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Mente & cervello 71 – Novembre 2010

Il linguaggio umano è una facoltà innata, come pensa Chomsky, o è un’acquisizione evolutiva, come sembra ritenere Darwin? In realtà, anche questa dicotomia è troppo rigida e non dà conto della complessità degli eventi. Il biologo cognitivista W.T. Sherman Fitch III -intervistato da D. Ovadia- ritiene che la struttura linguistica sia fatta di moduli innati che poi il tempo biologico e quello culturale contribuiscono a sviluppare nei modi più ricchi e diversi, non soltanto nell’uomo ma anche -pur se in modi diversissimi- negli altri animali.

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1984

di George Orwell
(Nineteen Eighty-Four, 1949)
Trad. di Gabriele Baldini
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998
Pagine XI – 327

In una mattina di aprile dell’anno che forse è il 1984 Winston Smith torna a casa e comincia a scrivere i propri pensieri in un quaderno che ha da poco acquistato. Ecco: questa è la sua colpa, lo psicoreato che aveva già cominciato a commettere e che adesso è provato dalla sua stessa scrittura. Winston Smith vive, infatti, in Oceania, uno dei tre stati sovracontinentali nati dalla guerra atomica degli anni ’50.
In ciascuno di essi

«LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L’IGNORANZA È FORZA»
( p. 8 )

Winston lavora presso il Ministero della Verità, il cui compito è la falsificazione sistematica e la creazione di documenti che modifichino il passato. Infatti, «chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato» (260). In questo luogo, Smith lavora 60 ore alla settimana in quanto membro del Partito esterno. Su quest’ultimo domina il Partito interno il cui braccio operativo è la Psicopolizia e su tutti sta il Grande Fratello. Alla base della scala sociale, infine, vi sono i cosiddetti prolet, masse ignoranti e povere di milioni di persone alle quali è permessa una maggiore libertà di azione e di pensiero poiché esse pensare non sanno. In ogni caso, anche le masse vengono esaltate e controllate tramite la propaganda incessante contro il nemico interno ed esterno.

In questo mondo senza luce, Winston incontra Julia. Membro anche lei del Partito esterno, non crede ai suoi dogmi e cerca di godere della propria vitalità sessuale, atteggiamento che costituisce una forma di disobbedienza al Partito, il quale ha fra i suoi scopi quello di «abolire lo stesso piacere sessuale» (280). I due si incontrano quando possono, cercando di sottrarsi ai teleschermi che controllano ogni gesto quotidiano. Un giorno, O’Brien, membro del Partito interno, invita Winston a casa propria e gli rivela l’esistenza di un’opposizione al Regime guidata da Goldstein, vecchio fondatore del Partito e ora suo principale nemico e autore di un testo clandestino dal titolo La teoria e la pratica del collettivismo oligarchico. Winston e Julia decidono di entrare nella Fratellanza ma dopo qualche tempo vengono arrestati. Da qui comincia l’ultima intensissima parte del romanzo. A interrogare e torturare Winston è O’Brien che gli rivela come gli scopi del Partito siano ben più radicali di qualsiasi passata Inquisizione, di qualsiasi Regime totalitario del ventesimo secolo poiché il Partito vuole l’anima di chi ha pensato di resistergli e non uccide il colpevole finché questi non sia totalmente e sinceramente convinto della propria colpa e non provi autentico Amore per il Grande Fratello. A questo limite, infatti, sarà condotto Winston in un finale tanto terribile quanto malinconico e chiuso a qualsiasi speranza.

Si tratta di un libro chiave. E non solo per la potente forza visionaria, non solo per la scrittura lucida ed essenziale. È un libro che smaschera l’essenza del Potere il cui fine è lo stesso Potere. Orwell compie una singolare fusione di machiavellismo e anarchismo, il cui risultato è l’estrema, esaltata felicità con la quale O’Brien descrive il vero significato del Partito:

«I nazisti tedeschi e i comunisti russi si avvicinarono molto ai nostri metodi, ma non ebbero mai il coraggio di dichiarare apertamente i loro motivi, le loro ragioni. (…) Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere» (276).

