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Colore / Musica

Kandinsky
Palazzo Reale – Milano
Sino al 27 aprile 2014

Kandinsky_città_vecchia_IIUn artista completo, i cui inizi puntillisti e tardo impressionisti mostrano che sapeva comporre perfettamente le figure, gli spazi, i paesaggi. Densa, ad esempio, la luce che intride Città vecchia II (1902). La stessa luce che poi emerge nelle strutture mentali, nelle geometrie, nella vibrazione che scandisce il ritmo delle linee, dei punti, dei cerchi, delle curve. Due titoli dati dall’artista sono programmatici e paradigmatici per definire l’opera di Kandinsky: Complessità semplice (1939) e Ammasso regolato (1938). E ovunque è come se la luce seriale danzasse nello spazio, nell’occhio di chi guarda, nel cervello, nella predisposizione che gli umani sentono a trovare un ordine nel mondo e a darglielo. Un’arte estremamente teorica e teorizzata in molti testi dottrinari, quella dell’artista russo, tedesco, francese. Europeo. Al di là delle nazioni, al di là delle scuole. Disse infatti che non avrebbe voluto «passare per un ‘simbolista’. per un ‘romantico’, per un ‘costruttivista’» ma che l’osservatore delle sue opere transitando «da un quadro all’altro scoprisse ogni volta un contenuto pittorico diverso».
La teoria/pittura arriva a sintesi dinamica -sempre in moto e sempre immobile- in uno dei capolavori del Novecento: Giallo-Rosso-Blu (1925), i tre colori primari con cui il cervello interpreta e fonde la materia del mondo e ognuno dei quali ha un corrispettivo geometrico compiuto: giallo il triangolo, rosso il quadrato, blu il cerchio. E tutto questo continua a vibrare nello spazio della tela, nell’occhio che la guarda, nel corpomente che la decifra.

Orologi biologici

I RITMI DELLA VITA
Gli orologi biologici che controllano la vita quotidiana di ogni essere vivente
di Russel Foster – Leon Kreitzman
(Rhythms of Life, 2004)
Trad. di Isabella C. Blum
Prefazione di Lewis Wolpert
Bollati Boringhieri, 2011
Pagine 359

