Prefazione (pp. 7-9) a I venticinque racconti della signorina Conti di Pasquale D’Ascola, Ipoc, Milano 2014, pagine 162
Prefazione (pp. 7-9) a I venticinque racconti della signorina Conti di Pasquale D’Ascola, Ipoc, Milano 2014, pagine 162
Eros e Priapo
Da furore a cenere
di Carlo Emilio Gadda
Introduzione di Leone Piccioni
Garzanti, 2001 (1963)
Pagine 175
«Dopo i nove mesi di soggiorno nel Grand Hotel materno» (pag. 132) si viene gettati «sulla scena tragica e in un tempo carnevalesca del mondo» (169), dove identità e relazioni, speranze e sogni, angosce e disincanti frullano nel mulino del tempo. E nel tempo accade la “storia”, questa sequela di progetti e di morte, di bandiere e di soldi, di utopie e di ferocia.
Una feroce farsa fu agli occhi di Gadda il fascismo, la cui più intima forza e ragione di successo è data dal consentire profondamente con il carattere degli italiani, con la loro vicenda di servitù, di furbizia e di finzioni. «E i dimolti italioti di cui Modellone Torsolone incarnava come non altri la fatua scempiaggine e la livida malafede, sentivano risuonar di sé l’una e l’altra per συμπαθεια co’ le grandezze ricattarorie di lui: e ad ogni nuova sparata entravano secolui in vibrazione armonica» (76).
Infanti male e poco cresciuti, gli italiani si fecero governare per vent’anni da un “folle narcisista” la cui grottesca teatralità è il cuore di questo libro inclassificabile e furioso. Dal balcone il duce emanava «i berci, i grugniti, i sussulti priapeschi, le manate in poggiuolo, e ‘l farnetico e lo strabuzzar d’occhi e le levate di ceffo d’una tracotanza villana» (42). Proclamatosi «genio tutelare» dell’Italia, «la redusse a ceneri ed inusitato schifo» (66), la ridusse a un’apparente grandezza, «in realtà scempiata grandiloquenza» che «altre genti meno verbose e più serie calpesteranno» (141), mandando a morire senza pietà, senza intelligenza e senza gloria i «sacrificati figli d’Italia», verso i quali «lui non ebbe amore per nulla, se non simulato e teatrale» (71), poiché tutto nel duce «è sfarzo baggiano da fuori, e nulla è angoscia vera da dentro» (152), «sul palco, sul podio, la maschera dello ultraistrione e del mimo, la falsa drammaticità de’ ragli in scena, i tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro» (156).
La descrizione di Benito Mussolini -l’uomo, il politico, il massimalista, il capo del regime, l’ideologo, il maschio- è realistica sino alla documentazione, per quanto trasfigurata nella incredibile e magnifica lingua di Gadda.
Questo qui, Madonna bona!, non avea manco finito di imparucchiare quattro sue scolaresche certezze, che son qua mè, son qua mè, a fò tutt mè a fò tutt mè. […] Pervenne, pervenne. Pervenne a far correre trafelati bidelli a un suo premere di bottone su tastiera, sogno massimo dell’ex agitatore massimalista. Pervenne alle ghette color tortora, e che portava con la disinvoltura d’un orango, ai pantaloni a righe, al tight, al tubino già detto, ai guanti bianchi del commendatore e dell’agente di cambio uricemico: dell’odiato ma lividamente invidiato borghese. […] Pervenne. Alla feluca, pervenne. Di tamburo maggiore della banda. Pervenne agli stivali del cavallerizzo, agli speroni del galoppatore. Pervenne, pervenne! Pervenne al pennacchio dell’emiro, del condottiere di quadrate legioni in precipitosa ritirata. (Non per colpa loro, poveri morti; poveri vivi!). Sulle trippe, al cinturone, il coltello: il simbolo e, più, lo strumento osceno della rissa civile: datoché a guerra non serve: il vecchio cortello italiano de’ chiassi tenebrosi e odorosi, e degli insidiosi mal cantoni, la meno militare e la più abbietta delle armi universe. […] E la differenza la sapete bene qual è, la differenza che passa tra Lissandro Magno e codesto brav’uomo: che l’Alessandro Magno l’è arrivato (sic) ad Alessandria col cocchio: e lui c’è arrivato col cacchio. Si tenne a dugèn chilometri di linea. Riscappò via co’ sua cochi e marmellate dell’ulcera. Scipione Affricano del due di coppe. (27-28)
Questo fu, davvero, Mussolini e l’Italia con lui. Una descrizione esatta del fenomeno fascista nei suoi risultati storici e nella scaturigine dall’«Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo» (143), dell’«ismodato culto della propria facciazza», che sarebbe disposto anche a morire pur di andar a finire sui giornali (147 e 157), volendo tutto imbarcare «nell’Arca onnialbergatrice della propria insaziabile vanità e stoltezza» (152) poiché la “persona” dell’antropologia narcisistica e fascista «è persona scenica e non persona gnostica ed etica» (145).
