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Modelli cognitivi e comportamento animale

Recensione a:
Roberto Marchesini
Modelli cognitivi e comportamento animale. Coordinate d’interpretazione e protocolli applicativi
Edizioni Eva, 2011
Pagine 180

in Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio
Volume 6, numero 2 (2012)
Vygotskij and language / Vygotskij e il linguaggio
(a c. di F. Cimatti, L. Mecacci, E. Velmezova)
Pagine 260-262
Liberamente leggibile in formato pdf

Salute, tristezza, iPhone

Mente & cervello 95 – Novembre 2012

 

Salute e malattia non sono dei concetti universali, non sono dei dati di fatto assoluti. Tanto più questo è vero nell’ambito complesso del corpomente. Lo confermano i mutamenti anche radicali del concetto di malattia mentale e della catalogazione dei disturbi della psiche. Nel maggio del 2013 uscirà la quinta edizione del DSM, Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, pubblicato per la prima volta nel 1952. In questi sessant’anni il DSM ha cancellato numerosi comportamenti prima definiti patologici, dichiarando o la loro “normalità” -l’omosessualità, ad esempio, dal 1974 non è più una malattia- o l’insufficienza dei dati clinici necessari a darne una definizione psichiatrica. In questa nuova edizione viene eliminata dalla nosografia ufficiale la “personalità isterica”, sostituita da vari disturbi di personalità borderline. In compenso, si procede alla patologizzazione di una condizione umana tanto diffusa quanto naturale: la tristezza. Essa viene sempre più spesso classificata come depressione e in questo modo segnata da un crisma patologico che non le appartiene. A mettere in guardia da questi sviluppi tipicamente biopolitici sono importanti psichiatri quali Allen Frances o Allan Horwitz, i quali paventano il rischio di medicalizzare «momenti dell’esistenza e comportamenti non necessariamente patologici, come il lutto, i capricci, gli eccessi alimentari, l’ansia e la tristezza, il lieve declino cognitivo dell’anziano» (F. Cro, p. 66).
Un’altra prova del fatto che «tutta la letteratura sui disturbi di personalità è fondata sulle sabbie mobili» (Id., 62) è fornita dalla sindrome autistica. Rispetto al passato, infatti, si tende oggi a sostenere che «essere autistici è una differenza, non un deficit. Essere autistici è avere un’altra mente» (M. Cattaneo, 3), anche se si ammette che «quale che sia la sua forma, la sindrome autistica dà luogo, per tutta la vita della persona che ne è colpita, a difficoltà di adattamento importanti, che hanno un impatto negativo sulla qualità della vita del soggetto e su quella del suo ambiente familiare» (L. Mottron, 26).

Se e quando esisteranno, le Intelligenze Artificiali saranno sottoposte anch’esse al rischio della malattia mentale? Herbie, il robot protagonista di uno dei racconti di Isaac Asimov, posto di fronte a un dilemma insolubile, a un circolo vizioso logico, impazzisce e muore dopo aver lanciato un urlo «acuto, lacerante, come pervaso dallo strazio di un’anima perduta» (I. Asimov, Io, robot, Mondadori 2003, p. 153). Prima di eventualmente ammalarsi, però, queste IA dovrebbero esserci. Crearle è l’obiettivo di numerosi laboratori di ricerca, i quali tentano di produrre dei robot da compagnia in grado di sostituire gli umani nella cura di anziani e bambini. Le difficoltà sono naturalmente enormi. Tali macchine, infatti, dovrebbero essere senzienti, vale a dire dovrebbero avere «la capacità di integrare percezione (stimoli provenienti dall’esterno), la cognizione (ciò che noi chiamiamo pensiero) e l’azione in una scena e in un contesto coerente, in cui l’azione stessa può essere interpretata, pianificata, generata o comunicata» (D. Ovadia, 71). In altri termini, i ricercatori lavorano non più sull’intelligenza logico-formale (che l’ampio dibattito nato a proposito dell’esperimento mentale della Stanza cinese di Searle ha mostrato essere del tutto insufficiente) ma sulla Embodied Cognition, «la capacità del corpo di avere una mente a sé, di essere l’elemento di cerniera tra il pensiero e l’ambiente» (Id., 72). Paolo Dario osserva giustamente che «esiste già un perfetto robot da compagnia, ed è molto più diffuso di quanto si pensi: è l’iPhone» (Id., 71); lo è in molte delle sue funzioni e in particolare in Siri, il programma che è capace di parlare con l’interlocutore umano comprendendo -entro certi limiti- il nostro linguaggio naturale.
Daniela Ovadia ha chiesto a Siri “mi vuoi bene?”, «ricevendo in cambio la criptica risposta “non ho molte pretese”» (Id., 74). Io ho cercato di intavolare con Siri una conversazione sul tema dell’amore, al che -in modo direi piuttosto intelligente, non foss’altro che per la sua umiltà- l’IA mi ha risposto così: «Per questo tipo di problemi ti consiglio di rivolgerti a un umano, possibilmente esperto». Al di là di queste provocazioni di chi lo usa, Siri è davvero utile. Quando cammino in bicicletta, ad esempio, le chiedo (la voce è femminile) che ore sono, qual è la temperatura, di farmi ascoltare un determinato brano. Le sue risposte sono sempre immediate ed esatte. Se la ringrazio dicendole che è molto brava, mi risponde in vari modi, tra i quali «Lo sai che vivo per te». L’ironia (o la paraculaggine) di quest’ultima risposta sarebbe un segno sicuro di intelligenza se Siri fosse consapevole di ciò che sta dicendo. Ma non lo è. E la mia previsione è che le IA non lo saranno mai, a meno di essere implementate su dei corpi protoplasmatici, “di carne e sangue”.
Solo l’unità del corpomente, infatti, è intelligente. E cangiante. Ed ermeneutica. «La nostra memoria», afferma Donna Bridge, «non è statica. Se ricordiamo un evento alla luce di un nuovo contesto e di un periodo diverso della nostra vita, la memoria tende a integrare dettagli differenti e inediti» (22). Non basta quindi neppure la corporeità, è necessario che essa sprofondi nel tempo.

