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Organon

Aristotele
Organon
Categorie, Dell’espressione, Primi Analitici, Secondi Analitici
in «Opere», a cura di Gabriele Giannantoni, volume I
Traduzione e note di Giorgio Colli
Laterza 1982
Pagine LXIV-373

Logica, Metafisica, Etica nel pensiero aristotelico appaiono sempre strettamente legate. Quanto viene acquisito in un ambito contribuisce a chiarire e ad approfondire altre discipline, settori, domande. È anche questo movimento interno della verità – quasi come il sangue che circola in un corpo – a fare dell’opera aristotelica una struttura di pensiero sempre viva, pulsante, attuale, come se fosse stata scritta oggi. Ciò che è stato chiamato Organon, lo strumento della ricerca, non è limitabile al campo della logica pur fondando la logica.
Nelle prime quattro delle sei opere che compongono l’Organon viene, infatti, chiarita la distinzione che è anche metafisica tra le sostanze prime – l’ente singolo nel qui e ora della sua esistenza irriducibile – e le sostanze seconde, i concetti, i generi, gli universali. Non ha quindi senso affermare che una sostanza prima sia più sostanza di un’altra, dato che il semplice esserci qualifica e caratterizza gli enti che sono. La logica mostra qui la sua natura profonda di scienza non antropomorfica, pur costituendo proprio essa una tipica caratteristica umana.

La ragione per cui le sostanze prime si dicono sostanze in massimo grado consiste nel fatto che esse stanno alla base di tutti gli altri oggetti, e che tutti gli altri oggetti si predicano di esse, oppure sussistono in esse […]. Allo stesso modo, del resto, tra le sostanze prime nessuna è sostanza in misura maggiore di un’altra; un determinato uomo è infatti sostanza in misura per nulla maggiore di un determinato bue.
(Cat. 5, 2b 15-30)

Se i concetti altro non sono che la generalizzazione degli enti operata dalla mente umana, è chiaro che ogni conoscenza non può nascere che dal contatto con la dimensione concreta degli oggetti singoli, della pluralità infinita e determinata delle cose individuali. La contrapposizione alla gnoseologia del Menone è quindi esplicita: «in effetti, non ci accadrà mai che dell’oggetto singolo sussista una prescienza; si deve dire piuttosto che mentre si sviluppa l’induzione noi assumiamo la conoscenza degli oggetti particolari, come se li riconoscessimo» (An. post. B 21, 67a 22-25; cfr. anche An. post. A 1, 71b 6-10). Non solo: nessuna conoscenza è possibile se si prescinde dalla sensazione «dal momento che noi impariamo o per induzione, o mediante dimostrazione […] non è tuttavia possibile cogliere le proposizioni universali se non attraverso l’induzione, poiché anche le nozioni ottenute per astrazione saranno rese note mediante l’induzione» (An. Post. A 18, 81a 39-40, 81b 1-5).
Dal particolare all’universale, dal singolo al concetto, questo è secondo Aristotele il cammino della conoscenza. Dalla sensazione nasce il ricordo, dal ricordo ripetuto si genera l’esperienza. Le forme più alte del sapere, l’intuizione e – a essa subordinata – la dimostrazione, hanno quindi a fondamento la sensazione diventata esperienza. Ma lo Stagirita non è un semplice empirista. Prima di Galilei e della Rivoluzione scientifica, nata più contro gli aristotelici che contro Aristotele, egli aveva chiara la differenza fondamentale tra la semplice osservazione dei fenomeni e la loro comprensione razionale. La percezione da sola non è, infatti, spiegazione: «la conoscenza dimostrativa non si può raggiungere attraverso la sensazione […] La sensazione si rivolge, infatti, necessariamente all’oggetto singolo, mentre la scienza consiste nel render noto l’oggetto universale» (An. post. A 31, 87b 28-35; cfr. anche An. post. A 13, 79a 10-12).

