Il dato politico clamoroso di queste elezioni regionali del febbraio 2023 è l’infima partecipazione dei cittadini al voto. In Lombardia si è recato a votare il 41,6 degli aventi diritto. Nel Lazio il 37,2. La media tra le due regioni è il 39,4. Mai accaduto nella storia repubblicana.
Le cause sono molte ma una delle ragioni è evidente: che senso ha andare a votare se le decisioni politiche che contano, quelle che influenzano ogni altro provvedimento e la vita dei cittadini italiani, non vengono più prese a Roma o a Milano ma a Bruxelles e a Washington?
Perché è esattamente questo che accade da molti anni e in modo sempre più implacabile.
Recarsi a votare non ha più senso poiché, qualunque sia l’esito delle elezioni, le politiche dei governi – regionali o nazionale che siano -continuano a essere le stesse stabilite dai poteri sovranazionali ai quali l’Italia delega sempre più il proprio presente e il futuro. E questo su tutto: leggi e decisioni economiche; privatizzazione totale dei servizi essenziali (sanità, formazione, trasporti); questione dei migranti; guerre delle NATO e degli USA in Europa e contro l’Europa.
Chiunque vinca le elezioni la sostanza della politica italiana non muta, ed è sempre quella che si condensa e invera nell’azione e nel potere della formazione politica che meglio rappresenta e difende gli interessi del globalismo finanziario e culturale: il Partito Democratico. Una formazione politica corrotta, filoatlantica, obbediente in tutto agli Stati Uniti d’America, guerrafondaia, serva della finanza internazionale.
La destra al governo ha le stesse caratteristiche ma con molto meno influenza sul corpo collettivo, sulla stampa, sulla televisione, sulle banche. Sui veri centri del potere.
Veloci sono spesso i cambiamenti collettivi. A volte anche repentini. Diventano fulminei in presenza di eventi che sconvolgono proprio da un giorno all’altro la vita di milioni di persone. E quindi se «fino a pochi mesi addietro, in tutti i paesi si indicava come uno dei gravi drammi dell’epoca la solitudine», se «se ne discuteva sulla stampa, in radio, in tv, sul web», se «per combatterla si proponeva la ricetta dell’empatia. Dell’affetto. Della vicinanza. Dell’abbraccio. Di colpo, lo scenario si è rovesciato. […] Distanziamoci. E criminalizziamo chi non sta alle regole» (Marco Tarchi, Diorama Letterario 355, maggio-giugno 2020, p. 1).
Criminalizzazione che è uno degli effetti di «una vera e propria fabbrica della paura, che mette quotidianamente in circuito immagini e discorsi allarmanti» (Id., p. 2). Alcune delle conseguenze sono state sperimentate in un modo o nell’altro da tutti i cittadini. E sono queste: «La gran parte delle persone ha sacrificato volontariamente la propria libertà in cambio di un’illusoria sicurezza. La nostra prigionia, per quanto imposta dallo stato, è accettata dai più come male necessario. Lo Stato, principale responsabile della diffusione dell’epidemia, si declina come Stato Etico, padre che comanda, punisce e imprigiona i figli per il loro “bene”. I nemici sono quelli che non si piegano alle regole, persino quelle più insensate. I nemici sono i sanitari che denunciano la strage, invece di scrivere una pagina del libro Cuore del Covid-19. I nemici sono i lavoratori che scioperano nonostante i divieti, perché il ruolo di agnello sacrificale gli sta stretto. I nemici sono i detenuti che provano a sopravvivere. La delazione verso il vicino che trasgredisce è il premio morale per chi, strangolato dalla paura, resta intanato in casa, in inconsapevole attesa che il virus gli venga recapitato a domicilio dal parente che lavora o fa la spesa. Il panopticon globale è il passo successivo, la condizione che ci viene posta per passare dai domiciliari alla libertà vigilata. Sinora i più si sono piegati allo stato di eccezione senza opporre resistenza» (Maria Matteo, A Rivista anarchica, n. 443, maggio 2020, p. 12).
Sullo stesso numero di A Rivista anarchica, Giuseppe Aiello descrive una situazione che ho vissuto anch’io, identica, nel dialogo con alcuni amici e colleghi: «In tempi di pace, quando i morti sul lavoro, sulle autostrade, di cancro industriale si contano a decine di migliaia, ma non c’è “lo Gran Morbo” a minacciarci, citano Foucault come se fosse una specie di amico di famiglia dal quale hanno analiticamente appreso i segreti della microfisica del potere sin da quando erano in fasce. Adesso che si sono all’improvviso brancaleonizzati, della critica dell’istituzione medica, dell’analogia strutturale tra luoghi di detenzione brutale come il carcere e quelli della salute statalizzata non sanno più nulla. Ma come, il rapporto medico-paziente non era uno dei cardini della torsione autoritaria della società disciplinare? L’ospedale non aveva lo stesso significato di manicomio e caserma? No, roba passata, mò ce stà ‘o virùss» (p. 32).