Che la mente umana abbia struttura e funzione ermeneutica è confermato dal fatto che «una rapida analisi visiva dell’andatura ci può informare sulla vulnerabilità di una persona», sul suo sesso, sull’età, sullo stato emotivo, sulla condizione sociale (N. Guèguen, 55). Il corpo parla, lo sappiamo, e lo fa ad alta voce quando cammina. Conosco un soggetto che dalla sola andatura è classificabile come una specie di guappo. E infatti lo è. Anche quando vorrebbe nascondere questa sua caratteristica, essa emerge con chiarezza dal movimento nello spazio.

Vita pensata 15 – Ottobre 2012

È uscito il numero 15 di Vita pensata, Rivista di filosofia

[Miei contributi]

Editoriale: Identità e differenza (con Giusy Randazzo), p. 4

Perdita e linguaggio. Su Heidegger e Rilke, pp. 11-13

Plotino. La mente nichilistica, pp. 54-59 (Se dovessi consigliare la lettura di uno soltanto dei miei articoli, indicherei questo tentativo di presentare criticamente il pensiero dell’ultimo filosofo pagano)

Reality, pp. 65-67

Dante, la musica pp. 70-71

 

Indice (in formato pdf)

 

Il nome

Cena tra amici
(Le prénom)
di Alexandre de La PatellièreMathieu Delaporte
Con: Patrick Bruel (Vincent), Charles Berling (Pierre), Judith El Zein (Anna), Valérie Benguigui (Élisabeth), Guillauma De Tonquedec (Claude), Françoise Fabian (Françoise)
Belgio-Francia, 2012
Trailer del film

Parigi. È Vincent che racconta. Sta per recarsi a cena dalla sorella Élisabeth e dal cognato Pierre, due intellettuali di sinistra molto attenti alla correttezza politica. Ci sarà anche Claude, musicista e amico d’infanzia della famiglia. Arriverà poi Anna, moglie di Vincent, il quale è un affermato e ricco agente immobiliare. Anna è incinta. Tra uno spuntino e una battuta, qualcuno chiede che nome daranno al bambino. La risposta scatena una vera e propria guerra che scontro dopo scontro, ricordo dopo ricordo, accusa dopo accusa, farà emergere piccoli e grandi segreti di tutti.

Il titolo originale è Il nome, l’unico titolo possibile per un film di grande intelligenza, benissimo recitato, nel quale si ride molto andando in profondità nell’analisi della natura umana e dei pregiudizi contemporanei. Viene giustamente preso in giro il politicamente corretto, che negli Stati Uniti è una vera e propria religione e che rischia di estendersi anche all’Europa. Il nome scelto da Vincent e da Anna per il loro bambino è infatti insostenibile agli occhi di chi ritiene che le parole non debbano mai alludere a qualcosa che potrebbe suscitare il risentimento di qualcuno. Il risultato di una simile sciocchezza sarebbe naturalmente il silenzio, come Vincent ha buon gioco a mostrare elencando tutta una serie di altri possibili nomi.
Il politicamente corretto è quella forma di bigottismo che induce a condannare quasi tutte le fiabe -ad esempio, Cappuccetto rosso sarebbe offensivo verso i lupi e quindi verso gli animalisti (ricordo che sono vegetariano e animalista convinto)-, a censurare moltissimi capolavori letterari -l’organizzazione “Gherush92” ha chiesto seriamente l’eliminazione della Divina Commedia dai programmi scolastici poiché l’opera è piena di «contenuti antisemiti, islamofobici, razzisti ed omofobici»-, a rivolgersi ai propri interlocutori collettivi nelle mail con espressioni quali “Care/i” oppure “Car*” per evitare di apparire maschilisti. E così via, in un progressivo trionfo della censura che non a caso nasce in una cultura intimamente conformista come quella degli Stati Uniti d’America (consiglio, a questo proposito, la lettura di Robert Hughes, La cultura del piagnisteo, Adelphi 2003).
Nelle sue scene più drammatiche questo film mostra come i più accaniti difensori del pudore semantico siano poi pervasi da sostanziali pregiudizi. Il tono tuttavia rimane sempre quello di una commedia assai divertente nella quale le parole si incrociano con geometrico sorriso e con ironica libertà.