Le Categorie accennano anche alle tesi sviluppate nella Fisica a proposito delle diverse forme del mutamento, qui individuate in sei ma sintetizzabili in quattro: «generazione e corruzione, accrescimento, diminuzione, modificazione qualitativa, movimento» (14, 15a 13-14); elencano poi le dieci categorie: «i termini che si dicono senza alcuna connessione esprimono, caso per caso, o una sostanza, o una quantità, o una qualità, o una relazione, o un luogo, o un tempo, o l’essere in una situazione, o un avere, o un agire, o un patire» (4, 1b 25); enunciano infine una vera e propria filosofia del linguaggio che ha a fondamento la distinzione tra il nome, il verbo e la proposizione: un nome può diventare vero/falso solo se viene unito a una predicazione-determinazione, la funzione di verità dipende quindi dalla connessione fra i nomi, ciascuno dei quali può essere sensato o meno ma mai da solo può essere vero o falso.
La filosofia del linguaggio viene ulteriormente sviluppata nel De interpretatione. Qui Aristotele afferma con molta chiarezza che «i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce» (1, 16 a 5). Anche per questo, «nessun nome è tale per natura» e il linguaggio è una delle espressioni peculiari dell’identità umana, intessuta sin dall’inizio di artificio, convenzione, tecnica (2, 16 a 25-30).
Anche qui, come in molti dei suoi scritti, Aristotele ribadisce il principio di fondo – ancora una volta insieme logico, gnoseologico e metafisico – secondo cui «noi pensiamo di conoscere un singolo oggetto assolutamente -non già in modo sofistico, cioè accidentale- quando riteniamo di conoscere la causa, in virtù della quale l’oggetto è» e la necessità che lo fa esistere e agire (An. post. A 2, 71b 9-10; cfr. anche An. post. B 8, 93a 4-5).

I risultati più specificatamente logici delle ricerche contenute nell’Organon sono riassumibili nel principio di non contraddizione: «Orbene, non è possibile che delle determinazioni contrarie appartengano simultaneamente allo stesso oggetto» (De interpr., 24b 10); nella delineazione di ciò che gli scolastici chiameranno «quadrato logico» (Ivi, 24b 1-5; An. pr. B, 62a 15-19); nella lucida, approfondita e finanche appassionata discussione dei sillogismi, delle dimostrazioni, dei ragionamenti capziosi come il “circolo vizioso”: «la dimostrazione è infatti un particolare sillogismo, mentre non tutti i sillogismi sono dimostrazioni. Orbene, quando tre termini stanno tra di essi in rapporti tali, che il minore sia contenuto nella totalità del medio, ed il medio sia contenuto, o non sia contenuto, nella totalità del primo, è necessario che tra gli estremi sussista un sillogismo perfetto» (An. pr. A 4, 25b 30-35). Cfr. anche An. pr. B 16, 64b 25-30, 65a 1-5; An. post. A 2, 71b 19-21; «colui che possiede la dimostrazione universale conosce pure l’oggetto particolare, mentre colui che possiede la dimostrazione particolare non conosce l’oggetto universale» (An. pr. A 4, 24, 86a 12).
Certo, molte pagine dell’Organon sono assai tecniche, a volte oscure e non prive di contraddizioni. Non a caso, la filologia aristotelica trova in esse un campo assai vasto di indagine. E tuttavia, il pensiero dello Stagirita è alla fine sempre lucido, coerente e sistematico; una vera e propria machine à penser. L’aristotelismo è tuttavia un dispositivo sempre consapevole dei limiti che ineriscono al ragionare umano, tanto più grandi quanto più esso si autocostruisce nella formalizzazione logica. Infatti, «su argomenti di questa natura è forse difficile, senza aver condotto ripetute indagini, formulare delle dichiarazioni nette; non è tuttavia inutile l’aver agitato delle difficoltà su questi vari punti» (Cat. 7, 8b 20-25). Ed è proprio tale agitazione uno degli specifici elementi della filosofia.

Aristotele

Aristotele
Metafisica
in «Opere», volume VI
Traduzione e note di Antonio Russo
Laterza 2019 [1982]
Pagine 440

