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Giuseppe Savoca su Tempo e materia

Giuseppe Savoca: recensione a Tempo e materia. Una metafisica
in La Sicilia, 26 giugno 2020
pagina 18

Giuseppe Savoca è professore emerito di Letteratura italiana contemporanea nell’Università di Catania.
Ebbi la fortuna di seguire da studente le sue lezioni, che mi coinvolsero sino a biennalizzare la disciplina da lui insegnata, che vuol dire dare due esami distinti in due diversi anni di corso. Al Prof. Savoca devo anche lo stimolo a leggere Proust, cosa che ho iniziato a fare a 20 anni e non ho più interrotto.
Ricevere ora da lui un testo così bello è segno della fedeltà della vita, della sua luce, nonostante «la visione tragica di fondo» che intesse il mio esistere e che Savoca ha saputo cogliere profondamente. La sua rigorosa e interrogante recensione non soltanto dà conto in modo chiaro e oggettivo di ciò che il libro cerca di dire ma entra anche in un dialogo critico e fecondo con esso. La risposta all’ultima domanda che pone è che se «la materia in quanto tale è eterna» il modo in cui gli umani possiamo esperirla si pone sempre al confine del Nulla.
Come il professore ha ancora una volta perfettamente compreso, queste sono domande che ci accompagneranno sempre e dalle quali si genera la potenza della parola, che sia quella filosofica o quella poetica. Meditando su Ungaretti, del quale Savoca è uno dei più profondi conoscitori e dei più fini interpreti, l’autore ha colto con chiarezza la «profondità e abissalità tra nulla e infinito» del poeta. Anche la metafisica è un modo di porsi su questo liminare tragico e insieme luminoso.
A Giuseppe Savoca la mia gratitudine di allievo, collega e amico.

Luce che si fa struttura

Georges de La Tour
L’Europa della luce

A cura di Francesca Cappelletti
Palazzo Reale – Milano
Sino al 27 settembre 2020

Non ci sarebbe stato, naturalmente, senza Caravaggio. Ma non ci sarebbe stato neppure senza i fiamminghi antichi e i più recenti, come i maestri di Utrecht. Non ci sarebbe stato senza l’intera pittura nordeuropea della prima metà del Seicento. E soprattutto non ci sarebbe stato senza la luce. La luce della notte e la luce della sua mente. La mente di Georges de La Tour (1593-1652). Quella che emerge nella penombra dei suoi spazi; nei trapezi e nei rettangoli dei suoi abiti; nell’energia dei suoi mendicanti; nel riverbero incredibile e soffuso delle candele.
La mostra milanese accompagna ai dipinti di de La Tour quelli di alcuni dei suoi contemporanei: prima di tutto il sempre vivace e ammaliante van Honthorst, con una splendida Vanitas (1618, qui a destra, anche se la foto -ahimè- non rende) nella quale la bellezza di una donna diventa specchio, morte, giustizia, arcano; poi un pittore senza nome, chiamato Maestro del Lume di Candela, poiché una candela è sempre il centro dal quale si dipartono i corpi, gli eventi, le situazioni; infine altri artisti nelle cui tele si diffonde una polvere di luce.
Tra i dipinti di de La Tour esposti a Palazzo Reale ci sono alcune opere della prima fase – Il denaro versato; La rissa tra musici mendicanti – nelle quali esplode una violenza che sembra tanto antica quanto naturale, nelle quali il denaro condiziona, plasma e deforma i volti degli umani. Le opere più mature – I giocatori di dadi (in alto), Educazione della vergine – acquistano significati e forme del tutto nuove e potenti, con figure sempre più nette, geometriche, astratte dallo spaziotempo, dentro la luce che si fa struttura. Queste opere e Giobbe deriso dalla moglie (1650, a sinistra) stanno al confine tra la pittura italiana e quella dell’Europa del Nord. Nel Giobbe una figura grande, dominante sino al divino, surclassa un uomo nudo e vago, il cui sguardo è, rispetto alla potenza di lei, una lacrima tenace. Uno degli ultimi dipinti – San Giovanni Battista nel deserto (sotto)– raffigura una solitudine ai confini delle tenebre, del nulla.
Di lui Roberto Longhi disse: «È un pittore sorprendente. Non abbiamo strumenti per misurare il suo genio; ma sento che il talento di de La Tour spezzerebbe più di un manometro».
Dentro Caravaggio ma al di là di Caravaggio, Georges de La Tour incarna un ideale matematico-platonico, un espressionismo esoterico, arcaico e modernissimo dove tutto sembra vibrare di immobilità sospesa, enigmatica, luminosa.

