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Filosofia / Luce

Filosofia / Luce
in In Circolo. Rivista di filosofia e culture
Numero 5 – «Filosofia oggi»
Giugno 2018
Pagine 32-44

La rivista In Circolo ha chiesto ad alcuni filosofi di delineare il proprio itinerario, gli interessi, le direzioni. È stata una feconda occasione per riflettere sul mio cammino dentro la filosofia e dentro la vita. Per queste ragioni mi sembra uno dei testi più significativi che abbia pubblicato sinora. Il saggio è scandito in tre capitoli: Antropologia e politica – Mente e tempo – Materia e luce.

Copio qui sotto l’abstract, in inglese e in italiano:

Philosophy is this: you look at the Gorgon and it’s her which petrifies. You look at the constant pain that weaves the world and you support its ferocity, turning its foolishness into question, horizon, theory. It was also this intuition that led me to Philosophy studies with no hesitation. The intuition that knowledge, in whatever sphere and form it is expressed, must deeply affect the lives of humans. Otherwise it remains erudite abstractness, informative specialism, whose strength is dissolved at the first difficulty in the hard fabric of days.

Filosofia è questo: tu guardi la Gorgone ed è lei a pietrificarsi. Guardi il dolore costante che intrama il mondo e ne sostieni la ferocia, ne volgi l’insensatezza in domanda, questione, interrogativo, orizzonte, teoresi. Fu anche questa intuizione a indirizzarmi senza incertezze verso gli studi di filosofia. L’intuizione che il sapere, in qualunque ambito e forma si esprima, deve incidere a fondo sulle vite degli umani. Altrimenti rimane astrattezza erudita, specialismo informativo, la cui forza si dissolve alla prima difficoltà nel tessuto faticoso dei giorni.

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Photo by Kristine Weilert on Unsplash

 

Luce

Lucio Fontana 
Ambienti / Environments
Milano – HangarBicocca
A cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolí
Sino al 25 febbraio 2018

Di luce è fatta la materia, di luce è intrisa l’aria, di luce sognano gli occhi dei viventi, di luce è l’ultima nostalgia. Nessuno è indispensabile e anche il grande amore si dimentica. Ma la luce che in quei momenti -quando fai l’amore- entra dalle finestre o viene dalle lampadine. Quella non la dimentichi. Perché quella luce sei tu, e non lei o lui. Loro passano e quella luce rimane. Solo quella luce. L’oggetto d’amore è miraggio riflesso ombra. Luce che si forma e che ritorna dopo che la torcia della passione ne ha plasmato i contorni. Ma dentro quella forma, nulla. Nulla al di fuori dei pensieri totali che il sentimento crea. Che crea questo bisogno troppo umano di sentirsi amati.
Alla luce gli ambienti di Lucio Fontana offrono voce e tatto, trasformando lo spazio in sinestesia, alternando la profondità del blu con l’esplodere del rosso che investe afferra libera dall’angoscia del buio, insopportabile ai mortali. Guizza la luce attraverso i neon, si ferma nell’ultravioletto delle lampade di Wood, diventa velluto opalescente e morbida gomma in cui si affonda. Uno degli ambienti è la limpida geometria seriale di cinque brevi corridoi attraversati dal rosso infuocato dei neon alle pareti. Un altro spazio è lo stretto labirinto dove trionfa la gioia del bianco, che si conclude con la semplicità arcaica di un taglio nella parete larga alla quale infine si giunge. L’ambiente più ampio è attraversato da rette luminose blu e verdi, sospese nell’aria in diagonale e su molteplici livelli.


Gli Ambienti di Fontana costituiscono una novità assoluta (il primo è del 1949) che ha mutato l’itinerario dell’arte nella storia. Le invenzioni cromatiche e formali furono riprese nel viaggio conclusivo dell’astronave di 2001. A Space Odyssey. Tutto questo, che l’artista costruiva e poi smontava, è stato ricomposto con filologica acribia all’HangarBicocca di Milano e lo si gode penetrando nei suoi spazi.
E le parole di Fontana mostrano con saggezza il distendersi temporale della luce: «L’arte oggi è pura filosofia; finito l’uomo, continua l’infinito».