Forse due milioni, forse cento, probabilmente dieci. È il numero di specie viventi che abitano il pianeta Terra. Da circa tre miliardi di anni tutte queste entità animali e vegetali vivono seguendo un ben preciso orologio biologico, senza il quale non esisterebbero; transitano nell’essere sincronizzando i propri ritmi endogeni con quelli del cosmo, che per noi terrestri significa con i ritmi di rotazione della terra intorno al proprio asse e intorno alla stella che ci dà energia. «Il tempo è racchiuso nei nostri geni» afferma Lewis Wolpert nella Prefazione al libro (p. 7); «È proprio il nostro rapporto con il concetto di tempo a renderci umani» scrivono i due autori a chiusa del testo (299) e tuttavia la medicina contemporanea non riconosce ancora la fondamentale importanza della tempistica nella somministrazione delle terapie; l’importanza della cronobiologia nei test di tossicità dei farmaci (ratti e topi sono animali notturni rispetto all’uomo animale diurno e questo influisce enormemente sui risultati clinici 1); l’importanza della relazione profonda e costitutiva tra il corpomente e il cosmo, tra ciò che gli autori chiamano “giorno interno” e “giorno esterno”.  Gli orologi biologici sono infatti «regolati quotidianamente al levarsi e al calar del sole in modo da sincronizzare il tempo interno dell’organismo sul tempo astronomico» (11). Se la medicina occidentale trascura gravemente questa struttura temporale dei corpi, «la medicina cinese» -afferma l’oncologo Bill Hrushesky- «riconosce da più di 5000 anni che la dose non può essere isolata dal concetto di tempo» (cit. a p. 269).
I ritmi che intridono e costituiscono la natura sono molti -quotidiani, mensili, annuali- e hanno come base l’intervallo naturale delle 24 ore. Circadiano è dunque il ritmo che segue la scansione del giorno e della notte; nonostante gli artifici luminosi consentiti dall’elettricità il corpo umano è ancora totalmente sincronizzato su tale ciclo. Ultradiano è il ritmo inferiore a un giorno e dunque con frequenza più alta (come il battito cardiaco). Infradiano è l’inverso: un ritmo con una frequenza più bassa e quindi con un periodo più lungo (come il ciclo mestruale). Altri cicli importanti sono quelli interditali (maree), lunari, i ritmi non ripetibili del nascere e del morire. Per gli umani è talmente importante la scansione del tempo da indurli a inventare ritmi diversi da quelli naturali anche se sempre legati a essi. Intervalli come il secondo, il minuto, l’ora, la settimana non esistono in natura e costituiscono un tentativo di abitare e vivere meglio le partizioni cosmiche del giorno e dell’anno.
In ogni caso, nessuna comprensione della vita -della sua fisiologia, della patologia- è possibile fuori dalla struttura temporale che il corpo è. Le ricerche di Foster e Kreitzman sono ormai un classico della biologia proprio perché ricordano con chiarezza e determinazione questa semplice ma fondamentale verità. E lo ricordano ai biologi e ai medici, a coloro per i quali essa dovrebbe risultare evidente. Il luogo cerebrale nel quale i ritmi cronobiologici si generano è infatti il nucleo soprachiasmatico formato da poche cellule  -ventimila circa- collocate nella parte anteriore dell’ipotalamo: «Questo minuscolo gruppo di cellule, il cui volume ammonta a meno di un terzo di un millimetro cubico, è stato definito “orologio della mente”» (92). Al di là di questa localizzazione, il risultato più importante delle ricerche cronobiologiche -condotte in Italia con particolare cura da Vincenzo Di Spazio– è che la temporalità dei mammiferi (e quella umana in particolare) è diffusa in tutto il corpo, tanto che «oggi si parla più spesso di sistemi circadiani, poiché sta diventando chiaro che, sebbene in alcune specie probabilmente esista un orologio centrale, nella maggior parte di esse la scansione del tempo è distribuita in tutto l’organismo» (15-16). E questo significa che siamo fatti di tempo, alla lettera. Tempo genetico, tempo cosmico, tempocoscienza costituiscono un unico battito della materia consapevole di sé, dell’energia che scaturisce, si modula e si esaurisce. È tale battito profondo e inarrestabile che definiamo con i termini diversi di mondo, natura, umanità.
La biologia del tempo ha anche scoperto che tutto questo è una cosa sola con la luce. È la luce, infatti, a costituire il più potente e pervasivo Zeitgeber, il segnatempo al quale i corpi animali e vegetali affidano la regolarità delle proprie strutture vitali. La luce «mantiene il meccanismo sincronizzato con l’alba e il tramonto» (34) e permette dunque ai corpi di sincronizzarsi con l’intero volgere della Terra e del Sole. Con il segno τ è indicato il periodo naturale di un ritmo biologico free-running, il ritmo endogeno tenuto da un sistema circadiano in condizioni costanti.
Queste scoperte biologiche confermano con evidenza ciò che la metafisica ha pensato in modi diversi ma convergenti: la luce è la sostanza stessa del mondo; il movimento ripetuto, ritmico, eterno della materialuce è il tempo.

Nota

1. Robert Burns spiega che se «a mezzogiorno la sostanza chimica non ha dato luogo ad alcun tumore […] se la stessa dose fosse stata somministrata a mezzanotte, tuttavia, ossia in un momento di massima suscettibilità dell’evento biochimico studiato, il 40% degli animali avrebbe sviluppato un tumore al fegato e il composto sarebbe stato classificato come cancerogeno e non sicuro» (cit. a p. 268).

Odissea, la fiaba/luce

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Odyssey
di Simon Armitage da Omero
Con 17 attori della Compagnia del National Theatre of Greece
Musiche composte ed eseguire da Theodoris Ekonomou
Costumi di Yashi Tabassomi
Progetto, regia, scene e luci di Robert Wilson
Produzione National Theatre of Greece  e Piccolo Teatro di Milano
Sino al 24 aprile 2013