Il trattato che gli editori di Aristotele, tra i quali Andronico di Rodi, raccolsero e pubblicarono dopo gli scritti di fisica, μετά τα Φυσικά, si compone di quattordici libri. In essi viene esposta la «filosofia prima», ovvero la scienza dei principî, delle cause e delle sostanze. Introducendo la sua nuova traduzione in italiano della Metafisica Enrico Berti scrive che «l’impressione complessiva che un lettore può provare è quella di trovarsi di fronte a un testo difficile, complicato, spesso incomprensibile. Ebbene, questo è esattamente la Metafisica di Aristotele, uno dei testi filosofici più difficili che l’antichità ci abbia trasmesso, che richiede al lettore sforzo, fatica, pazienza, intelligenza» (Metafisica, Laterza, Bari-Roma 2017, p. XIII).
È così. Ma la lettura e la riflessione su questo insieme di trattati è propedeutica a qualunque comprensione della filosofia europea e in cambio dell’impegno offre uno sguardo oggettivo e profondo sulla realtà. La nuova traduzione di Berti è molto letterale e più fedele al testo rispetto a quella di Antonio Russo. Preferisco tuttavia riassumere e citare da quest’ultima perché il mio obiettivo consiste qui solo nel presentare, per quanto possibile, i concetti fondamentali di Aristotele e invitare a conoscerli direttamente dall’opera, nella traduzione che si ritiene più adatta ai propri interessi di studio. 

Per Aristotele dunque l’impulso alla conoscenza – presente per natura in ogni umano (libro A [I], cap. 1, 980a, 20) – nasce dallo stupore, dalla meraviglia (A [I], 2, 982b, 10-15). È da essa che si origina la scienza più profonda e l’attività più alta, l’attività teoretica il cui scopo ultimo è «la verità» (α [II], 1, 993b, 20). Conoscere la verità significa conoscere le cause di ciascun ente e del divenire. Esse sono quattro.

  1. «Ciò da cui proviene l’oggetto e che è ad esso immanente»
  2. «La forma e il modello, vale a dire la definizione del concetto e i generi di essa»
  3. «Ciò donde è il primo inizio del cangiamento e della quiete»
  4. «Inoltre la causa è come fine, ed è questa la causa finale, come del passeggiare è la salute»
    (Δ [V], 2, 1013a, 24-35, 1013b, 2).

Per riuscire a condurre l’indagine sulle cause è indispensabile un principio guida che sia sicuro e saldo. Di esso Aristotele aveva già parlato nell’Organon: si tratta dello strumento logico preliminare a ogni pensiero, il principio di non-contraddizione, secondo cui «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione» (Γ [IV], 3, 1005b, 19).
A questo principio fondamentale va unita la consapevolezza che non è possibile dare dimostrazione di ogni cosa poiché tale pretesa condurrebbe al regresso all’infinito, che per Aristotele coincide con l’irrazionale. Inoltre, si dà conoscenza scientifica soltanto di ciò che è universale poiché gli enti individuali sono dominio della semplice sensazione.
Posti questi fondamenti, il filosofo identifica la prima importante distinzione ontologica nella potenza e nell’atto. Potenza è la possibilità del divenire, l’atto è la potenzialità realizzata. Il passaggio dall’una all’altro è il movimento, è il tempo. L’atto possiede sempre una originaria prevalenza: «ciò che è in atto proviene sempre da ciò che è in potenza, ma proviene per opera di qualcosa che è attualmente esistente» (Θ [IX], 8, 1049b, 24). I principî sinora esposti e la distinzione tra atto e potenza dicono in modo chiaro che il lavoro teoretico si rivolge a un mondo in sé esistente, autonomo dalle sensazioni del vivente, «non è affatto possibile che i sostrati, i quali producono la sensazione, non esistano anche senza la sensazione» (Γ [IV], 5, 1005b, 34-35).

La teoresi si distingue in tre tipologie: matematica, fisica, teologia. La prima si occupa di enti immobili ma che (probabilmente) non esistono separati da una materia; la seconda studia enti che esistono separatamente ma non sono immobili; la filosofia/teologia (l’’onto-teo-logia’ della quale parla Heidegger ma che appartiene molto a Heidegger e poco ad Aristotele) indaga anche gli enti «che esistono separatamente e che sono immobili» (Ε [VI], 1, 1026a, 13-19). Anche perché la teoresi teologica si occupa certamente delle cause divine ma pure degli elementi materici (acqua, aria, terra, fuoco), delle forme che costituiscono le sostanze materiche e dei fini della sostanza, vale a dire la piena realizzazione della sua forma. In questo modo, la metafisica è la scienza prima che comprende in sé tutte le altre.