Eva

Recensione a:
Giuseppe O. Longo

La gerarchia di Ackermann
Jouvence, 2016
Pagine 365
in Nuova Prosa. Semestrale di narrativa
Numero 68 – Settembre 2017 – Socialpatie, a cura di Simona Castiglione
Pagine 129-132

L’amare, il desiderare, il cantare i propri giorni come se fossero altro da un Requiem all’inizio sereno e pieno di attese ma che poi volge alla inesorabilità dell’ardere dentro «le fornaci del caos», dominate dal principio di dissoluzione; dominate dalla patomimesi che ripete ogni giorno le sofferenze dei nostri avi, spalmate nel tempo ma non per questo meno cristalline e presenti; dominate dalla nostalgia di una pienezza della quale serbiamo ricordo ma che ci sembra lontana lontana.
La gerarchia di Ackermann è un libro terribile e potente, che conferma per intero e sino in fondo la trama gnostica del pensiero di Giuseppe O. Longo.

Il Sacro

La poesia di Hölderlin
di Martin Heidegger
(Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung)
A cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann
Edizione italiana a cura di Leonardo Amoroso
Adelphi, 1988
Pagine XV-250

Né storiografia, né critica letteraria, né estetica. La modalità con la quale Heidegger legge la poesia è teoretica in un senso peculiare. Questo senso è il linguaggio. Che non è uno strumento, per quanto raffinato e fondante, ma è «quell’evento (Ereignis) che dispone della suprema possibilità dell’essere-uomo» (p. 46). L’umano è infatti un dispositivo semantico che produce significati come le stelle generano luce. Non si tratta di un bisogno ma di una struttura. La poesia esprime senso perché è ciò che Paul Valery definisce con esattezza come l’«indugiare tenuto fra suono e senso» (citato da Heidegger a p. 184).
In questo indugiare Friedrich Hölderlin ha abitato. Ha vissuto nel silenzio degli dèi e nella loro fuga, come anche nel loro rimanere tra Erde e Licht, tra Terra e Luce, e nel loro tornare in quanto Ewige Götter, eterni. In questo gioco ontologico e temporale essi sono gioia, luce e gnosi.
Una gioia così immensa che persino nel lutto il dio, «il gioioso, ridà gioia, sebbene ‘con lenta mano’. Egli non porta via il lutto, ma lo trasforma facendo presentire a coloro che sono in lutto che il lutto stesso non scaturisce se non da ‘antiche gioie’. Egli, il gioioso, è il ‘padre’ di tutto ciò che dà gioia. […] Egli, l’alto, è detto ‘l’etere’, αἰθήρ. L’ ‘aria’ che dà aria e la ‘luce’ che dà luce e la ‘terra’ che sboccia con quelle sono le ‘tre in uno’ (einige drei) in cui la dimensione serena si rasserena e fa sorgere il gioioso e nel gioioso saluta gli uomini (23).
Una luce così fonda da costituire l’essere stesso dal quale ogni divenire scaturisce e nel quale lo spaziotempo si sostanzia e si conclude. La parola greca che dice tutto questo è φύσις, quella tedesca è Lichtung, l’intricato Lucus della lingua latina, il bosco del limite e quindi della tenebra, che però nel proprio stesso limitare è confine della luce, è luce, è radura.
Gnosi perché questa tenebra è sempre intrisa di aperto e il suo destino ultimo è risplendere. È rilucere intanto nel linguaggio. Intanto tra il tempo della calma assoluta del prima della nascita e la calma inquieta del dopo la morte. Quello che resta in questo intervallo, sì, «Was bleibet aber, stiften die Dichter» (Andenken, qui p. 41), lo istituiscono i poeti.
Tutto questo è bellezza, perché «la bellezza è la presenza dell’Essere. L’Essere è il vero dell’ente» (161). L’Europa -seguendo un’altra suggestione di Valery- è la terra dove tanta bellezza tramonta e sorge di continuo, senza posa, senza certezze, senza dubbi. «L’Europa, questo promontorio e cervello, deve ancora diventare la terra di un Occaso (Land eines Abends) da cui un nuovo mattino (Morgen) del destino del mondo prepari il suo sorgere? La domanda suona pretenziosa e arbitraria. Ma ha il suo sostegno: da un lato in un fatto essenziale, dall’altro in una congettura essenziale. Il fatto è questo: la situazione presente planetario-interstellare del mondo è nel suo inizio essenziale -un inizio che non può andare perduto- da cima a fondo europeo-occidentale-greca. La congettura, d’altro lato, pensa in questa direzione: ciò che muta può farlo solo a partire dalla grandezza in serbo del suo inizio» (211).
In questo dire di Heidegger traluce la stessa inquietudine di Hölderlin, la stessa sua follia. La follia dell’antico dio sempre giovane, Dioniso: «Und wozu Dichter in dürftiger Zeit? Aber sie sind, sagst du, wie des Weingotts heilige Priester, / Welche von Lande zu Land zogen in heiliger Nacht» [Brod und Wein; e perché i poeti in tempo di privazione? / Ma essi sono, tu dici, come i sacerdoti del dio del vino / che andavano di terra in terra  nella notte sacra; p. 58].
Dioniso è fremito, metamorfosi, sorriso spietato del tempo, è divenire. Dioniso è l’ordine invisibile enunciato da uno dei filosofi più ebbri, Eraclito. Il cui frammento 54 -ἁρμονίη ἀφανὴς φανερῆς κρείσσων- viene così tradotto da Heidegger «Fuge, die ihr Erscheinen versagt, ist höheren Waltens als eine die zum Vorschein kommt [L’ordine che si ricusa all’apparire è più vigente di uno che giunge nell’apparenza]» (213).
Successivamente Heidegger così commentò questo frammento, aprendo in tal modo il pensare a una metafisica che non è l’oblio della differenza ontologica ma è la rigorosa indagine sull’invisibile che fonda il visibile: «Questo detto del pensatore preplatonico Eraclito contiene il cenno decisivo su come noi dobbiamo esperire ogni essenza greca, la natura, l’uomo, l’opera umana e la divinità: ogni visibile a partire dall’invisibile, ogni dicibile a partire dall’indicibile, ogni apparire a partire dal nascondersi. Ciò che si nasconde è più vicino all’essenza greca dello svelato: questo vive di quello» (213-214).
Né storiografia, né critica letteraria, né estetica. La modalità con la quale Heidegger legge la poesia di Hölderlin è teoretica poiché «la poesia di Hölderlin è per noi un destino. Esso attende che i mortali gli corrispondano. Che cosa dice la poesia di Hölderlin? La sua parola è: il sacro» (237). Jetzt, l’istante-ora, il καιρός, è il sacro. Oggi è il sacro.