Fare recitare la luce. Intrisa delle parole millenarie che raccontano di un uomo abile nell’astuzia, più curioso di un bambino, innamorato di un’idea -Penelope- e di una terra -Itaca-, determinato come il destino, il carattere, il proprio demone. Raccontare il suo racconto ai Feaci -ciò che lo precede e ciò che lo segue- senza nessun naturalismo, psicologismo, rovello interiore. Elementi, questi, tutti profondamente moderni e quindi non greci. Rimanere pertanto fedelissimi a Omero. Nonostante la riscrittura del poeta inglese Simon Armitage. Nonostante le musiche eclettiche -tra pop e new age- eseguite al pianoforte da Theodoris Ekonomou. Nonostante i costumi futuristi, geometrici, infantili e fumettistici di Yashi Tabassomi. Nonostante la regia scanzonata e rigorosissima, formale e fiabesca di Bob Wilson.
Nonostante? A causa, piuttosto. Perché in questa messa in scena l’armonia della lingua di Omero risuona ancora nello spazio del nostro tempo, recitata in greco da attori greci. Perché è come se il poema venisse letto ai bambini per farli addormentare cullati da una grande storia. Perché la favola/mito mostra la propria immortale natura di paradigma dell’inquietudine e della passione umani.
In tutto questo si perde, certo, la struttura arcaica dell’Odissea, il suo venire da un mondo per noi non più comprensibile. Ma si guadagna, in compenso, la sua identità di “opera d’arte totale”, fatta di parole ma anche di danza, di canto, di musica e -appunto- di luce. Nella più densa e profonda tra le ventisei scene che compongono lo spettacolo -quella dell’incontro con i morti- la madre Anticlea esorta il figlio Odisseo con queste parole: «Adesso parti. Trova la luce che ti nutre».

Nostalgia della luce

L’infinito nel finito
Paolo Zermani, Giovanni Chiaramonte, David Simpson e foto di scena da film di Andrej Tarkovskij
Centro Culturale San Fedele – Milano
A cura di Andrea Dall’Asta SJ
Sino al 2 febbraio 2013

Nostalghia (Andrej Tarkovskij, 1983) fu girato nella luce di alcuni dei luoghi più mistici dell’Italia centrale e la luce è ciò a cui ciascuno dei personaggi tende come alla vera dimora dell’umano. In questa mostra intima ed essenziale, le foto di scena di quel film si coniugano alle calde architetture di Paolo Zermani, alle geometriche fotografie di Giovanni Chiaramonte e ai dipinti monocromatici di David Simpson. Di essi, il curatore Andrea Dall’Asta scrive che «mostrano una particolare capacità di diffondere la luce, in quanto mescolati a un composto particolare di titanio e di cristalli. […] La superficie del quadro sembra scomparire, diventando vibrazione luminosa che non può essere catturata o imprigionata».
Immagini e strutture nelle quali lo spazio mostra di essere il tempo, la forma presente del tempo. In una di esse la luce fende la tenebra come una lama dentro il dolore di esserci. Lo stesso dolore di Nostalghia.

La luce divisa

Divisionismo. Da Segantini a Pellizza
GAM Manzoni – Milano
Sino al 23 dicembre 2012

1891. In occasione della prima Triennale organizzata dall’Accademia di Brera alcuni artisti propongono delle opere caratterizzate dalla “tecnica divisa”, che consiste nello scomporre in modo netto i colori sulla tela senza amalgamarli tra di loro. Punti e linee cromatiche assumono così una nitidezza e un riverbero dalle quali scaturisce luce. E infatti i temi prediletti da questi pittori sono i paesaggi colti nei momenti del giorno in cui la luce più intride di sé lo spazio e le cose. Il verde dei boschi, il grigio delle pietre e delle montagne, il bianco della neve sembrano contenere ed emanare una luminosità che prima di essere nel paesaggio sta nello sguardo e nella tecnica di chi lo osserva.
Da Fornara a Previati, da Grubicy de Dragond a Pelizza da Volpedo, da Focardi a Segantini, questi artisti hanno offerto -probabilmente senza proporselo- anche una documentazione storico-antropologica sulla civiltà contadina italiana, su abitudini, attività, luoghi e costumi che non sarebbero sopravvissuti a lungo alla modernizzazione.
Su questo mondo di umani, di campi e di colori domina una profonda e quasi metafisica Solitudine. L’opera di Emilio Longoni che porta appunto tale titolo è emblematica di tutto il Divisionismo. Tra quelli esposti, il dipinto più complesso e più coinvolgente mi è parso Canale di Mazzorbo al tramonto (1910) di Angelo Morbelli. In esso il figurativismo è ancora ben visibile ma le forme e le sfumature hanno tutta la ricchezza che nella cosiddetta “realtà” non si trova e che invece sta nella realtà attraversata dalla mente.
Il limite di questa mostra non sta nei suoi contenuti ma nel luogo. GAM Manzoni. Centro Studi per l’arte moderna e contemporanea -inaugurato in questa occasione- è uno spazio angusto di due stanze. Ma non è questo il problema, che consiste invece nel fatto che i proprietari o i curatori (non so) in queste due stanze chiacchierano a voce alta e in modo fastidioso. Non si può aprire e gestire una galleria d’arte come se si vendessero maglioni.

