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The Godfather

The Godfather
(Il Padrino)
Parte I (1972) – Parte II (1974)
di Francis Ford Coppola
Con: Marlon Brando (Vito Corleone), Al Pacino (Michele Corleone), Robert De Niro (Vito Corleone da giovane), Robert Duvall (Tom Hagen), James Caan (Sonny Corleone), Diane Keaton (Kay Adams), John Cazale (Fredo Corleone), Talia Shire (Connie Corleone), Al Lettieri (Virgil, ‘il Turco’, Sollozzo), Corrado Gaipa (Tommasino), Lee Strasberg (Hyman Roth), Michael V. Gazzo (Frankie Pentangeli), Gastone Moschin (Fanucci), Maria Carta (la madre di Vito), Morgana King (mamma Corleone)

«Perciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni uomo è nemico ad ogni uomo, è anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza di quella che la propria forza e la propria inventiva potrà fornire loro. […] E quel che è peggio di tutto, vi è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve» (Thomas Hobbes, Leviatano [1651], La Nuova Italia 1976, cap. XIII, p. 120).
Tale fu sin dall’inizio l’esistenza di Vito Andolini, diventato all’anagrafe statunitense Vito Corleone dopo essere sfuggito alla morte che il capomafia di Corleone, appunto, aveva inferto a padre, madre, fratello.
Onesto era Vito ma a Little Italy aveva dovuto imparare l’arroganza, l’umiliazione, la violenza. Ed era diventato Don Vito. Lo troviamo, ormai ricco, nel giorno del matrimonio della figlia; le cerimonie costellano infatti di sé l’intero film, lo scandiscono. Proprio quel giorno è venuto un uomo a chiedergli giustizia per la violenza subita da sua figlia e che i tribunali dello Stato gli hanno negato. Il film inizia con le parole di questo padre: «Io credo nell’America».
La stessa fede nutrita dal figlio minore e amatissimo di Don Vito, Michele, decorato al valore durante la Seconda Guerra mondiale e che al suo ritorno trova un’altra guerra costante, pervasiva, totale; trova il bellum omnium contra omnes e ne diventa il signore: malinconico, freddo, determinato, feroce. Sino alle scene conclusive delle due parti dell’opera: nella prima Michele riceve l’omaggio dei suoi uomini dopo essere diventato il capofamiglia; nella seconda ha ottenuto vendetta su tutti i suoi nemici, tra i quali anche un fratello, anche la moglie allontanata, anche un vecchio e potente ebreo che gli aveva portato la guerra in casa.

Lo sguardo di Michele è lontano, rassegnato, triste, interrogativo, silente. È lo sguardo del potente che domina su un regno di morti e lo sa: «Chi stermina tutti i nemici non ha più alcun nemico, e inoltre gode la vista dei loro mucchi ora inermi» (Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi 1981, p. 543).
È lo sguardo di Cesare Borgia, unito a quello di Machiavelli: «È molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua»; «Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede [la parola data], quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi [malvagi], e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro» (Il Principe, capp. 17 e 18).

In quest’opera la morte arriva coniugata ai riti cattolici, lo sterminio si accompagna e si alterna alle professioni di fede, alla musica celeste, alla solennità della soteriologia cristiana. L’apice è raggiunto durante la cerimonia del battesimo, nella quale Michele fa da padrino al figlio di sua sorella, dichiarando che «rinuncia a Satana e alle sue opere» proprio mentre i suoi uomini uccidono uno a uno e in luoghi diversi i capi delle altre famiglie. Un montaggio magistrale, ironico e disperato. La cui efficacia si percepisce assai meglio vedendo i due film (come ho avuto di recente la possibilità di fare) nella versione originale con i sottotitoli, e potendo quindi apprezzare il continuo passaggio linguistico dall’inglese americano all’anglosiculo. Un originale linguisticamente e concettualmente più sobrio rispetto alla traduzione e al doppiaggio spesso ‘folcloristici’ della versione in italiano.
La seconda parte dell’opera è apertamente e fecondamente politica, con la Cuba del dittatore Fulgencio Batista finanziata sia dalle istituzioni sia dalla criminalità degli Stati Uniti d’America e con una commissione d’inchiesta contro la mafia nella quale i senatori americani sono in mano alle diverse famiglie mafiose, che li usano per reciproche accuse e vendette. Credo che solo il grande successo della prima parte abbia permesso a Coppola di poter essere così esplicito e libero nelle accuse rivolte al proprio Paese, che ne emerge per quello che è: una sentina di corruzione.
Su tutta l’opera domina, naturalmente, Shakespeare, del quale The Godfather è l’ennesima espressione. Riccardo III ma non solo. Il film è pervaso dall’antropologia di Hobbes, Machiavelli e Shakespeare.