Desolazione

Salvo
di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza
Italia – Francia, 2012
Con: Saleh Bakri (Salvo), Sara Serraiocco (Rita), Luigi Lo Lascio (Enzo), Mario Pupella (Boss), Giuditta Perriera (Mimma)
Fotografia: Daniele Ciprì
Trailer del film

«Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo – chi legge comprenda» (Mt. 24,15)

Una Palermo satura di colori, sporca di luce. Salvo vi si muove con la determinazione di una macchina, con l’indifferenza di una cosa, con la tristezza di un dannato. Uccide per conto di un capomafia ed evita di essere ucciso per mano di altri sicari. Quando arriva a casa di uno dei suoi obiettivi vi trova Rita, la sorella cieca. Rita sente la sua presenza e però non fa in tempo ad avvertire il fratello. Salvo dovrebbe uccidere anche lei. Ma non lo fa. La porta con sé nell’ennesimo luogo abbandonato dagli dèi. La bugia detta ai suoi capi non dura a lungo, non può durare. Il boss vuole la ragazza. Salvo la protegge. Il finale è davanti al mare, al suo sciabordare «contro l’approdo di demenza […] offrendo la sua perenne schiuma, ribevendosi la sua turpe risacca» (Gadda, La cognizione del dolore, Garzanti, p. 131).
Credo che i dialoghi di questo film siano contenuti in due, tre pagine, non di più. Puro cinema, dunque, Fatto del rumore del mondo, della costitutiva solitudine degli umani, della loro violenza e della pietà. E però è un film pieno di suoni. Canzoni, latrati di cani, clacson di automobili, crepitare di motorini, voci di piazza, andare di macchinari. Una colonna sonora fatta di rovina e di squallore, intrisa di vita che si perde. Qualche forma riappare attraverso le mani di Salvo sugli occhi della ragazza. Al modo dei re medioevali, il killer taumaturgo restituisce un poco di luce alla vita di Rita.
Rare sono le opere che guidano nel labirinto della tenebra umana, della nostra cecità, del nostro risveglio. «Il sole sarà / E cambierai / La tristezza dei pianti in sorrisi lucenti» recita la canzonetta che pervade Salvo.