Il discorso politico diventa subito discorso biologico, da esso inseparabile come il frutto è inseparabile dal suo involucro. Frutto la biologia, involucro la politica. Egli, il Duce Mussolini, agì sulle donne allontanando i concorrenti, gli altri uomini, ergendosi quale maschio dominante, e ciò con ogni strumento del potere politico, anche il più violento. Poiché soltanto lui, solo il “kuce” era «detentore de i’ barile unico e centrale dello sperma» (63). L’immenso virilismo fascista -«dacché tutto era, allora, maschio e Mavorte: e insino le femmine e le balie: e le poppe della tu’ balia, e l’ovario e le trombe di Falloppio e la vagina e la vulva. La virile vulva della donna italiana» (68)-, questo virilismo fece presa sulle donne, sul loro arcaico e naturale culto del fallo, che però nella modernità utilitaristica e non più sacra si fece obbedienza cieca ai dogmi del regime e non orgiastica libertà dai divieti. A tale culto, un misto di invidia ed emulazione, si accodarono e sottomisero naturalmente molti maschi.
In questo modo Eros coincide con Priapo, e dunque con una sua parte, essenziale sì ma non esclusiva e unica. Poiché «Te, se ami, a un certo punto di Io te tu diventi Tu» (169) e invece il culto assoluto che la personalità narcissica rivolge verso se stessa -perché altro non sa fare- costituisce la negazione più evidente dell’Eros, la caricatura, la farsa. Vera cifra, quest’ultima, dell’Italia fascista e del suo Capo.
Il libro di Gadda dispiega in questo e in altri modi la propria natura anarchica. Che vuol dire impianto anticlericale1, antimilitarista2, antipatriottico3, avverso soprattutto a ogni omologazione, conformismo, servitù, per quanto volontaria. «La cosiddetta “civiltà contemporanea”, in realtà sudicia e inane verbosità, ha reso inetti i cervelli di miliardi di uomini a esercitare la benché minima funzione critica nei confronti della carta stampata, del proprio giornale in ispecie» (157). Allora il giornale, oggi ancora la stampa ma soprattutto la televisione, nella quale Gadda lavorò e che è diventata ora il luogo della più irredimibile volgarità. Quella volgarità della quale il Fascismo e il suo Duce furono emblema.
Note
1. «Religione non è l’accomodarsi col Papa per l’averne o sperarne licenza o assistenza alle sbirrerie e alle ladrerie, non è il battezzare le navi da guerra con l’asperges, non è il berciare da i’ balcone “la santità della famiglia” per poi spaparanzarsi adultero ai tardi indugi di un sonnolento tramonto» (48)
2. «Sadismo è il modo della guerra, è l’arma naturale della guerra, di ogni guerra pensabile» (113).
3. «Gli occhî tuttavia mi si velano pensando i sacrifici, i caduti, il giovine spentosi all’entrare appena in quella che doveva essere la vita, spentosi a ventun anno appiè i monti senza ritorno: perché i ciuchi avessono a ragghiare di patria e di patria, hi ha, hi ha, eja eja, dentro al sole baggiano della lor gloria. Che fu gloria mentita» (72).
Novantacentodieci
di Filippo Scuderi
Giuseppe Maimone Editore, 2013
Pagine 74
«E da qui di nuovo scuro nella mia modesta vita» (pag. 16). Così definisce la propria vita il Narratore, aggiungendo sempre “modesta” al sostantivo. Modesta come il voto di laurea che dà il titolo al libro, obiettivo raggiunto con tenacia al culmine di una dura esistenza. Un flusso di coscienza quasi ininterrotto -scandito da molte virgole e da pochi punti- ripete ancora una volta le figure archetipiche simili a quelle che abitano i romanzi di Elsa Morante: la Madre amata, morta quando il protagonista ha soltanto due anni; il Padre che si risposa con la Matrigna alcolizzata, pazza e gelosissima, perché «lei lo sapeva come era fatto mio padre in fatto di gonne, se c’era da alzarne una non perdeva tempo, ma la cosa che mordeva la sua coscienza era la conoscenza e la consapevolezza che quando la mia povera mamma si trovava in ospedale a combattere tra la vita e la morte, mio padre se la spassava con lei» (63-64); i Nonni, casalinga e pescatore, affettuosi, rigorosi e determinati, che lo educano alla complessità del mondo. Una costellazione familiare e antropologica con la quale il Narratore si sente una cosa sola e che tuttavia è da lui distante per quel barlume di conoscenza che sempre lo accompagna, per quella «curiosità di approfondire, e di cercare di sapere il più possibile» (51) che fa di questo personaggio un Odisseo candido e proletario.