Un’antropologia che in Sicilia conosciamo bene. La conosciamo bene a Catania, città dove forze non dissimili da quelle descritte nel Padrino vanno da tempo all’attacco dell’istituzione -l’Università- che pur con tutti i suoi limiti, anche territoriali e antropologici, può insegnare e praticare uno sguardo diverso rispetto a quello della legge del più forte; dove un’informazione comprata e venduta presenta il mondo e i suoi eventi in una chiave espressionistica e perennemente distorta; dove massonerie di tutti i generi stanno dentro le istituzioni che dovrebbero garantire i diritti, i doveri e l’eguaglianza dei cittadini; dove i più lontani dalla legge e dalle sue garanzie invocano continuamente la legge e le sue garanzie, ricevendo ascolto; dove un numero in fondo decisamente minoritario di soggetti riceve la stolta complicità, l’acquiescenza, l’ingenuità di coloro contro i quali operano: i giovani soprattutto.
In quest’ultimo caso la responsabilità è anche nostra: non abbiamo saputo fornire in modo adeguato ai nostri studenti gli strumenti per decifrare la realtà, comprenderne il male, guardarsi dai pericoli che si celano nella superficialità, nell’ignoranza, nei media tradizionali e digitali, nell’inganno ogni giorno perpetrato da molti, troppi, soggetti sociali. Non esiste, naturalmente, il Padrino. Esiste un oscuro tessuto di relazioni palesi e nascoste, istituzionali e private, locali e nazionali, individuali e di gruppo. Un tessuto rosso del sangue del futuro che i nostri giovani non avranno perché non hanno saputo e non abbiamo saputo liberarci dai Corleone che con altri nomi sono ancora i padrini di Catania.

Mafiosi

La mafia non è più quella di una volta
di Franco Maresco
Con: Ciccio Mira, Letizia Battaglia, Franco Maresco
Italia, 2019
Trailer del film