Eraclito / Heidegger

Recensione a:
Martin Heidegger
Eraclito
L’inizio del pensiero occidentale – Logica. La dottrina eraclitea del Logos
(Heraklit. Corso di lezioni friburghese – Semestre estivo 1943 e 1944 – Vittorio Klostermann, Gesamtausgabe, Band 55)
Mursia, 2017
Pagine 272
in Vita pensata, numero 21, gennaio 2020
pagine 82-83

Molto al di là dell’elemento biografico e aneddotico, del tutto inessenziale; al di là della psicologia, della quale i Greci nulla sapevano; al di là dei dualismi –primi tra tutti quelli di mente e mondo, soggetto e oggetto–; al di là della sterile distinzione di teoria e prassi, la φύσις di Eraclito è pura ontologia ed è pura luce, poiché «l’essere ‘è’ il più prossimo di tutto ciò che ci è prossimo» (p. 71) ed è nello stesso tempo il più enigmatico da cogliere, comprendere, dire.
Φύσις è infatti il «nome iniziale greco di quel che noi chiamiamo essere» (237), è l’originario sorgere degli enti –terra, cielo, animali, umani, dèi– i quali possono essere pensati, compresi e detti soltanto perché si svelano, si mostrano e appaiono; perché emergono nella luce. Viventi o meno che siano, gli enti costituiscono lo schiudersi della materia nello spazio e nel tempo, il suo manifestarsi e splendere, la sua in termini heideggeriani Lichtung e in termini eraclitei luce -Φῶς / φάος.
La φύσις è quindi il venire a manifestazione della ζωή, dell’energia che si raggruma in consapevolezza, vita, divenire. Non la banale ed equivocante parola natura ma il convergere dell’inorganico, dell’animalità, dell’umano e degli dèi nel tempo che -in modo diverso- tutti sono. 

Scultura / Luce

Cerith Wyn Evans “….the Illuminating Gas”
Milano –  Hangar Bicocca
A cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí
Sino al 23 febbraio 2020

Fin dal suo titolo la mostra di Cerith Wyn Evans rende omaggio a Marcel Duchamp, alla sua enigmatica opera postuma dal titolo Étant donnés: 1º la chute d’eau, 2º le gaz d’éclairage, espressione quest’ultima che in inglese viene tradotta con the Illuminating Gas. La mostra consiste in sculture di luci, in sculture sonore che producono armonie e dissonanze, in chilometri di tubi al neon sospesi nello spazio a formare segmenti, linee, cerchi, ellissi, arabeschi, scarabocchi, rettangoli, stelle. Tutto questo preceduto da sette colonne luminose che si elevano toccando quasi l’alto soffitto dello Hangar Bicocca.
È la luce a costituire il più potente e pervasivo Zeitgeber, il segnatempo al quale i corpi animali e vegetali affidano la regolarità delle proprie strutture vitali. La luce permette di sincronizzare i ritmi endogeni con quelli esterni del giorno e della notte e permette dunque ai corpi di sincronizzarsi con il volgere della Terra e del Sole.
Nello spazio tanto enorme da apparire quasi vuoto della navata dello Hangar le opere di Evans sembrano epifanie germinate dalla terra e provenienti dal cosmo. Una vera e propria metafisica della luce come vita trasparente a se stessa, come vita sensata. Metafisica che scaturisce dal fatto che dentro l’esistere, dentro il suo enigma, la meraviglia è una luce che illumina il cieco muro del reale, che rende comprensibile la forza abbagliante di ciò che c’è ed esiste. La relazione tra la presenza e l’assenza è uno dei nuclei stessi della metafisica, la quale è un discorso sul visibile a partire dall’invisibile. Anche per questo, in relazione alla mente umana, la verità assume la struttura di una luce che affranca dall’errore.
La metafisica è la comprensione di una verità semplice e profonda, quella per la quale l’essere è analogo alla luce, la quale può essere vista soltanto quando tocca gli enti, rimanendo di per sé non visibile. Come, appunto, l’essere. L’intero pensiero umano sul mondo, ciò che chiamiamo cultura nella varietà delle sue espressioni -tra le quali l’arte, la religione, la filosofia- è il ripetuto tentativo di comprendere questo gioco dell’invisibile e con esso il mondo.
Τὸ μὴ δῦνόν ποτε πῶς ἄν τις λάθοι; «Come potresti rimanere nascosto di fronte a ciò che non tramonta mai?» (Eraclito, detto n. 16).