L’indagine aristotelica si nutre di una pacata ma costante distanza dalla teoresi platonica, che si involverebbe in una vasta serie di incongruenze, contraddizioni e arbitrarietà, tra le quali sono particolarmente gravi l’autonomia ontologica data ai numeri; la separazione delle forme ideali (le ‘idee’) dagli enti sensibili; la concezione dell’universale come forma separata dalla materia; la caratterizzazione dell’Uno come sostanza.
Quest’ultima tesi è per Aristotele contraddittoria perché l’Uno non è un genere ma è un universale, è il concetto più universale, quello che in sé accoglie tutti gli altri, comprese identità e differenza.
La scienza aristotelica, attraverso un lungo e minuzioso lavoro di indagine sulle cause e sui principî, perviene alla identificazione di un primo motore che è causa efficiente e finale di ogni ente ed evento, «un essere necessariamente esistente e, in quanto la sua esistenza è necessaria, si identifica con il bene e, sotto questo profilo, è principio», un principio dal quale dipendono il cielo e la natura (Λ [XII], 7, 1072b, 10-11). Questo Intelletto primo vive in una beatitudine senza fine, rivolto sempre al pensiero sommo che è egli stesso e dunque «pensa se stesso, se è vero che esso è il bene supremo, e il suo pensiero è pensiero-di-pensiero» (ivi, 1074b, 36). Naturalmente tutto questo è da intendere senza alcun riferimento a un dio persona, volontà, padre o analoghe determinazioni. L’essere necessariamente esistente è una causa oggettiva e impersonale. Come ricorda Enrico Berti, «nella Metafisica si trova ben poca teologia monoteistica» (trad. citata, p. XVI).

La metafisica così delineata è in se stessa una ontologia. Metafisica è quella scienza 

che studia l’essere-in-quanto-essere e le proprietà che gli sono inerenti per la sua stessa natura. Questa scienza non si identifica con nessuna delle cosiddette scienze particolari, giacché nessuna delle altre ha come suo universale oggetto di indagine l’essere-in-quanto-essere, ma ciascuna di esse ritaglia per proprio conto una qualche parte dell’essere e ne studia gli attributi, come fanno, ad esempio, le scienze matematiche.
(Γ [IV], 1, 1003a, 20-25)

Tuttavia l’essere non ha una accezione univoca ma si dice in molti sensi. Tra questi il filosofo ne privilegia due: la categoria e la sostanza. Categoria «giacché il termine ‘essere’ ha tante accezioni quante sono quelle delle categorie» (Δ [V], 7, 1017a, 25); sostanza poiché «l’essere nella sua accezione fondamentale – ossia non una qualsiasi qualificazione dell’essere ma l’essere puro e semplice – dovrà identificarsi con la sostanza» (Ζ [VII], 1, 1028a, 31-32).
L’intera storia della filosofia ha ereditato questa duplice accezione dell’essere. L’essere come categoria si è trasformato, nella tarda scolastica e soprattutto nella modernità cartesiana, in un concetto puramente gnoseologico, pervenendo alla completa subordinazione degli enti alla visione-giudizio-manipolazione dell’ente umano. L’essere come sostanza è stato di volta in volta o sola materia o solo spirito.
In ogni caso, come si vede, nella Metafisica di Aristotele si origina, riposa e sta il pensare europeo. In questo trattato, o insieme di trattati, la cultura greca perviene a uno dei suoi esiti massimi e più fecondi. Il rigore dell’indagine, la complessità delle prospettive, la chiarezza dei fondamenti concorrono alla costante e pervasiva presenza nel pensare europeo di queste ricerche aristoteliche sull’essere, la verità, il tempo. È infatti vero che «il problema su cui verte ogni ricerca passata, presente e futura, la questione che è sempre aperta e dibattuta, ossia ‘che cosa è l’essere?’, non si riduce ad altro se non alla domanda ‘che cosa è la sostanza?’»  (Ζ [VII], 1, 1028b, 2-4).
La risposta più convincente e argomentata a tale domanda l’ha data Spinoza, la cui Ethica conduce a pienezza l’immanentismo come significato, struttura e benedizione dell’essere, conduce a un mondo nel  quale l’umano non ha nessun primato e persino nessuna presenza.