Il virus ha colpito in modo drammatico l’Italia e l’Europa, le cui classi dirigenti reputano la sanità pubblica uno spreco da tagliare, tagliare, tagliare. In Lombardia, terra molto solerte nel tagliare, le conseguenze sono state tragiche.
L’Unione Europea, come mostra anche l’«accordo» suicida che in questi giorni i media presentano come una vittoria dell’Italia (!), non mira soltanto a tagliare quanto più possibile le spese sociali ma, più in generale, a «fare tabula rasa della lunga e ricca storia europea» (Yann Caspar, Diorama letterario 355, p. 14), cancellando il tesoro delle differenze a favore di una omologazione identitaria fondata sul primato di ciò che Aristotele chiamava crematistica, vale a dire l’elemento soltanto finanziario.
«Ilda Boccassini, a capo del dipartimento Antimafia della procura, si concentra sulla ‘incredibile quantità di denaro sottratto al fisco da parte di imprenditori lombardi e siciliani. Un fiume di denaro contante, prodotto e transitato in nero che partiva da Milano e arrivava in Sicilia’. In particolare, ‘c’erano imprenditori che pagavano operai per farsi costruire in casa veri e propri imboschi per il denaro contante’. Sul giro di affari delle società coinvolte, Boccassini dice: ‘In pochi mesi, le società osservate hanno generato proventi per 20 milioni di euro, in parte trasferiti in Slovacchia e Romania’. Sul tenore criminale degli arrestati, il procuratore aggiunto dice: ‘Sono consistenti i legami con famiglie mafiose di Castelvetrano’.
Un meccanismo ‘desolante’, con ‘logiche e, soprattutto, condotte che si presentano in territorio lombardo con le stesse modalità con cui, da oltre un secolo, si manifestano in territorio siciliano’. Così, il gip Mannocci, descrive il meccanismo con cui gli indagati operavano per ottenere appalti e riciclare denaro per conto dei clan. ‘Pur concretizzandosi in un contesto territoriale del tutto differente da quello originario – scrive il giudice – le metodiche di gestione degli interessi mafiosi sono sostanzialmente le stesse’».
(Milano, le mani di Cosa nostra sugli appalti in Fiera ed Expo: 11 arresti, confische milionarie, la Repubblica, 6.7.2016)
«A Nastasi, a suo padre Calogero e a Pace è contestata anche l’aggravante di aver agito per favorire Cosa Nostra con la consegna di denaro in contanti (prodotto dal ‘nero’ delle fatture false e dal riciclaggio) ad un esponente (attualmente detenuto per associazione mafiosa) del clan di Pietraperzia: Pace, che in passato è stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa, è sposato con la figlia di un condannato per associazione mafiosa, e la cognata è moglie di un altro condannato per mafia, mentre nell’hinterland milanese a Pioltello la zia della moglie di Nastasi è invece sposata con un condannato per associazione mafiosa nel processo di ‘ndrangheta Infinito, a sua volta fratello del pure condannato capo della “locale” di Pioltello.
Proprio uno dei viaggi del denaro in contanti dal Nord al Sud è costato l’arresto (con l’accusa di riciclaggio aggravata dalla finalità di favorire Cosa Nostra) anche all’avvocato nisseno Danilo Tipo. Il 23 ottobre 2015, mentre era in corso una perquisizione di routine in una cooperativa, Pace ha messo in salvo a casa sua e consegnato 295.000 euro in contanti all’avvocato, il quale, infilatili in 25 buste bianche di plastica dentro un sacchetto di carta nero, li ha portati dalla Lombardia in Sicilia nel bagagliaio della propria Fiat 500, provando a spiegarli (all’alt di un finto-casuale posto di blocco in autostrada) che erano parcelle forensi pagategli ‘in nero’ da alcuni clienti. Il solo Pace, invece, è accusato di riciclaggio per un secondo trasporto di contanti dalla Lombardia in Sicilia a bordo di un camion, stavolta 413.000 euro nascosti il 14 giugno 2015 dentro un valigia nella custodia di cartone di una piscina gonfiabile»
(La mafia e gli stand della Fiera per Expo, 11 arresti a Milano, Corriere della Sera, 6.7.2016)
Conosco bene i luoghi dai quali i miei conterranei partono per conquistare il mondo, compresa la Lombardia: Caltanissetta, Pietraperzia (Enna), Castelvetrano (Trapani). Centri medi e piccoli verso i quali i siciliani attirano l’immensa avidità degli amministratori della Lega Nord, di Forza Italia, del Partito Democratico, del Nuovo Centrodestra.