23 maggio 2017. Palermo ricorda e festeggia i venticinque anni dalla strage di Capaci, dalla «scomparsa» di Falcone e Borsellino. Il ricordo del massacro viene trasformato da una folla di boy scout e da altri sentimentali in una sagra di paese, palloncini colorati, cori da stadio: «Giovanni e Paolo là là là là». Una sanguigna, tenace e attardata Letizia Battaglia rimane sconvolta da questa spettacolare banalizzazione. La gente della Vucciria e dello Zen parla molto male dei due «sbirri e cornuti». L’intramontabile e straordinario impresario di spettacoli Ciccio Mira organizza la più improbabile delle feste, quella che allo Zen (quartiere palermitano edificato negli anni Sessanta) fa esibire cantanti neomelodici e artisti vari per una serata in ricordo dei due magistrati. Il rifiuto da parte di tutti costoro di gridare «No alla mafia». Il giovane, spento e stonato cantante Cristian Miscel indossa magliette con le immagini dei due magistrati ma ribadisce tenacemente che non dirà mai «No alla mafia», neppure se a chiederglielo fossero Santa Rosalia, Gesù, il Padreterno. Cantanti country; ballerine ottantenni; sosia di Raffaella Carrà; neomelodici aggressivi; lo «scanturino» (vigliacco) produttore Matteo Mannino cede alle minacce del quartiere; Mannino e Mira scrivono e riscrivono il testo di presentazione della serata, cancellando alla fine ogni riferimento alla mafia; un cartone animato racconta come tanti anni prima il padre di Ciccio Mira e Bernardo Mattarella divennero amici in occasione di un incidente stradale; Ciccio Mira ha ora un favore da chiedere al figlio di Bernardo, Sergio Mattarella; Mira rivolge una grande lode a costui, al suo silenzio sulla sentenza che ha stabilito la realtà della trattativa fra le istituzioni statali e le organizzazioni mafiose, «perché un vero palermitano non parla, come Ulisse. Chi è stato? Nessuno». Un proverbio sentenzia infatti che «cu picca parrà, ma’ si pintì» (chi ha parlato poco non ebbe mai a pentirsene).
E soprattutto la chiusa del film: parte l’Inno di Mameli, sul palco sculettano ballerine avvolte dal tricolore, un cantante esegue l’Inno in versione techno-pop, davanti al palco soltanto un ragazzino, di spalle, nel buio, nel silenzio e nella distanza del quartiere, di Palermo, della Sicilia. Emblematico ed emozionante; degna conclusione di un film lucido, coraggioso, inevitabilmente intriso di volgarità e di spettacolo, libero da formule e atteggiamenti consolatori, progressisti, etici.
Film costruito con un linguaggio cinematografico articolato e complesso, che mescola -come sempre in Maresco- documento e finzione, verità storica e verità dell’immaginazione, rendendo impossibile comprendere quando i personaggi recitano e quando invece sono. Un linguaggio cinematografico intriso del linguaggio denso, carnale, espressionista e profondamente ironico dei palermitani, del loro dialetto, della loro cadenza che viene da lontano e cammina verso il niente. Un linguaggio cinematografico e dialettale che diventa lingua politicamente scorretta, dove l’ormai impoverito e strumentale lessico dell’antimafia si mostra contiguo e funzionale al protrarsi della mafia. La cui antropologia non è più, naturalmente, quella dei mostruosi analfabeti, puttane, trans, cantanti, detenuti, spacchiosi, venditori, pensionati, che popolano questo film ma abita in dimore pulite, asettiche e internazionali.
Anche per questo la mafia non è più quella di una volta ma rimane «cette chose toujours nouvelles / Et qui n’a pas changé» (Prévert) della quale i siciliani siamo intrisi nella nostra solitudine, nel disincanto, nella libertà dalla speranza e dalla disperazione, nel diffidare della giustizia e dei tribunali, nelle soluzioni dirette e veloci (se il problema è una persona, eliminata la persona è risolto il problema), nelle «menti raffinatissime», nel grottesco, nel culto della morte, nel sorriso e nel sonno, nel tutto e nel niente che siamo.

Mafia

Il traditore
di Marco Bellocchio
Italia 2019
Con: Pierfrancesco Favino (Tommaso Buscetta), Luigi Lo Cascio (Totuccio Contorno), Fabrizio Ferracane (Pippo Calò), Maria Fernanda Cândido (Cristina, moglie di Buscetta), Fausto Russo Alesi (Giovanni Falcone), Nicola Calì (Totò Riina), Vincenzo Pirrotta (Luciano Liggio), Goffredo Maria Bruno (Tano Badalamenti), Giuseppe Di Marca (Giulio Andreotti)
Trailer del film