Hegel

Luca Illetterati – Paolo Giuspoli – Gianluca Mendola
Hegel
Carocci Editore, 2017
Pagine 355

Il lavoro del concetto è volto anche a superare «la scissione e la lacerazione che attraversano tutti i livelli della vita» (p. 18). Superamento dal quale possa emergere «la struttura razionale del mondo» (11), elaborando una prospettiva e un sapere che cerchino di intendere razionalmente la molteplicità, varietà, negatività e incomprensibilità dell’esperienza umana. «La filosofia costituisce per Hegel anche la risposta al problema avanzato da Aristotele sulla possibilità umana di partecipare a una dimensione di pura scienza, libera dalle strutture spazio-temporali che vincolano il pensiero agli oggetti finiti e instabili dell’esperienza ordinaria» (298). Prima ancora che aristotelico, questo è un gesto eleatico, fiducioso nella identità del pensare con l’essere, della logica con la metafisica. Una logica metafisica il cui motore teoretico consiste in «un incessante e mai concluso processo di autorealizzazione e di autocomprensione» (325).
Per questo è necessario comprendere la necessità del negativo, il suo costituire una dimensione intrinseca alla razionalità dell’intero. Se omnis determinatio est negatio, è anche perché il presentarsi di un ente rende impossibile il presentarsi di ogni altro ente nello stesso luogotempo; perché l’evento che sta accadendo esclude una quantità innumerevole di altri eventi, perché ogni processo è sempre e solo l’attualizzazione di una determinata potenzialità a esclusione di molte altre che pure sarebbero state possibili. Il non, la negazione, il nulla sono quindi impliciti nell’essere non come suo residuo, non come sua accidentalità, non come suo ostacolo ma come la condizione stessa nella quale e attraverso la quale enti, eventi e processi sono resi possibili, si danno, ci sono. Questo nulla intrinseco alle strutture dell’essere è la differenza, è «die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt», la magica forza che volge il negativo nell’essere, una forza posta a coerente conclusione di una delle più chiare affermazioni del negativo che siano state pensate:

«Aber nicht das Leben, das sich vor dem Tode scheut und von der Verwüstung rein bewahrt, sondern das ihn erträgt und in ihm sich erhält, ist das Leben des Geistes, Er gewinnt seine Wahrheit nur, indem er in der absoluten Zerrissenheit sich selbst findet. Diese Macht ist er nicht als das Positive, welches von dem Negativen wegsieht, wie wenn wir von etwas sagen, dies ist nichts oder falsch, und nun, damit fertig, davon weg zu irgend etwas anderem übergehen; sondern er ist diese Macht nur, indem er dem Negativen ins Angesicht schaut, bei ihm verweilt. Dieses Verweilen ist die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt»

(Die Phänomenologie der Geistes, «Gesammelte Werke», IX, p. 27)

«Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo: come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere»

(Fenomenologia dello Spirito, trad. di E. De Negri, La Nuova Italia 1985, vol. I, p. 26)

Negativo significa anche che ciò che era si è dissolto e ciò che sarà ancora non è. Per questo il tempo è una delle più chiare forme, forse la più chiara, della necessità, vastità e potenza del negativo. Il cui nome necessario e fecondo è il divenire che non mira ad alcun risultato definitivo ma costituisce il processo in cui l’essere accade, è la struttura dentro la quale l’essere si rende visibile. La verità, qualunque elemento si intenda con tale parola, è la concretezza e dunque il limite del divenire. Per questo la verità non potrà mai darsi in forma definitiva ma sempre come processo. Per questo rispetto alla quieta e apparente stabilità dello spazio il tempo «è l’assoluta inquietudine di ciò che, mentre è, non è, e mentre non è, è» (213). Per questo la finitudine è intrinseca alla condizione ontologica del cosmo fatta di enti che sono eventi e la cui natura è quindi il dileguare.
Pertanto non è solo alla del tutto trascurabile componente biologica dell’essere che è intrinseca la finitudine. Ciò che per il vivente – vegetale o animale che sia – si chiama morire, è in realtà l’esperienza universale del trapassare in altro, del metabolismo, della metamorfosi, dell’entropia. La struttura biologica aggiunge piuttosto all’universale potenza del dileguare la particolarità di farlo in quel «tentativo essenzialmente ‘disperato’» (230) che è la riproduzione di una copia somigliante a sé, nella quale due entità entrambe del tutto finite presumono di differire il loro dileguarsi. Questo tentativo è una delle espressioni più chiare, drammatiche e banali della schlechte Unendlichkeit, della cattiva infinità che non smette mai di aggiungere vite a vite e dunque morte a morte:

«Dieser Prozeß der Fortpflanzung geht hiermit in die schlechte Unendlichkeit des Progresses aus. Die Gattung erhält sich nur durch den Untergang der Individuen, die im Prozesse der Begattung ihre Bestimmung erfüllt [haben] und, insofern sie keine höhere haben, damit dem Tode zugehen»

(Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in «Gesammelte Werke», XIX, § 370)

«Questo processo della propagazione riesce alla mala infinità del progresso. Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno altra più elevata, vanno così incontro alla morte»,

(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori, 2008, § 370, p. 363).

Porsi a questo livello di comprensione del mondo non può che lasciare dietro di sé ogni etica in quanto effetto e manifestazione dello sguardo parziale sull’intero. Qui sta certamente uno dei gesti più spinoziani, e quindi radicali, di Hegel, il quale «è fermamente convinto che una considerazione filosofico-scientifica della storia sia incompatibile con una sua valutazione etica sulla base dei principi astratti e che la considerazione scientifica della storia consiste invece nel comprendere le ragioni per cui la situazione mondiale è così com’è» (292).
Questa radicalità salva la dialettica hegeliana dal rischio intrinseco a ogni idealismo e ben presente, nonostante il suo mirare all’oggettività, a chi ritiene in modo inevitabilmente cartesiano («mit Cartesius […]  können wir sagen, sind wir zu Hause», ‘con Cartesio possiamo dire d’essere a casa’, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza 2009, p. 469) che il pensare preceda cronologicamente e soprattutto logicamente l’essere e che dunque il pensare non debba né possa presupporre nulla prima di sé: «Questo carattere di ‘autofondatività’ – carattere che costituisce l’elemento insieme più specifico e più problematico del discorso filosofico hegeliano – è quello che consente alla scienza di essere a differenza del sistema delle conoscenze, un sapere della totalità» (104).
L’antropocentrismo idealistico hegeliano rimane comunque sempre un tentativo di pensare l’oggettività dell’essere, del nulla e del divenire; tentativo nel quale la filosofia è certamente «scienza in un senso più radicale rispetto a quanto non lo siano le scienze positive» (104), è certamente scienza del mondo nel senso che essa pensa il mondo ed è il mondo che nella filosofia pensa se stesso.

II Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica

Da giovedì 14 a sabato 16 ottobre 2021 si svolgerà a Napoli il Secondo Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica. I filosofi italiani discuteranno di Natura e Tecnica, con la partecipazione di giovani studiosi selezionati negli scorsi mesi. Faccio parte del Comitato scientifico del Convegno e coordinerò una delle sessioni previste nella mattinata di giorno 15. Nel pomeriggio del 14 Andrea Pace Giannotta, dottore di ricerca e collaboratore della cattedra di teoretica al Disum, parlerà di «corpo funzionale e corpo senziente».
Questa la presentazione del Convegno sul sito della SiFiT:

«La domanda circa la relazione tra Tecnica e Natura accompagna la storia del pensiero filosofico e scientifico sin dai suoi inizi: dalle cosmogonie arcaiche all’invenzione della logica, dalla canonizzazione della geometria all’ideale umanistico dell’educazione, dalle arti magiche alle scienze sperimentali, in epoche e modi diversi si è ripresentata la medesima questione, al fine di comprendere non tanto quel che spettava all’una o all’altra, ma quanto dell’una c’era nell’altra.

Nondimeno è però nella filosofia contemporanea che quell’interrogativo si è fatto più urgente e radicale, in ragione di un contesto nel quale le tecnologie sono divenute più pervasive e capaci di creare effetti su scala macroscopica e microscopica, modificando le relazioni e i ruoli sociali, le esperienze del dolore, del piacere e della malattia, la percezione e l’attenzione, i linguaggi, le distanze e gli spazi, gli uomini e il mondo.

Per queste ragioni, perché antica e attuale come è la domanda sulla relazione tra Tecnica e Natura rappresenta forse la questione eponima della filosofia, la Sifit ha deciso di dedicare a questi temi il suo II Convegno».