L’Expo di Matteo Renzi e di Beppe Sala è stato un banchetto per le mafie e un modello di distruzione del lavoro. Sono orgoglioso di non essere andato, di non averlo visitato, pur essendosi svolto a due passi dalla mia casa milanese.
La ‘Grande Opera’ che dà visibilità all’Italia di Renzi è il convergere delle mafie nel governo composto dal Partito Democratico e dal Nuovo Centrodestra. Reputo gli elettori di questi partiti complici del malaffare e della mafie. A loro -non ai loro capi- chiedo conto della rovina e della corruzione nella quale stanno precipitando l’Italia.
Verso la Certosa
di Carlo Emilio Gadda
(1961)
A cura di Liliana Orlando
Adelphi, 2013
Pagine 249
Libro nato da travagliato parto, come spesso in Gadda, ma che di tale fatica non risente. Nella varietà dei suoi temi parla infatti una scrittura classica, direi radicalmente classica nelle sue variazioni espressionistiche, violente, e però sempre intrise di un’armonia inimitabile. Milano e la Lombardia rappresentano l’orizzonte geografico e antropologico privilegiato: la Fiera campionaria; i luoghi visitati e vissuti da Petrarca; la bizzarria della Borsa; il mercatino di Senigallia; il risotto alla milanese descritto in uno stupefacente capitolo/ricetta dal quale si sprigiona il sapore stesso della pietanza. E poi il titolo. Verso la Certosa per i milanesi vuol dire infatti anche verso il cimitero, verso il luogo dove cesseranno insieme lo «scarso cervello del mondo» (p. 11) e «la disperazione» che «mi chiamava, chiamava, dal fondo dei suoi deserti senza carità» (36). A Milano c’è questo e c’è tutto il resto, per chi sappia vederlo e viverlo, poiché «tutto esiste a Milano, Milano è la scansia d’ogni possibilità […] dentro la cerchia dell’onniprassi milanese» (48).
Gadda intrattiene uno stretto rapporto con Manzoni, il cui nome e le cui parole tornano spesso, condite di costretta ammirazione e d’ironia liberatrice, come nel «magno seggiolone» scoperto tra i mobilieri brianzoli e sul cui barocco d’imitazione «par di vedere assiso, col suo collare di pizzo, il Conte Zio» (94), o nei pensieri di fronte al Resegone: «Il totem orografico della manzoneria lombarda mi pareva levantarsi, castigo ingente, da un fallimentare ammucchio di bozzoli: emerso dal vaporare delle filande, di tutte le bacinelle di Brianza: o dell’Adda o del Brembo» (34).
Parla spesso in queste pagine l’ingegnere, anche con dettagli tecnici come quelli descritti per il Duomo di Como o la critica esatta e pungente all’utilizzo esclusivo del cemento armato nelle case, nei falansteri vittime della scarsa inerzia del calcestruzzo, del rimbombare di ogni pur minimo suono, vittime dello «svantaggio termico: le stanze si raffreddano e si riscaldano al variare della temperatura esterna con le ore del giorno: il sorgere del sole è percepito attraverso la scemenza dei forati dall’inquilino a levante, la bestiale autorità del sole estivo delle sedici diciotto è patita attraverso la inefficienza dei forati dalla indifesa agonia e dal sudore turco dell’inquilino a ponente» (122).
Al di là della Lombardia, Gadda vede ovunque moltiplicarsi ciò che Ortega Y Gasset definiva il pieno, lo spremersi e infoltire degli umani nello spazio, come nella Versilia che fu dei poeti e che adesso è invasa da scalmananti e turistiche folle: «Infiniti giornali, infinita gente, infinite tasse di soggiorno, infiniti pullman: infinite biciclette, ora: e l’oblioso ozio, nel giorno, d’una gente che sguazza, si cura i piedi, cuoce, cuoce sotto il sole» (115). Masse che ben servono da carburante e da combustibile a quei singoli che proclamano di parlare e agire a lor vantaggio e che invece è naturalmente al proprio e personale bene che sanno puntare lestamente. Nell’arco storico che da Mussolini va a Renzi, e passando per i troppi intermediari che li uniscono, sembra davvero che in Italia comandi sempre l’incessante e «truculento guappismo dei novatori coûte que coûte», lo «sconsiderato padreternismo dei tira linee quattordicenni: sì, età mentale quattordici» (121). Coûte que coûte è il «costi quel che costi» proclamato a ogni piè sospinto da Renzi, dal suo -per l’appunto- «truculento guappismo» di «novatore».
Osservando il mondo, vivendolo, andando verso la Certosa, lo scrittore Carlo Emilio Gadda conclude con una giustificata bestemmia nei confronti del funesto demiurgo che ha dato essere alle cose che son vive. Meglio non l’avesse fatto, «che il diritto è una bella balla: e che Giove Pluvio è un cialtrone, un istrione, e un porcone» (127).