La dottrina posta a fondamento di tale obiettivo consiste in una sorta di solipsismo antropocentrico, convinto che «non esiste nulla se non nella mente dell’uomo (…) non c’è niente al di fuori e oltre l’uomo. (…) La terra è il centro dell’universo. Il sole e le stelle ci girano attorno» (278-279). Un solipsismo collettivo che intende eliminare alla radice qualsiasi dimensione individuale, pensiero soggettivo, ambito privato. I teleschermi presenti ovunque, l’elaborazione della neolingua che riduce all’essenziale il numero delle parole, la vita in grandi alveari umani, la trasformazione dei figli nei primi nemici dei loro genitori -bambini trasformati in «una sottosezione della Psicopolizia» (142)-, la partecipazione obbligatoria alle iniziative serali dei Centri sociali, fanno sì che «nulla si possedesse di proprio se non pochi centimetri cubi dentro il cranio» (31) ma anche questo spazio alla fine sarà perduto. Lo stare da soli è già ragione di grave sospetto, così come il possesso o il desiderio di «qualsiasi oggetto antico o anche soltanto bello» (101) e dei libri, i quali vengono sistematicamente distrutti e sostituiti dalle opere collettive del Partito o da romanzi per i prolet elaborati con strumenti meccanici. L’ortodossia, quindi, consiste nel «non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (57). E solo questo, infatti, interessa al Partito. Non le azioni compiute ma i pensieri che quelle azioni hanno prodotto
Nessuno ha mai visto il Grande Fratello poiché egli è la personificazione del Partito, è «la mente del Partito, che è collettiva e immortale» (261). 1984 è un libro molteplice, dai significati diversi e complessi. Un testo che descrive come lentamente si spegne l’ultimo uomo in Europa, che mostra la necessità del pensiero ribelle attraverso un incubo politico e televisivo nel quale individui e collettività vengono letteralmente cancellati dal servilismo assoluto verso il potere, verso la sua immagine.

Segno

di Umberto Eco
Enciclopedia Filosofica ISEDI, 2
Istituto Editoriale Internazionale, Milano 1973
Pagine 174


Un segno è qualcosa -qualunque cosa- che sta al posto di qualcos’altro. Peirce esprime con chiarezza questa sua natura: «something which stands to somebody for something in some respect or capacity» (Collected Papers, [1931], 2.228, qui a pag 27). Tutto è quindi segno, o tutto può diventarlo se viene interpretato da qualcuno come un indicatore di qualcosa.
Morris ha quindi ragione a ritenere che «la semiotica non ha a che fare con lo studio di un tipo di oggetti particolari, ma con gli oggetti ordinari in quanto (e solo in quanto) partecipano al processo di semiosi» (Lineamenti di una teoria dei segni [1938], Einaudi 1959, p. 20; qui 34). La pervasività del segno nella vita sociale e nei rapporti interpersonali è data dal fatto che l’uomo stesso è «un segno. Vale a dire uomo e segno esterno sono la stessa cosa, come le parole homo e man sono identiche. Così il mio linguaggio è la somma totale di me stesso perché l’uomo è il pensiero» (Peirce, cit., 5.314; qui 138).

Pervasività, varietà e universalità del segno sono state da sempre oggetto del discorso filosofico. Platone indaga le relazioni tra il referente (iperuranio), l’imitazione (gli enti), i concetti che riassumono gli enti e le parole che li esprimono. Per i neoplatonici, poi, è l’intero cosmo a costituirsi in forma di segno, in teofania. Traducendo come sempre la metafisica del maestro in discorso tecnico su ciò che appare, Aristotele distingue tra onoma, il segno/nome che significa qualcosa; rema, un segno al quale si aggiunge un fondamentale riferimento temporale; logos, segno complesso e discorso significativo. Quindi /Mario/ è onoma; /Mario è arrivato e sta lavorando/ è rema; la descrizione del viaggio di Mario è logos. Gli Stoici individuano a loro volta il semainon come segno fisico, linguistico o di altra natura; il semainomenon, la parte immateriale del segno, il suo significato concettuale; il pragma e cioè l’oggetto/referente al quale il semainon si riferisce, che può essere un ente fisico ma anche un evento o un processo. Lo schema è dunque: significante-significato-referente e spiega la compresenza nel segno di una forma-significante e di un contenuto-significato, inseparabili come due facce della stessa moneta. I filosofi antichi e quelli medioevali sanno anche che tra le parole e le cose si pone il concetto. Per Ockham la parola rimanda non alle cose direttamente ma ai loro concetti-significati, i quali a loro volta diventano dei significanti il cui significato-referente sono soltanto le cose singole.