Epistemologia / Ontologia

Il mondo è più complesso di una formula matematica
il manifesto
28 agosto 2021
pagina 11

Il disegno che si vede qui sopra è di Albert Einstein. Si trova in una lettera da lui inviata il 7 maggio 1952 a Maurice Solovine. In Epistemologia storico-evolutiva e neo-realismo logico, un denso volume pubblicato da Olschki, Fabio Minazzi afferma che il disegno di Einstein delinea una «immagine ideale della scienza» (p. 187). In esso la linea orizzontale E indica il mondo della vita, l’esperienza immediata e ordinaria nella quale ciascuno di noi, scienziati ed epistemologi compresi, è immerso. Sopra questa linea si trova un punto A che rappresenta il luogo degli assiomi astratti della logica e della matematica. Nel mezzo  si susseguono le conseguenze specifiche che si deducono dal polo matematico: «S S’ S’’». L’elemento interessante del disegno è che tra la linea dell’esperienza ordinaria e quella degli assiomi astratti non si dà un percorso diretto. Anche le conseguenze dei principi generali sono staccate dal mondo della vita, fluttuando in una dimensione che indica il carattere intuitivo e creativo del lavoro scientifico.
Il «disegno tracciato dal tardo Einstein», scrive Minazzi, «vuole dunque esprimere la natura complessiva della scienza e giustamente Einstein sottolinea che ‘l’aspetto essenziale è qui il legame, eternamente problematico, fra il mondo delle idee e ciò che può essere sperimentato (l’esperienza sensibile)’» (p. 279).
Siamo dunque lontani da ogni forma di riduzionismo che pretende di esaurire la vita in alcuni «algoritmi di calcolo» (p. 282) e ridurre la scienza a un indiscutibile dogma. Riduzione che ovviamente nega lo statuto stesso del lavoro scientifico che procede sempre per prove ed errori, riduzione che è particolarmente evidente nella situazione fanatica e irrazionale in cui siamo precipitati, in un contesto che calunnia la scienza attribuendole procedure del tutto arbitrarie; protocolli negati; statistiche costruite ad hoc; tesi parziali contro le quali si esprimono scienziati che vengono insultati e tacitati; deduzioni e imposizioni del tutto e soltanto legali-amministrative poste tuttavia sotto l’egida di una scienza che si cerca di asservire al potere politico, come è accaduto in altri periodi oscuri della nostra storia.
Indagare la complessità dell’epistemologia e della storia della scienza è anche un modo per cercare di rimanere lucidi nella comprensione e liberi nei comportamenti.

Tempo e identità

Kurt Lewin
Tempo e identità
[1912-1923]
A cura e con un saggio di Luca Guidetti
Quodlibet, 2020
Pagine 190

I maggiori contributi di Kurt Lewin alla conoscenza vertono sulla psicologia sociale, della quale è stato uno degli iniziatori. E però sono molto significative anche le analisi epistemologiche, dedicate in particolare alla filosofia e alla logica del tempo. Il termine chiave da lui introdotto in questo ambito è quello di Genidentität, genidentità intesa come l’identità che si conserva nel tempo.
Un tema, questo, tipicamente ontologico. Le due forme tradizionali di identità nel tempo sono infatti sincronica e diacronica. La prima è una forma di identità logico-ontologica che fa riferimento alla uguaglianza di ogni ente con se stesso nel tempo A=A; la seconda è la possibilità logico-gnoseologica di individuare gli elementi di persistenza di un ente come tale nel corso del tempo. In entrambi i casi il tempo si aggiunge all’ente che è uguale o che persiste.
Per Lewin, invece, il tempo è una variabile vincolata e intrinseca che può assumere diverse proprietà -ontologiche ed epistemologiche- ma la genidentità «integra» in ogni caso «il tempo nelle serie esistenziali» (Guidetti, p. 17).
Detto in termini meno tecnici, il tempo è intrinseco agli enti, i quali sono inseparabili dai processi. E questo significa che la realtà è una struttura costantemente metamorfica, dove il limite del mutamento è un confine morfologico, che consiste nella riconoscibilità della medesima organizzazione dentro e nonostante tutte le sue trasformazioni.
La fecondità della prospettiva di Lewin consiste pertanto e ancora una volta nella dinamica ontologica -e non soltanto gnoseologica- di identità e differenza, entrambe presenti, costitutive e necessarie nell’essere e per l’essere stesso degli enti:

Ha pertanto senso parlare di un ‘conservarsi’ solo dove ci sono cambiamenti. Le ‘sostanze’, come vengono qui intese – vale a dire, in fisica, gli ‘oggetti fisici’ -, non rimangono uguali in modo invariabile, ma si conservano nei cambiamenti. La sostanza che la questione della causa richiede come presupposto è dunque ciò che si conserva come identico nel cambiamento, e precisamente nel doppio senso di questo termine: essa è infatti ciò che conserva sé in tutti i cambiamenti e, al tempo stesso, ciò che sempre si conserva nel cambiamento (45).