Nelle gabbie della loro nientità. Nuddu ammiscatu cu nenti sono infatti e appaiono gli umani dentro Cosa Nostra. Sia quando strangolano ragazzi che hanno visto nascere, che hanno accompagnato alla prima comunione, con i quali hanno condiviso  gli spazi e il tempo delle feste, sia quando dietro le sbarre di un’aula bunker ululano, fingono crisi epilettiche, si spogliano per mostrare a minchia, parlano vastasu o cercano pateticamente di parlar forbito.
La mafia nella sua componente militare è questa umanità miserabile, ossessionata e turpe. Gorgogliata da miserie antiche – Buscetta era il decimo di 17 figli e ne generò otto–; vivente nella più grave ristrettezza intellettuale -Riina era praticamente analfabeta e Contorno parla soltanto in siciliano– ; stolta nel confondere il danaro con la gloria –Pippo Calò si abbassa a qualunque tradimento pur di mantenere patrimoni.
La mafia nella sua componente più profonda, quella delle istituzioni politiche e finanziarie, ha una pluralità di espressioni che qui si condensano nella figura di un Giulio Andreotti prima intravisto in una sartoria di Roma e poi intento a prendere  appunti durante la deposizione di Buscetta a suo carico. Il politico democristiano vi appare come figura insignificante e scialba, sin dall’aspetto dell’attore che lo interpreta. Una scelta intelligente, volta a demitizzare un soggetto che la storia è destinata a dimenticare, un mafioso con qualche lettura in più rispetto ai suoi amici palermitani. Tra questi il più determinato, Riina, si muove come un minerale nella ossessione del silenzio. Si rivolge infatti a Buscetta soltanto per dirgli che lui ha una moralità che non gli permette di parlare con un adultero. Buscetta –al quale il moralista Riina ha sterminato la famiglia– indica invece nel suo nemico il vero «distruttore di Cosa Nostra», il traditore dei suoi valori, colui che ha scannato donne e bambini e ha esteso il traffico di droga sino a far morire di eroina molti degli stessi figli dei mafiosi.
Immersi e viventi nell’esercizio della violenza militare, dell’astuzia politica, dell’avidità economica, i mafiosi rappresentano un distillato dell’umanità perduta. È a quest’essenza che il film di Bellocchio mira, è quest’essenza che coglie come credo nessun altro film ‘di mafia’ abbia saputo fare poiché non è un film di mafia ma è opera antropologica, che sa coniugare in modo equilibrato da un lato la vicenda politica che si coagula intorno a Cosa Nostra e dall’altro i caratteri personali dei suoi maggiori esponenti. Tra questi caratteri emergono con particolare forza la malinconia di Favino e la vitalità di Lo Cascio, davvero straordinario nel suo siciliano espressionista, infantile, ironico.
La cinematografia di Marco Bellocchio ha al centro il revenant, i morti che appaiono ai vivi, che ritornano nei loro incubi, che formano i loro assilli, che li afferrano nella loro fine. Tale carattere trionfa  in questo film poiché la mafia è un memento mori che mai si ferma e mai si stanca. La morte sta infatti al centro dei dialoghi tra Buscetta e Falcone e compare nel primo finale, quando un Buscetta ormai anziano sogna finalmente di compiere quell’omicidio che gli era stato ordinato da giovane e che ancora non aveva portato a termine. Il secondo finale è costituito da alcuni secondi di un video nel quale il vero Buscetta canta una canzone brasiliana colma di saudade, con la voce e lo sguardo di chi sente –anche se non possiede gli strumenti culturali per pensarlo che non valiamo niente, «δειλῶν, οἳ φύλλοισιν ἐοικότες ἄλλοτε μέν τε / ζαφλεγέες τελέθουσιν ἀρούρης καρπὸν ἔδοντες, / ἄλλοτε δὲ φθινύθουσιν ἀκήριοι», ‘miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, / altra volta cadono privi di vita’ (Iliade, XXI, 464-466; trad. di G. Cerri).

Caravaggio a Palermo

Una storia senza nome
di Roberto Andò
Italia-Francia, 2018
Con: Micaela Ramazzotti (Valeria Tramonti), Renato Carpentieri (Alberto Rak), Laura Morante (Amalia Roberti), Alessandro Gassmann (Alessandro Pes), Gaetano Bruno (Diego Spatafora), Antonio Catania (Vitelli), Marco Foschi (Riccardo), Silvia Calderoni (Agata), Renato Scarpa (Onofri – Ministro della Cultura)
Trailer del film

Da una chiesa di Palermo venne sottratta una tela di Caravaggio, la Natività. Era l’ottobre del 1969 e il dipinto non è stato più ritrovato. Su questo evento, sulle molte ipotesi, sulle ragioni e sulle conseguenze, Roberto Andò costruisce un film ibrido, un’opera che intende essere uno specimen del cinema.
Una storia senza nome è infatti un thriller, è un film politico, è una storia d’amore, è un film di mafia, è una metafora della relazione tra vita e scrittura, è una commedia, è una vicenda familiare, è un film nel film, è un’affettuosa presa in giro di se stesso e con sé del cinema, della fantasia umana, dell’immaginazione. La trama è inverosimile e le forzature sono evidenti, sembrerebbe persino volute. Gli attori -primi tra i quali Ramazzotti e Carpentieri- si divertono. Il risultato è un film piacevole e godibile, una favola cangiante di colori, come la Sicilia.