Con Locke la semiotica inizia ad acquistare un proprio statuto autonomo, oltre che il nome che la indica. La svolta fondamentale è costituita naturalmente da Peirce, dalla sua stupefacente e articolata costruzione estremamente tecnica e insieme pansemiotica, all’incrocio tra pragmatismo e platonismo. Le Ricerche logiche di Husserl -in particolare la prima, la quarta e la sesta- sostengono una posizione radicale, che intende «lo stesso significato percettivo come un risultato di processi semiotici» (111), le percezioni come dei costrutti, la conoscenza come una sintesi attiva che trasforma il dato (Gegenstand) in oggetto (Objekt). «Questa nozione di una costruzione percettiva del mondo, in sé aperto a vari esiti possibili, come continua donazione di senso a cui partecipo non solo col linguaggio verbale ma con l’intera espressività della mia corporeità, è presente in tutto il pensiero di Merleau-Ponty. La fenomenologia della percezione si salda quindi con una fenomenologia della semiosi» (114). Rimanendo in ambito fenomenologico, Eco critica con asprezza l’ermeneutica heideggeriana in quanto essa sarebbe l’esatto opposto di una teoria dei segni e costituirebbe invece «una pratica, continua e appassionata di interrogazione dei segni» (97) e tuttavia discutendo della Semantica Generale di Korzibsky e di Sapir-Whorf, ricorda che per questi studiosi «la lingua non è ciò attraverso cui si pensa, ma ciò con cui si pensa o addirittura ciò che ci pensa o da cui siamo pensati» (106), che è tesi anche heideggeriana.

Sui rapporti tra pensiero e linguaggio, la posizione di Roland Barthes è che «la verbalizzazione sia la forma stessa del pensiero, che non si possa pensare senza parlare: quindi la semiologia sarebbe solo un capitolo della linguistica» (93). In ogni caso è chiaro che la complessità della semiotica è tale da tenere lontano ogni riduzionismo logicistico. La logica formale, infatti, «si applica a linguaggi appunto formalizzati e assolutamente non equivoci e entra in crisi quando vuol farsi logica dei linguaggi naturali, che sono invece il luogo dell’equivocità, della polisemia, della sfumatura e dell’ambiguità» (82). Il neopositivismo presenta lo stesso limite, giudicando «come strumento accreditato di comunicazione quell’uso di segni assolutamente univoci che si verifica così di rado nella vita umana e solo nel chiuso dei laboratori, mentre veniva discreditato il discorso quotidiano, il discorso della politica, dell’affettività, della persuasione, dell’opinione che non può essere ridotto ai ferrei parametri della verifica fisicalistica» (134).

La ricchezza della semiotica è data anche dal fatto che la creazione e lo scambio di segni costituiscono un ciclo senza fine, sono la vita stessa della comunicazione umana. Il processo fonte-emittente-canale-messaggio-destinatario richiede non soltanto la comunicazione di una serie di segnali che in quanto tali possono essere puro significante (flatus vocis) ma di una struttura semantica, un codice, che renda quei segni parte di un mondo condiviso e li trasformi immediatamente in prassi; «nel segno il significante si associa al proprio significato per decisione convenzionale e dunque in base a un codice» (142). Secondo Peirce, la società umana si mostra in questo modo e tutta intera come linguaggio e cultura, come un «sistema di sistemi di segni. Anche quando crede di parlare, l’uomo è parlato dalle regole dei segni che usa» (138).

«Ein Zeichen sind wir, deutungslos» (Hölderlin, Mnemosyne), siamo un segno che nulla indica. Nulla, al di là di se stesso, del proprio indicare, della vita come segno, parola, concetto, significato che abita in noi e non certo nelle cose e nella materia, che bisogno di senso non hanno.

Le sedie

di Eugène Ionesco
Teatro Studio – Milano
Traduzione di Luca Doninelli
Con Galatea 
Ranzi, Nello Mascia, Sergio Basile
Regia di Pietro Carriglio
Produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo
Sino al 20 dicembre 2009

sedie

Il guardiano di uno sperduto faro e sua moglie. Sposati da sessantacinque, settantacinque anni? In quale tempo ci si trova? E dove? Nello spazio e nel tempo del senso cercato, costruito, inventato, smarrito. Ci si trova in un lucido e plausibile delirio che riempie la scena di sedie su sedie per gli ospiti innumerevoli e di ogni tipo che stanno arrivando al faro, convocati all’ascolto di un “messaggio all’umanità” che il guardiano ha redatto e che un oratore è stato incaricato di pronunciare. Perché quell’uomo è incapace di dire in pubblico una sola parola. Arriva persino l’Imperatore, qui nella forma di un totem che ricorda Il signore delle mosche. Il mare porta al faro questa folla frutto di un immenso desiderio di comunicare e il mare si riprende i due personaggi mentre il grande oratore è capace solo di incomprensibili, stentati, insensati suoni. Le sedie però lo ascoltano con la stessa compunzione dei fedeli perinde ac cadaver.

La messa in scena di questo capolavoro è lieve, sobria, attenta. I due attori costruiscono con i loro gesti e con le parole l’intero spazio teatrale. L’ironia emerge da tale spazio/parola e la comunicazione mostra di essere la sostanza stessa dell’umano. «Non si può non comunicare». Mai la verità di questo assioma si fa evidente come quando il suono si trasforma in silenzio nell’istante stesso in cui viene emesso.

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