Mente & cervello 93 – Settembre 2012

L’esperienza che più di ogni altra plasma di sé l’esistere è apparentemente una non esperienza. È il morire. Morire, appunto, e non morte. Se la propria morte non è per definizione esperibile, la consapevolezza di dover morire ci accompagna quasi sin dall’inizio del vivere. Non pensarci non serve a nulla, anzi peggiora la situazione, come mostra M. Weiderman. Intendendo per “motivi estrinseci” degli obiettivi puramente economici ed esteriori e per “motivi intrinseci” stili di vita che si soffermano sugli elementi gratuiti e immateriali della vita, si è scoperto che «le persone che perseguono obiettivi intrinseci riescono meglio di chi persegue cose materiali a tenere a bada l’ansia associata alla morte. […] Obiettivi di vita intrinseci e creazione di significato appaiono centrali nel venire a patti con la nostra mortalità» (p. 74).

Non temiamo solo la morte. Tra le altre numerose ragioni di inquietudine c’è l’insicurezza costante sull’integrità del corpo che siamo. Insieme alla propriocezione -la percezione della condizione del corpo a ogni istante- è sempre attivo anche lo spazio peripersonale, i circa dieci centimetri intorno a noi nei quali non deve entrare nessuno senza il nostro permesso, né persone né altri animali né oggetti. «È come una bolla di sicurezza, che espande i bordi del corpo percepito oltre i suoi limiti fisici, in modo non cosciente» (G. Sabato, 51). Lo spazio peripersonale è una delle strutture fondamentali del Leib, del corpo proprio, vivente e vissuto. È una condizione che discende direttamente dal meno valorizzato dei sensi ma che forse è il più importante di tutti, il tatto. Aristotele ne aveva ben compreso la rilevanza. Nel II libro del De Anima scrive infatti che «in tutti gli animali la prima facoltà sensitiva è il tatto»; «anche a proposito dei sensi accade qualcosa di simile, perché alcuni animali li possiedono tutti, altri ne possiedono alcuni, e altri infine solo uno, quello cioè che è il più necessario, il tatto» (413b); «senza la facoltà tattile non esiste alcun altro senso, mentre il tatto può esistere senza gli altri sensi, perché molti animali non possiedono né vista né udito né il senso dell’odorato» (415a); «l’uomo ha quest’ultimo senso, cioè il tatto, in forma assolutamente acuta; negli altri sensi, infatti, l’uomo è inferiore a gran parte degli altri animali, ma per il tatto è particolarmente più acuto rispetto agli altri animali; perciò è anche l’animale più saggio» (421a) [traduzioni di Giovanna R. Giardina].
Un ampio articolo dà ragione ad Aristotele mostrando come il tatto «non solo ci procura una varietà di informazioni vitali sull’ambiente, ma è anche alla base della rappresentazione che costruiamo del nostro corpo, dell’autocoscienza fisica»; «la pelle è il confine del corpo, e ogni contatto con un oggetto circostante non ci informa solo sull’ambiente esterno ma anche sul corpo stesso» (G. Sabato, 48 e 50).
In generale tutti i sensi sono tra di loro profondamente intrecciati e su tale unione si fonda la percezione dell’esistere e la possibilità di pensare. La “memoria involontaria” di Bergson e di Proust scaturisce da tale intrico di sensibilità e ricordo, come numerose ricerche neurobiologiche vanno confermando. Siamo tutti un po’ sinestetici, tutti intrecciamo in forme blande e inconsapevoli le differenti percezioni. Anche per questo le intelligenze artificiali rimangono così stupide, perché sono incapaci di vedere suoni o toccare odori: «È proprio ai sensi, prima che alla velocità di elaborazione, che dovranno guardare gli esperti di intelligenza artificiale per riuscire a costruire una macchina pensante» (M. Cattaneo, 3).