Ogni ente rimane nel tempo ciò che è ma nel tempo muta a ogni istante. Gli enti sono una fusione di identità e differenza dentro il divenire. Gli enti sono la differenza che costruisce se stessa nel mentre diventa altro, che è se stessa nel divenire altro. Gli enti permangono identici mentre si fanno differenza, mentre sono differenza. E quindi identità e differenza coincidono in «ciò che degli oggetti fisici si conserva in modo identico nel cambiamento» (49).
L’elemento più fecondo del concetto di genidentità è pertanto di natura ontologico-esistenziale prima che logico-epistemologica e consiste nel riconoscere la struttura temporalmente (e non solo spazialmente) estesa di ogni oggetto fisico, il generarsi di ogni forma-istante degli enti dalla forma-istante immediatamente precedente, consiste nella sinonimia di enti ed eventi. Infatti,

si è soliti parlare di causa ed effetto solo per una serie di accadimenti che sono conseguiti l’uno dall’altro. Ad esempio, è vero che, di solito, un movimento a1 viene chiamato la ‘causa’ di un’energia termica  a2, ma di norma una pietra  b1 non viene detta la causa della ‘stessa’ pietra in un momento successivo b2, benché proprio in questo caso si presenti un esempio particolarmente semplice di relazione di genidentità. In generale, non si indicano come causa ed effetto le cose che sono risultate l’una dall’altra. A fronte di ciò, il concetto di genidentità esprime la relazione di derivazione di qualcosa da qualcos’altro indipendentemente dal fatto che si tratti di accadimenti o di cose (89).

Perché ‘accadimenti’ e ‘cose’ costituiscono la medesima struttura, sono intessuti della stessa realtà temporale.

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Il Prof. Guidetti mi ha generosamente autorizzato a mettere qui a disposizione il pdf completo del libro:

Gentile

Giovanni Gentile
in Vita pensata, numero 22, maggio 2020
pagine 70-79

Le parole di modestia che Giovanni Gentile formula nella prefazione del 1920 al suo capolavoro non costituiscono un’affermazione di circostanza ma sono già parte coerente del sistema: «Ogni libro è via, e non mèta; vuol essere vita, non morte. E finché si vive, convien continuare a pensare» (Teoria generale dello spirito come atto puro, p. 75). L’attualismo è anche e specialmente questo già e non ancora, è una tensione verso un assoluto fuori dal tempo e fondante il reale che però si dispiega tutto nell’atto temporale del suo farsi. È, questa, una delle più feconde contraddizioni non di Gentile soltanto ma dell’intera storia della metafisica. Perché non è una semplice contraddizione ma costituisce il tentativo di intendere, cogliere e spiegare l’unità molteplice del mondo, la differente identità del reale
In questo saggio ho tentato una sintesi di una filosofia complessa, molto lontana dalle mie prospettive e dunque feconda del confronto. Gentile rappresenta il culmine di ogni possibile idealismo e anche per questo lo capovolge in un immanentismo radicale. Ben se ne accorse la Chiesa cattolica che inserì le sue opere nell’Indice dei libri proibiti.
Nel testo non si trova nessun riferimento alla pedagogia gentiliana, che merita un’analisi a parte, fondata com’è sulla struttura socratica del fatto educativo, il quale non è frutto né del maestro né dell’allievo ma della loro relazione.
Il saggio è diviso nei seguenti paragrafi:

  • Un trionfo della soggettività?
  • Estetica, linguaggio, ermeneutica
  • Gnoseologia, fisica, antirealismo
  • Filosofia pratica
  • Ontologia e logica
  • Gentile antimetafisico
  • Essere e verità
  • Immanentismo
  • Divenire e processo
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