Video della mostra 

La mente di Van Gogh

Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità
(At Eternity’s Gate)
di Julian Schnabel
USA, 2018
Con: Willem Dafoe (Vincent Van Gogh), Oscar Isaac (Paul Gauguin), Rupert Friend (Theo Van Gogh), Emmanuelle Seigner (Madame Ginoux), Mathieu Amalric (il Dr. Paul Gachet)
Trailer del film

In movimento, a frammenti, su campi lunghissimi e poi su primissimi piani dai quali emergono gli occhi, la pelle, le scarpe, le mani, altro. A volte con la metà inferiore dell’inquadratura sfocata e la parte superiore oscillante. Il cielo che si capovolge in vegetazione, il fango che diventa nuvola. E poi domande su domande da parte di chi non capisce e vorrebbe ricondurre Van Gogh alla misura della consuetudine, della stasi. Interrogatori ai quali il pittore risponde con lucidità, precisione, intelligenza. Guardandoci con i suoi occhi azzurri.
Così Julian Schnabel è riuscito a restituire la mente di Van Gogh. Una intuizione registica profonda e una virtuosistica prestazione tecnica con la quale il cinema conferma ancora una volta la sua capacità di entrare nella psiche umana che è fatta di istanti, intuizioni, ripetizioni, relazioni, vuoti, al modo dei fotogrammi di un film, legati tra di loro e tra loro sempre diversi.
L’innocenza di Vincent Van Gogh emerge da questa forma in tutta la sua bellezza, la sua purezza, la sua differenza, la sua mobilità rispetto alla morta gora delle persone di comune intelligenza e di comune vita che lo circondano, ne diffidano, lo odiano, lo cancellano. Tra questi i bambini di una classe elementare -feroci come soltanto i bambini sanno essere-, i loro genitori viventi dentro i confini di un borgo -Arles- del quale ignorano il fulgore, i giovinastri di Auvers-sur-Oise che forse hanno ucciso lui e che certamente hanno tentato di uccidere i suoi quadri.
Tutti costoro sono da molto tempo ossa e polvere che nessuno giustamente più ricorda. Sono il nulla. Van Gogh è invece ancora il sole. «‘Che cosa dipingi?’ ‘La luce’».

Kubrick gnostico

In occasione dei cinquant’anni dall’uscita di 2001. A Space Odyssey, martedì 11 dicembre 2018 l’Università Ca’ Foscari di Venezia ha organizzato un Convegno dal titolo 2001: l’Odissea di Kubrick e la Mente Cinematografica. Vi terrò una relazione su Kubrick gnostico: il cinema come materialuce. La sede del Convegno è l’Auditorium Santa Margherita di Venezia.

Pubblico qui l’abstract della mia relazione

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Plato is Philosophy and Philosophy is Plato. L’affermazione di Emerson potrebbe essere volta in questa forma: Kubrick is Cinema and Cinema is Kubrick. La perfezione tecnica, la forza delle immagini, l’unitarietà del percorso che da Day of the Fight (1951) conduce a Eyes Wide Shut (1999), la continua innovazione e un classicismo fuori dal tempo, sono alcune delle ragioni che giustificano l’identificazione tra Stanley Kubrick e l’arte cinematografica. Il senso dei suoi film è evidente e nello stesso tempo inaccessibile, come l’esistenza. Esso nasce da una antropologia negativa perché fin troppo illuminata, dentro la quale si mostra la radice gnostica del pensiero di Kubrick. Gnosi è anche la possibilità di attraversare il buio, l’incomprensibile, l’enigma -come fa David nella sezione Jupiter and Beyond the Infinite di 2001– senza soccombere ma anzi diventando luce e dalla luce rinascendo. In tutta l’opera di Kubrick il familiare diventa mostruoso, la Heimat –la dimora, la terra, l’Overlook Hotel- si trasforma nello Unheimlich, nell’inquietante dentro la cui ombra ci si può smarrire. Ma l’occhio della mente cinematografica e filosofica può guardare la Gorgone e non morire: gli occhi chiusi/spalancati su questo mondo oscuro si aprono ad altre visioni poiché –afferma Kubrick- «il vero scopo di un film è fare luce».
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Tempo e coscienza

Tempo e coscienza nelle analisi di Paul Ricoeur, Francisco Varela, Henri Bergson, William James, Eugène Minkovski, Russell Foster, Leon Kreitzman, Arnaldo Benini, Claudia Hammond, Thomas Mann, Martin Heidegger. Un percorso nel quale ho accennato anche ai fondamenti di una psicologia e una metafisica della luce.
E tutto questo in dialogo costante e partecipe con gli allievi della Scuola Superiore e con altri studenti dell’Università di Catania.
Pubblico dunque su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile) della seconda e ultima lezione sulla Coscienza  che ho svolto  il 4 maggio 2018.

[Prima lezione del 3 maggio 2018]

[Photo by Daniele Levis Pelusi on Unsplash]

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