Un altro importante tema discusso in questo numero di Mente & cervello è il rapporto tra empatia e violenza. Rispondendo alle domande di P.E. Cicerone il ricercatore britannico S. Baron Cohen spiega che «ci sono tre disturbi psichiatrici che possiamo definire a empatia zero, un termine che uso per indicare un livello negativo per gli individui stessi e per la società. Il disturbo borderline di personalità, che porta chi ne soffre a frequenti sbalzi di umore e ricatti affettivi. Poi la personalità psicopatica o antisociale: chi ne soffre è una persona apparentemente attraente, che però usa il proprio fascino per ottenere dagli altri ciò che vuole. E una patologia meno nota, il disturbo narcisistico di personalità, che spinge gli individui a preoccuparsi solo di se stessi. Queste sono le classificazioni ufficiali, ma potremmo definire questi disturbi anche in relazione alla mancanza di empatia» (69). Dato che il grado di empatia di un soggetto è un fattore sia ambientale sia genetico, ritorna -inesorabile come il convitato di pietra presente in tutte le discussioni etiche- la questione del libero arbitrio: «Se qualcuno commette un crimine a causa dello sviluppo o del funzionamento del suo cervello, fino a che punto possiamo considerarlo responsabile?» si chiede Baron Cohen (71). La risposta, come più volte ho ripetuto anche su questo sito, consiste nel separare la colpa dal danno. Non è necessario che un soggetto sia responsabile di ciò che fa perché se ne limiti l’eventuale azione dannosa. Come anche Spinoza ha chiarito assai bene, la confusione tra questi due concetti -danno e colpa- è grave e ingiustificata.

Vedere la crudeltà, vedere le illusioni (come il libero arbitrio). Vedere è la capacità prima dell’umano. E anche questo i Greci sapevano. Theorein vuol dire insieme osservare e pensare. E «ora si sta scoprendo che alcuni dati visivi sono sfruttati per usi differenti dalla vista, magari per scandire interiormente il tempo e per controllare inconsciamente il movimento. In effetti, i meccanismi sensoriali potrebbero essere del tutto differenti, e avere inizio da minuscoli sensori luminosi della retina» (A. Bleicher, 28).
Luce e tempo sono forme diverse della stessa realtà, come tutti i saggi hanno sempre saputo.

Alla ricerca

C’era una volta in Anatolia
(Bir zamanlar Anadolùda)
di Nuri Bilge Ceylan
Con: Yilmaz Erdogan (Commissario Naci), Taner Birsel (Procuratore Nussret), Muhammet Uzuner (Dottor Cemal), Firat Tanis (Sospettato Kenan)
Turchia, 2011
Trailer del film

 

Una strada sterrata fra le alture dell’Anatolia. Dal silenzio della notte emergono le luci di alcune auto. Dentro ci sono un commissario di polizia, un giudice, un medico, due sospettati e alcuni militari. Cercano il luogo nel quale è stato nascosto un cadavere. Gli assassini non ricordano, sono confusi, non trovano. Di collina in collina, si arriva a un piccolo villaggio dove si riposano. La ricerca riprende. Frammenti di motivazioni da parte del presunto colpevole accompagnano il ritrovamento della vittima. Nell’ospedale della città l’autopsia svela altri segreti, insieme al pianto sommesso e dignitoso della giovane vedova.

La notte accompagna la solitudine di questi uomini alla ricerca della propria vita, dei mali, della morte. Ciascuno ha un dolore, ciascuno ha un segreto. L’assassino è un colpevole tra i tanti, che ha assunto su di sé i peccati di altri, come il suo aspetto cristologico conferma. Primi piani assai intensi. Profili dentro onde di luce. Silenzi eloquenti dentro parole che non dicono niente. Metafore enunciate tra una curva e l’altra. Il momento della grazia è l’apparire durante la cena di una ragazza bellissima e silenziosa che offre da bere a questi uomini rassegnati, allo stesso modo in cui per il Narratore della Recherche l’apparire della figlia di Gilberte Swann e di Robert de Saint-Loup rappresenta una promessa di redenzione. Nel fuoco della lampada che fa splendere il volto della ragazza sembra infatti rilucere una speranza. Ma «le donne a volte sono molto crudeli».
La prima ora e mezza del film è girata tutta nella notte. Ombre e luci vengono esaltate da una fotografia magnifica e saggia. All’arrivo del giorno e della città l’enigma e l’incanto si stemperano un poco ma nulla tolgono alla bellezza profonda di un film interiore e insieme immerso nei luoghi e nell’andare. Alla ricerca.

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