«Mentre io ho letto più di trecento libri a casa mia non leggeva nessuno, nemmeno le bollette del telefono» (70). Un umorismo spesso surreale intride le pagine del romanzo: la professoressa di italiano che non porta a termine la lettura dell’Alchimista di Coelho e per questo viene deplorata poiché «nemmeno una professoressa di chimica (senza offesa) si comporterebbe così» (49); un’estate trascorsa «in una colonia estiva, una specie di collegio per gli sfigati» (51); la scoperta di botto e in una sola volta di una miriade di fratelli e sorelle, frutto dell’incessante attività copulatoria del padre; il rimprovero al figlio e agli adolescenti di essere tutti uguali, tanto da dire alla moglie «se ne portiamo un altro a casa alla fine è uguale» (22). L’ironia, spesso involontaria, si coniuga con una dolente comprensione della vita che «non la si gioca contro un avversario ma contro se stessi» (58). La scoperta, da adulto, della filosofia.
E tutto ciò in un linguaggio che è la vera sorpresa di questo romanzo: una lingua plebea e spesso sgrammaticata ma sempre lucida nel descrivere il mondo. Il Narratore sa benissimo che l’italiano è per lui «una seconda lingua […] una lingua difficile con una grammatica veramente tosta» (49) ma una lingua che questo flusso di parole sa piegare, tra anacoluti ed eccessiva creatività nella punteggiatura, a dipingere il dolore e l’insensatezza del mondo. È come se il Rabito di Terramatta fosse riuscito a prendere lui la laurea e non i suoi figli. Dire dello zio che «quando arrivava lui, per noi era festa, perché portava un’entrata di felicità» (27) significa aver trovato un modo luccicante per comunicare l’istante della gioia.
Le ultime pagine sono dedicate alla scoperta di un’amicizia profonda e al lutto per il padre. L’amicizia con Black, il cane che -dopo aver per caso incrociato da lontano gli occhi di Filippo- lo sceglie come suo padrone e al quale viene dato quel nome «per dimenticare i momenti neri che ha avuto tutti i giorni che è stato per strada da solo» (69). Anche il protagonista è stato per lungo tempo e tante volte lasciato per strada da solo. Lasciato da quel padre, odiato e amato, al quale è rivolta l’ultima relazione umana del testo, una lettera in cui, ormai adulto e consapevole, Filippo riconosce che «siamo stati gettati in questo universo, viviamo da spettatori o da protagonisti l’importante è vivere intensamente il tempo che passiamo, perché il tempo siamo noi» (68).
Mente & cervello 109 – gennaio 2014
Poche parole, quasi sempre le stesse, e costruzioni sintattiche elementari. E tuttavia, tra i 25 e i 28 mesi della vita di un cucciolo di Homo sapiens, ascoltando tali espressioni il bambino comincia a parlare. Come può accadere una cosa simile? Da così pochi elementi nasce infatti la forza della comunicazione verbale, la sua potenzialmente infinita produzione -definita ricorsività-, la sua capacità di creare significati sempre nuovi, i quali eccedono «la somma semantica dei singoli elementi» -la compositività. (R.V. Solé, B. Corominas Murtra, J. Fortuny, p. 38). È il cosiddetto ‘problema logico dell’acquisizione del linguaggio’. Nonostante il grande sviluppo degli studi, risposte certe non ce ne sono. Risolvere, o almeno chiarire meglio, la questione consentirebbe di comprendere più a fondo non soltanto lo statuto della mente ma anche lo stesso processo dell’ominazione e l’identità della nostra specie.