Cesare / Contro il potere

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Giulio Cesare
di William Shakespeare
traduzione Agostino Lombardo
ideazione e progetto scenico Marco Rossi e Carmelo Rifici
luci A.J. Weissbard
costumi Margherita Baldoni
musiche Daniele D’Angelo
adattamento drammaturgico Renato Gabrielli
con: Massimo De Francovich (Giulio Cesare), Marco Foschi (Bruto), Sergio Leone (Cassio), Danilo Nigrelli (Antonio), Federica Rosellini (Porzia), Giorgia Senesi (Calpurnia), Marco Balbi (Cicerone), Max Speziani (Indovino)
regia Carmelo Rifici
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 6 maggio 2012

Niente toghe, niente templi e colonne, niente piazze. Solo l’essenza del potere. Rome is a room. Questo spettacolo traduce alla lettera l’intraducibile gioco di parole con il quale Shakespeare definisce la struttura chiusa del potere, penetra nella sua dimensione costantemente cospiratrice, segreta, onirica («Now is it Rome indeed and room enough, / When there is in it but one only man», atto I, seconda scena).
La regia di Carmelo Rifici dà grande risalto ai sogni, ai presagi, alla magia. Si comincia con l’indovino che enuncia monconi di frasi, di visioni, di paure e intorno al quale -improvvise- si accendono delle fiamme. Gli incubi di Calpurnia, moglie di Cesare, sono contemporanei all‘insonnia di Bruto e di Porzia. E il terrore della notte si scatena in tempeste, allucinazioni, squarci.
Ma è un sogno, questo, che si intreccia con il razionalistico piano inclinato dell’ambizione che tutti afferra e che si esprime nella elegantissima retorica dei discorsi di Bruto e di Antonio. Il primo tiene la sua conferenza stampa dopo l’assassinio di Cesare, argomentandone la necessità e i vantaggi per l’intera Roma; il secondo parla in un obitorio, con il popolo romano seduto in poltrona nelle proprie case -come fosse davanti allo schermo televisivo-, pronto a trasformare il sostegno ai cesaricidi in impulso di vendetta contro di loro, mano a mano che il raffinato eloquio di Antonio trasforma Bruto e Cassio da “uomini d’onore” in volgari traditori e assassini, rosi dall’ambizione assai più di quanto lo sia stato Cesare.
La scena si volge poi a descrivere i congiurati e i loro nemici nelle stanze degli stati maggiori, a stabilire tattiche belliche, a impartire ordini, a ricevere dispacci, a esultare per la vittoria o a prendere atto del fallimento. Tutti, comunque, burattini in mano alla volontà di potere, guidati da passioni mascherate dietro parole come “libertà, onore, popolo, giustizia”, trasparenti e inutili maschere razionalizzanti.
Nella lettura e nella messinscena di Rifici, Cesare «intuisce la fine e decide di consegnarsi alla morte, innescando lui stesso i conflitti perché l’azione possa precipitare velocemente» (Programma di sala, p. 8); Antonio utilizza il linguaggio come la più potente arma atta a condurlo al suo vero obiettivo: il potere; il popolo è pronto a seguire l’ultimo che parla; una geometrica freddezza intesse il dipanarsi degli eventi con il loro inevitabile esito, la morte.
«Cowards die many times before their deaths;
The valiant never taste of death but once.
Of all the wonders that I yet have heard
It seems to me most strange that men should fear;
Seeing that death, a necessary end,
Will come when it will come».
[I vigliacchi muoiono tante volte prima della loro morte: il coraggioso non assapora la morte che una volta sola. Di tanti prodigi che ho sentito il più singolare a me sembra che un uomo possa averne paura. La morte è una necessaria conclusione: verrà quando verrà» (atto II, seconda scena)]
Sono le parole con le quali Cesare risponde alle paure di Calpurnia. Parole come queste, la loro bellezza, danno ragione a Canetti quando afferma che a contrastare l’aculeo del potere non serve altro potere ma la filosofia, l’arte, il linguaggio: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio dei morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (Massa e potere, Adelphi, p. 336).