Qualunque sia stato il destino dell’opera di Caravaggio, esso conferma in che cosa consista la mafia, il suo male. Non la violenza, non la ferocia, non l’avidità -caratteri umani pervasivi, diffusi, probabilmente ineliminabili, anche se in Cosa Nostra diventati patologici- ma il fatto che sia composta da una accozzaglia di ilici, di ignoranti che rimangono tali sia quando sono analfabeti sia quando conseguono lauree -soprattutto in giurisprudenza e management-, si riempiono la casa di libri (capita anche questo, con Marcello Dell’Utri, ad esempio, che ne ha anche rubati dalla Biblioteca dei Girolamini di Napoli) o divengano professori universitari, giornalisti, funzionari dello stato. Rimangono entità ontologicamente incapaci di comprendere la bellezza, di saperla, di viverla, di esserla. Chiusi nella loro angusta psiche di rozzezza, non possono vedere l’arte, perché la visione non è soltanto percezione, la visione è proiezione nel mondo di ciò che si è. E i mafiosi sono intrisi di inestirpabile laidezza.

Elezioni 2018

Studiare la storia e comprendere le dinamiche sociali significa capire che -secondo la grande lezione dello strutturalismo delle Annales – non contano i singoli ma gli insiemi, le collettività. Dunque non mi interessano i nomi dei competitori in lizza alle imminenti elezioni politiche italiane, mi interessa il significato che le formazioni sociali assumono.
I cinque anni che ci separano dalle elezioni politiche del 2013 hanno confermato la fine in Italia (e ovunque) di ciò che dal XIX secolo è stato chiamato ‘sinistra’, la sua indistinguibilità da ciò che si chiama ‘destra’ e il  convergere di entrambe nel sistema mafioso che distrugge l’economia italiana.
Le sedicenti destra e sinistra sono espressione del dominio della finanza speculativa che ha il suo baluardo nelle strutture dell’Unione Europea, la quale rappresenta il tradimento della storia e dell’idea di Europa.
Esprimerò dunque il mio sostegno al Movimento 5 Stelle non per chi lo rappresenta ma per ciò che rappresenta e in particolare:

  • Per la difesa dell’ambiente naturale e urbano rispetto alla speculazione, ai palazzinari, alle mafie dei rifiuti, alle aziende ultrainquinanti; tutti soggetti sostenuti dal Partito Democratico e da Forza Italia.
  • Per un progetto di recupero dell’occupazione sia pubblica sia nelle piccole e medie aziende, superando la schiavizzazione, il precariato, l’assenza di prospettive date dai provvedimenti del governo Renzi, per i quali basta aver lavorato come precario qualche ora al mese per essere ritenuti ‘occupati’.
  • Per attutire i condizionamenti di una informazione quasi per intero (eccezioni il manifesto e il Fatto Quotidiano, nessuna eccezione in televisione) asservita ai grandi gruppi finanziari di Mediaset, del gruppo Repubblica-Espresso e dei partiti politici finanziati da queste aziende.
  • Per una politica estera che almeno si proponga e tenti la difesa della autonomia dell’Italia dalla Germania e dagli Stati Uniti d’America. Su questo punto, tuttavia, la situazione dell’intera Europa è probabilmente senza uscita. I governi nazionali, infatti, contano poco o nulla. Le decisioni sono prese dalle strutture non democratiche -poiché da nessuno elette- dell’Unione Europea. Un solo esempio: l’embargo verso la Russia ha danneggiato e continua a danneggiare l’economia di molti Paesi europei, Italia compresa, ma è ancora in vigore perché favorisce la geostrategia e la finanza statunitensi. I vincoli di questa Europa sono delle catene recessive e antisociali alle quali gli Stati non possono sottrarsi. Temo quindi che, nonostante le tesi programmatiche, se il M5S andasse al governo poco o nulla potrebbe decidere in politica estera e sulle relazioni con l’Unione Europea, come tutti gli altri e come si è visto nel caso di Tsipras in Grecia Sono decisioni ormai sotto il controllo esclusivo di Bruxelles e di Washington, e forse un poco di Berlino. Una tragedia.
  • Per il contrasto alle mafie, alle camorre, alla ndranghete, delle quali invece Partito Democratico e Forza Italia sono al servizio; il fatto di vivere e lavorare in Sicilia rende questa dipendenza del tutto evidente.
  • Per un ridimensionamento delle spese dovute al meccanismo politico (finanziamento pubblico ai partiti, stipendi e pensioni di parlamentari e amministratori).
  • Per un contrasto effettivo alla capillare corruzione politica che distrugge la ricchezza prodotta dai cittadini, dirottandola nei conti correnti di corrotti, tangentisti e concussori. Invito, a questo proposito, ad ascoltare la relazione di Roberto Scarpinato, Procuratore generale della Repubblica di Palermo, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario il 27 gennaio 2018 (dal minuto 1.25 al minuto 1.49), venti minuti di verità sull’immensa corruzione -vera leucemia del corpo sociale italiano-, sull’ingiustizia che riduce a pura lettera i diritti costituzionali, sulla impunità dei potenti. Partito Democratico e Forza Italia esistono soprattutto e sostanzialmente allo scopo di perpetuare l’immensa corruzione finanziaria e amministrativa che pervade la vita sociale delle nostre collettività, così ben descritta da Scarpinato.
  • Per un controllo più attento delle banche, in mano alle massonerie lontane dalla res publica. Il caso di Banca Etruria e del grave coinvolgimento della ministra Boschi è una delle situazioni più emblematiche e inaccettabili fra quelle che hanno segnato la scorsa Legislatura.
  • Per uno spostamento verso la sanità, la scuola, l’università, il trasporto pubblico, degli enormi finanziamenti dati alle cosiddette Grandi Opere (TAV Torino/Lione; Autostrade inutili come la Brescia-Bergamo; il sempre presente progetto del Ponte sullo Stretto di Messina) e alla imponente e anticostituzionale spesa militare.
  • Non perché il Movimento 5 Stelle abbia la bacchetta magica o i suoi esponenti siano più ‘puri’ degli altri ma perché negli ultimi cinque anni questo Movimento ha costituito l’unica vera opposizione parlamentare allo scempio sociale e al crimine politico.