Secondo molti scienziati fu l’apparizione del linguaggio a cambiare per sempre il nostro modo di adattarci al mondo. […] In fisica, si chiamano sistemi complessi quelli formati da un gran numero di elementi che esibiscono proprietà «emergenti». Queste ultime si distinguono perché, pur risultando dall’interazione di singoli elementi del sistema, non sono spiegabili come la semplice somma degli stessi. Il linguaggio umano appartiene a questa categoria di sistemi: come un formicaio non può essere descritto alla stregua di un semplice ammasso di insetti, così il linguaggio non è la mera giustapposizione di un insieme di parole [ma è un] sistema di comunicazione efficiente, flessibile e dotato di una capacità informativa illimitata. (Id., 33)
Il linguaggio umano è dunque una struttura olistica e non atomistica, legata in modo indissolubile alle facoltà mentali, alla capacità di elaborare rappresentazioni, concetti, scenari di realtà empiricamente non esistenti. Tra pensiero e linguaggio la dinamica è continua, incessante, anche se tra le tante cose che ignoriamo c’è anche la concreta modalità con cui tutto questo accade. Wernicke, ad esempio, riteneva che pensiero e linguaggio fossero due processi indipendenti; Vygotsky attenua la radicalità di tale distinzione con l’immagine di due cerchi sovrapposti, nella quale soltanto una parte dei due processi coincide; Jackendoff ritiene invece che «il linguaggio serve all’uomo non solo per esprimere i suoi pensieri, ma si riflette anche sui suoi pensieri, come una sorta di impalcatura che gli permette di creare ragionamenti più complessi rispetto agli organismi non linguistici» (cit. da C. Weiller, 26).
Anche dalla relazione che si istituisce tra pensiero e linguaggio nascono le diverse risposte date a un’altra questione fondamentale, quella del rapporto tra linguaggio e comportamenti. Per i sostenitori del ‘relativismo linguistico’ il linguaggio influenza il pensiero e dunque linguaggi diversi generano differenti concezioni della realtà e diversi modi di vivere in essa; a tale concezione di oppongono i sostenitori dell’universalismo linguistico, i quali affermano «che il linguaggio, pur con differenze superficiali, ha radici universali, e che i processi cognitivi sono gli stessi per tutti gli esseri umani» (F. Sgobissa, 48).
In realtà credo che anche questa discussione sia inficiata da un eccesso di dualismo. Pensiero e linguaggio sono espressioni diverse e profondamente correlate del corpomente immerso in uno specifico ambiente. Tale ambiente influenza quindi il pensiero che lo conosce, le parole che lo dicono, l’azione che in esso accade. E questo non in una direzione soltanto ma sempre in tutte. Mondo → Pensiero → Linguaggio diventano nel concreto esistere umano una sola realtà che si fa incessantemente Linguaggio → Pensiero → Mondo. E così via, senza fine sino alla fine.
Il capitale umano
di Paolo Virzì
Con: Valeria Bruni Tedeschi (Carla Bernaschi), Fabrizio Bentivoglio (Dino Ossola), Fabrizio Gifuni (Giovanni Bernaschi), Matilde Gioli (Serena Ossola), Valeria Golino (Roberta Morelli), Luigi Lo Cascio (Donato Russomano), Bebo Storti (l’ispettore), Gianluca Di Lauro (il ciclista), Giovanni Anzaldo (Luca Ambrosini), Gugliemo Pinelli (Massimiliano Bernaschi)
Italia, 2014
Trailer del film
Le parole sono il mondo, si sa. Definire un ente e un evento in una maniera o in un’altra significa conferirgli una diversa realtà. Nell’epoca dell’ultraliberismo vincente e di sinistra -da almeno vent’anni- uomini e donne che lavorano sono diventate delle risorse umane, la fine dei finanziamenti a fondamentali bisogni sociali si chiama spending review, la subordinazione della politica alla finanza ha preso il nome di governamentalità, le più squallide operazioni di potere e una miriade di intrallazzi vengono definite responsabilità. E così via nello schifo che soltanto il servilismo dei giornali e dei giornalisti di proprietà delle banche e dei partiti può trasformare in profumo.
Questo in tutto l’Occidente e, di fatto, nel mondo. In Italia, solita fortunata, si aggiunge da vent’anni la presenza di un bandito ricattato e ricattatore, le cui televisioni -come Pasolini ben aveva previsto- hanno trasformato non soltanto il vivere sociale ma assai più a fondo l’antropologia di questo popolo, il quale possedeva già comunque tutte le condizioni per diventare ciò che è. Tale popolo ha infatti per due volte nello stesso secolo dato credito e gloria a due scaltri buffoni carismatici come Mussolini e Berlusconi. Il risultato è un modo di esistere e di pensare che il film di Virzì ben esprime attraverso una storia brianzola (la Brianza di Carlo Emilio Gadda!) intrisa di ferocia, di tracotanza, di culto verso il denaro, di dissoluzione di ogni legame sociale, di provincialismo e soprattutto di volgarità. Una volgarità culturale (nel senso antropologico) incarnata da due magnifici attori che interpretano -rispettivamente- la cialtroneria del piccolo imprenditore che vuole diventare ricco in poco tempo (Dino Ossola) e l’elegante spietatezza di uno squalo della finanza (Giovanni Bernaschi).