Gnosi

The Turin Horse
(A torinói ló)
di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky
Ungheria, Francia, Svizzera, Germania, USA, 2011
Con: János Derzsi (Ohlsdorfer, il vetturino), Erika Bók (la figlia di Ohlsdorfer), Mihály Kormos (Bernhard,  il conoscente), Ricsi (il cavallo)
Musica di Mihály Vig
Trailer del film

«La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e in immagini. Non la si può afferrare in altro modo»
(Vangelo di Filippo, 67, 10)

«Del cavallo si sono perse le tracce» è detto nel prologo. Il cavallo è quello che Nietzsche avrebbe abbracciato il 3 gennaio 1889 a Torino. Un episodio probabilmente spurio, ma questo non ha importanza. Il cavallo ritorna con il suo padrone a casa, dove li attende la figlia. La campagna, brulla e affaticata, è battuta da un vento che mai posa nei sei giorni in cui si dipana il racconto. Padre e figlia ripetono i gesti della terra e della miseria. Vivono nel silenzio e in una luce d’argento che illumina e ferisce. La prima sera il padre nota che dopo tanti anni non si sentono più i tarli. Il giorno dopo Ricsi, il cavallo, si rifiuta di incamminarsi verso la città. Città che forse non esiste più, come racconta Bernhard -un amico venuto a comprare liquori- in un monologo colmo di tragedia, di energia, di accuse nei confronti di un dio incapace e complice del male, nei confronti dell’arconte la cui «creazione è la cosa più orribile che si possa immaginare», nei confronti degli umani la cui lotta «è subdola e meschina», tanto che «tutto quello che toccano, e loro toccano tutto, viene avvelenato. […] Va avanti così da secoli. Sempre così. Sempre e solo questo». Passa un carro con degli zingari, che attingono al pozzo e regalano alla figlia un libro sacro. Ricsi si rifiuta di mangiare. Il pozzo si prosciuga. Il vento continua, come la luce. Sino a che al sesto giorno d’improvviso cessa. Insieme al vento si spegne la luce nel cielo, nelle lampade, nelle braci. «Che cosa sta succedendo, papà? Non lo so». Ombre distinguibili a fatica. Una lampada arde ancora. Poi il buio.
Il cavallo di Torino ha la sapienza di un mito gnostico e la potenza di un affresco medioevale. Nessuna immagine è gratuita o superflua. Lo spazio/ambiente si amplia a poco a poco illuminando gli angoli. Le ore scorrono nella ripetizione. Davanti alla finestra padre e figlia osservano l’esterno e reclinano i significati. Dappertutto fluisce la dissoluzione. Il vento è sentito in ogni trama: regolare, furente, senza posa. Un vento che è magnifica e luttuosa metafora del tempo che tutto intride, penetra, vince, disgrega, in un contrappunto incessante di tenebra e di luce.
Questo film disegna la condizione umana, il suo modo e il suo andare, il suo tramontare per i singoli e per l’intero. Una condizione che secondo il Vangelo di Filippo è simile a quella dell’asino che girando intorno a una mola, «fece cento miglia; quando fu sciolto, si trovò ancora allo stesso posto. Certi uomini camminano molto, ma non arrivano mai da nessuna parte; quando per loro giunge la sera non vedono né città né villaggio né creazione né natura né forza né angelo. Miserabili, hanno sofferto invano»1.
The Turin Horse sembra intuire «quel mistero che sa perché sono sorte le tenebre, e perché è sorta la luce»2. In questo film si dispiega dunque la conoscenza gnostica, la quale «ora avendo il dominio osserva la luce, / ora precipitata nelle miserie piange […] Ora nasce / e infelice non avendo scampo dai mali / vagando entra nel labirinto. […] Cerca di fuggire il caos amaro / e non sa dove passare. / Per lei mandami, Padre della Luce: / avendo i sigilli scenderò, / traverserò distese infinite di tempo / rivelerò gli enigmi / mostrerò le figure degli dèi. / L’arcano del cammino sacro, / chiamandolo gnosi, rivelerò»3.
Lo splendido bianco e nero dell’opera e la sua lentezza non possono essere apprezzati in televisione o su un computer. Il grande schermo della Cineteca Italiana/Spazio Oberdan di Milano ha invece permesso di immergersi nella sua struttura gnostica.
La musica di Mihály Vig pervade il film e ne scandisce l’Aδράστεια, l’Inevitabile.

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/05/Vig_Turin_Horse.mp3]

Note

1 Trad. di Luigi Moraldi, 63, 10.2, in I Vangeli gnostici, Adelphi 1991, p. 58.

Pistis Sophia, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi 1999, II, 91, 10, p. 177.

3 Salmo dei Naasseni sulla ψυχή, in Ippolito, Confutazione V 10, 2, in Testi gnostici in lingua greca a latina, a cura di Manlio Simonetti, Fondazione Valla / Arnoldo Mondadori Editore 1993, pp. 85-87 (con modifiche nella traduzione).

If is a light

Song of Someone
U2
da Songs of Innocence (2014)

If there is a light you can’t always see
And there is a world we can’t always be
If there is a kiss I stole from your mouth
And there is a light, don’t let it go out

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/04/U2.-Song-for-Someone.mp3]
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