Pluralità e interpretazione

Aa. Vv.
GIORNALE DI METAFISICA
Pluralità e interpretazione

Anno XXXIII (2011), nn. 1-2, Gennaio/Agosto
Tilgher, Genova 2011
Pagine 320

Plurale ed ermeneutico è per sua natura il linguaggio. L‘uniformità unificante vorrebbe invece ridurre la pluralità dei parlanti a una «globanglizzazione» (D .Di Cesare, p. 17) sostenuta anche di recente da ministri, funzionari e decisori politici italiani, i quali sono convinti che la lingua sia uno strumento qualsiasi, mentre invece essa è «l’organo che articola il mondo» (20), tanto che «anche il più sottile imporsi di una lingua, non è l’imposizione di uno strumento come un altro, ma è piuttosto, e più profondamente, l’imposizione di un modo di articolare il mondo» (23). È per questo che ogni monismo linguistico uccidendo le lingue consuma le differenze e invece che creare un «paradiso comunicativo» produce «l’inferno culturale e […] il trionfo della stupidità» (26).
Plurale ed ermeneutico è anche il prospettivismo nietzscheano, che non è una banale forma di relativismo proprio perché le opere di Nietzsche «forniscono dei criteri per discernere –ex negativo ed in positivo- il grado di validità delle varie prospettive» (S. Pastorino, 87). Si tratta di un prospettivismo vicino a quello che due fisici come Hawking e Mlodinow sostengono in un articolo pubblicato su Le scienze (dicembre 2010, p. 88), citato da P. Palumbo: «Non esiste un concetto di realtà indipendente da una teoria o dall’immagine che se ne ha. Adottiamo invece un punto di vista che chiamiamo realismo dipendente dal modello: l’idea che una teoria fisica o un’immagine del mondo sia un modello (in genere di natura matematica) con un insieme di regole che collegano gli elementi del modello alle osservazioni. Secondo il realismo dipendente dal modello non ha senso chiedersi se un modello sia reale, ma solo se concorda con le osservazioni. Se due modelli concordano con le osservazioni, nessuno dei due può essere considerato più reale dell’altro. Una persona può usare il modello più adeguato alla situazione che sta considerando» (138). Sono dei fisici, cioè dei veri scienziati, a mostrare l’ingenuità di non pochi filosofi tutti tesi a ‘naturalizzare’ sempre qualcosa: la mente, il linguaggio, la conoscenza. Ma che cosa è natura? Che cosa è realtà? La conoscenza umana passa sempre attraverso il corpomente che costruisce per se stesso percezioni, giudizi, significati. La materia è la materia della mente.

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Bruto è n’ommo d’onore

Cesare deve morire
di Paolo e Vittorio Taviani
Italia, 2012
Con i detenuti del carcere di Rebibbia
Regia teatrale di Fabio Cavalli
Trailer del film

Il colore del teatro. Il bianco e nero del carcere. Un bianco e nero raffinato e splendido. Un colore vibrante di rosso, di passione, di sangue. Uomini abituati alla violenza si immergono nel Giulio Cesare, sprofondano in se stessi, nelle loro vite perdute ma ancora appassionate. Scandendo quelle parole antiche ne scoprono l’assonanza con le proprie esistenze, con le relazioni, gli eventi, il furore che li ha condotti in carcere. Ciascuno pronuncia i versi nella propria parlata, nel dialetto madre. Il testo non ne viene per nulla dissolto e anzi acquista tutta la potenza che è intrinseca al suo senso e alle intenzioni di chi lo scrisse. I corpi inquieti, cupi, feriti, temibili e rassegnati degli attori criminali sono i più consoni a restituire i movimenti, gli strappi, la calma e il dolore del capolavoro shakespeariano.
Ma senza lo sguardo dei fratelli Taviani non avremmo potuto scorgere nulla di questa potenza. Le inquadrature sono studiate sin nei minimi dettagli ed è il montaggio a costruire la storia. Puro cinema che transita nei secoli e attraversa il tempo. Pura invenzione dell’occhiomente intriso di conoscenze letterarie ma capace di vedere la poesia anche tra le alte mura di un carcere che il grandangolo moltiplica a dismisura. I volti di questi uomini sono figura del male, della sua ineluttabilità. «Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione». Sono le parole sulle quali il film si chiude. Parole pronunciate da un detenuto la cui condanna dice «fine pena mai». Un verso degno di Shakespeare.

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