Assistendo alla progressiva parabola discendente di questi e degli altri personaggi ho goduto, augurando a tutti i loro emuli e consimili nella vita reale il medesimo destino. Il loro personale «lieto fine» con il quale il film si chiude è, certo, l’ammissione della sconfitta di una giustizia più alta di quella del diritto, l’ammissione del fatto che «sulla terra è la volgarità che è immortale» (J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Boringhieri 1958, p. 214) ma è anche la conferma della nullità assoluta di queste vite, degne soltanto di disprezzo. Lo stesso disprezzo che meritano gli italiani.
Piccolo Teatro Grassi – Milano
La cantatrice calva
(La cantatrice chauve, 1950)
di Eugène Ionesco
Traduzione di Gian Renzo Morteo in collaborazione con Marco Plini
Scene e costumi di Claudia Calvaresi
Con: Mauro Malinverno (signor Smith), Valentina Banci (signora Smith), Fabio Mascagni (signor Martin), Elisa Cecilia Langone (signora Martin), Francesco Borchi (il capitano dei pompieri), Sara Zanobbio (Mary, la cameriera)
Regia di Massimo Castri
Produzione del Teatro Metastasio Stabile della Toscana
Sino al 26 gennaio 2014
È un esperimento interessante e fallito questa regia di Massimo Castri. Interessante perché fallito. Siamo infatti abituati a vedere classici come i tragici greci, Shakespeare, Goldoni, Pirandello e molti altri attualizzati in ambienti e con costumi contemporanei. Il che non ostacola la comprensione del testo, anzi assai spesso ne evidenzia l’universalità. Qui si tenta l’operazione opposta, ambientando un testo del 1950 alcuni decenni prima, se non alla fine dell’Ottocento. Certo, lo stesso Ionesco aveva in mente la classe borghese e i suoi riti ma la genialità de La cantatrice chauve va al di là delle intenzioni del suo autore e consiste in una tragedia, che invece qui rischia di trasformarsi in farsa.
Quale tragedia? Quella del linguaggio. Il linguaggio che diventa stereotipo, formula che gira su se stessa, aneddoto ripetuto mille volte, significante che va all’infinito senza più significare nulla. La potenza del linguaggio, la sua magia si potrebbe tranquillamente dire, consiste nel fatto che «con materia assai piccola e invisibile sa compiere cose divine: riesce infatti a calmare la paura, a eliminare il dolore, a suscitare gioia, ad accrescere la compassione»1. La potenza del linguaggio è tale che la sua caduta nella pura onomatopea è il crollo del mondo umano2. Ed è ciò che accade nel testo di Ionesco, un labirinto di parole comunissime e insensate, urlate e annientate, cantilenate e frastornate, banali e capovolte, inquietanti e grottesche, imprevedibili e seriali. Sino al finale (prima che tutto ricominci) «c’est pas par là, c’est par ici…c’est pas par là, c’est par ici…c’est pas par là, c’est par ici…». Il riso suscitato dallo strambo si immerge nella pienezza del niente, del puro significante.
Note
1. Gorgia, Encomio di Elena, in «I Presocratici», a cura di G. Giannantoni, Laterza 1983, vol. II, pp. 929-930 (con alcune modifiche nella traduzione).
2. «Il λέγειν, il parlare, è lo statuto fondamentale dell’esistere umano. Nel parlare esso esprime sé nel modo del parlare di qualcosa, del mondo. Questo λέγειν era per i Greci talmente onnipervasivo che proprio riferendosi a tale fenomeno e muovendo da esso giunsero alla definizione di uomo, denominandolo ζῷον λόγον ἔχον» (M. Heidegger, Il «Sofista» di Platone, Adelphi, 2013, p. 62).
La triade delle cose comuni proiettata nel cielo del sapere
il manifesto
2 novembre 2013
pag. 11
«Segni, simboli e indici. Parole chiave non solo per spiegare la comunicazione ma anche il rapporto tra la mente e il cervello»