È sulla base di questa analisi e di tali auspici che non potrei votare né per Forza Italia/Lega (con la sua appendice Fratelli d’Italia) né per il Partito Democratico (con la sua appendice Liberi e Uguali). Se non ci fosse il Movimento 5 Stelle non mi recherei dunque alle urne, rimanendo fedele all’astensionismo libertario  che ho praticato per alcuni anni. È l’ultima possibilità che mi concedo ed è probabilmente l’ultima occasione per la società italiana non di diventare perfetta -cosa che mai è possibile nelle esistenze umane individuali e collettive- ma di essere almeno una società decente.

Luna

Sicilian Ghost Story
di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza
Italia, 2017
Con: Julia Jedlikowska (Luna), Gaetano Fernandez (Giuseppe), Sabine Timoteo (madre di Luna), Vincenzo Amato (padre di Luna), Corinne Musallari (Loredana), Filippo Luna (U’ nanu)
Trailer del film

Un film tenero e truce come l’Isola. Feroce e solare come lei. Antico e crudele come questa Terra «che una volta era piena di dèi», afferma Nino, che insieme a Loredana è l’unico ad aiutare Luna nella ricerca di Giuseppe. Sono tutti tredicenni. Il ragazzo è sparito. Figlio di un mafioso che ha iniziato a collaborare con i giudici, Giuseppe è stato rapito da altri infami che in questo modo vogliono far tacere il padre. Ma Luna è perdutamente innamorata e lo cerca, lo sogna, lo incontra, lo tocca, con lui muore e con lui risorge. La storia di mafia -quella del sequestro e dell’omicidio di Giuseppe Di Matteo– è trasfigurata in una dimensione favolistica e simbolica che genera un effetto straniante e terribile.
I cani, i cavalli, le civette tornano a essere fondamentali testimoni della violenza umana, presenza tra di noi di entità numinose, implacabili e sagge. Il tempo si dilata e si contrae seguendo i ritmi delle forze invisibili che guidano gli eventi al loro destino. Lo spazio si allarga in un grandangolo che genera sospensione e attesa di quanto sta per scatenarsi sulla fragile energia della vita. Luna sogna e insieme agisce. Sognando incontra il fantasma di se stessa dentro l’acqua e quello di Giuseppe dentro i boschi. Agendo ritorna sempre allo spessore più tenace del dolore, come accade ogni giorno nella vita. La presenza maestosa e potente della terra, delle foglie, dei fiumi, del vulcano, trasforma la Sicilia in un incanto tremendo di pianto. Il finale aperto e volutamente ambiguo offre lacrime e sorrisi che non riscattano ma rendono la favola un sospiro.
Ci sono due momenti, però, nei quali il mare, lo spazio e le pietre diventano forma e promessa della luce. È quando d’improvviso appaiono le colonne di Selinunte, dei suoi templi che sfidano ogni male e ci proteggono. La vicenda d’amore e di barbarie conquista in questo modo la sua calma. E ci dice che siamo polvere sparsa nella gloria, in quest’ «aiuola che ci fa tanto feroci» (Paradiso, XXII, 151).

