabeti e teledipendenti, il cui degno ministro dell’economia -un commercialista di provincia- sostiene che «la cultura non si mangia», mentre qualunque studioso di fenomeni sociali e storici sa che è vero esattamente il contrario. Dopo un secolo e mezzo, in Italia spadroneggiano i peggiori parlamento e governo dell’intera sua storia unitaria. Un parlamento e un governo composti da criminali, da ignoranti, debosciati e venduti. 150 anni buttati nel cesso. Alla lettera, visto che gli italiani siamo degli escrementi. Il vero inno di questo anniversario sono i versi che Pier Paolo Pasolini dedicò Alla mia Nazione e che si concludono con il seguente invito: «Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo».

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