Schiavitù

Libya: A Human Marketplace -­ Narciso Contreras
Milano – Palazzo Reale
Sino  al 13 maggio 2017

31 fotografie di grande formato, distribuite in tre spazi e intervallate da pannelli/didascalie. È sufficiente osservarle e leggere. È sufficiente ascoltare e guardare la testimonianza di Narciso Contreras. Non sarebbero state necessarie le denunce di alcuni parlamentari o la notizia di inchieste da parte della Procura di Catania. Le immagini e le informazioni di questo reportage dalla Libia rendono chiara la condizione di schiavitù di milioni di esseri umani; rendono chiaro il fatto che tale schiavitù è stata creata e viene alimentata da una varietà di istituzioni e di soggetti.
Il primo di essi è la potenza che volle e realizzò la distruzione della Libia e la morte di Gheddafi, vale a dire l’amministrazione Obama con il suo Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton, che si impegnò personalmente e con tenacia affinché Gheddafi venisse assassinato. In nome della Democrazia, of course. Da allora la Libia non esiste più, si è dissolta dando inizio a una infinita guerra fra le tribù che si contendono il controllo del territorio posto tra il Niger, il Ciad e il Mediterraneo. In questo conflitto senza posa i migranti sono utilizzati come una preziosa risorsa, come una preda di guerra, come  merce di scambio.
Contreras_Lybia
Il secondo soggetto sono le cosiddette ‘autorità libiche’ le quali -scrive Contreras- «invece di cercare di risolvere il problema, dirigono e approfittano di questo traffico di esseri umani»; «Piuttosto che una tappa di transito per i migranti e i rifugiati, la Libia è un luogo propizio di traffico di esseri umani e di commercio di schiavi, organizzati per le milizie al potere e legati alle reti mafiose».
Il terzo soggetto sono i trafficanti africani e il loro corrispettivo criminale in Sicilia, vale a dire la mafia. Trafficanti che hanno fatto della ferocia, degli stupri, della schiavizzazione, la loro normale attività quotidiana. Contreras ha visitato e fotografato le carceri e i campi gestiti da questi gruppi e sostiene che «qui non c’è dignità, regna un tanfo misto di sudore, urina ed escrementi che toglie il fiato».
Il quarto soggetto sono le «Organizzazioni non governative» (ONG), le quali costituiscono l’ultimo anello della catena. Al di là della evidente buona fede di molti loro membri, le ONG sono indispensabili ai trafficanti africani, ai mafiosi europei, alle autorità libiche, ai loro finanziatori (come il miliardario magiaro-statunitense George Soros) per raggiungere l’obiettivo di praticare affari sulla pelle, la vita, i corpi di milioni di schiavi.
Che dietro tutto questo possa esserci un progetto di impoverimento e di scontro sociale a danno dell’Europa è soltanto un’ipotesi. Certo è invece il fatto che quando -a conclusione di un viaggio che comincia dall’Africa profonda, attraversa il Sahara, si ferma nei lager libici, rischia la morte nel Mediterraneo- una percentuale di questi schiavi sopravvive e arriva in Sicilia, in Italia, in Europa, l’effetto lucidamente analizzato da Marx è di ingrossare «l’esercito industriale di riserva», a tutto vantaggio delle imprese e del Capitale.
Che le ONG siano o meno in accordo con i trafficanti è una questione giudiziaria  che non ho strumenti per poter valutare. Ciò che invece è del tutto evidente è la funzione politico-economica del loro umanitarismo, che si pone come una delle condizioni di prosperità dell’ultraliberismo finanziario e della sottomissione sociale.
La schiavitù greca e romana costituiva una struttura misurata e regolamentata, se posta a confronto con lo schiavismo bianco degli Stati Uniti d’America e con il sadismo e l’ipocrisia che caratterizzano la pratica della schiavitù contemporanea, della quale le Organizzazioni umanitarie sono oggettivamente parte.
La mostra di Narciso Contreras alza il velo su tale orrore.

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