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Дылда

Giraffa
(ДЫЛДА; titolo italiano La ragazza d’autunno)
di Kantemir Balagov
Con: Viktoria Miroshnichenko (Iya Sergueeva), Vasilisa Perelygina (Masha), Andrey Bykov (Nikolay Ivanovich), Igor Shirokov (Sasha), Konstantin Balakirev (Stepan)
Fotografia: Kseniya Sereda
Russia, 2019
Trailer del film

Il titolo italiano è tanto banale quanto significativo della difficoltà che i distributori del film hanno incontrato nel decifrare un’opera estrema. Che è tale non per quello che racconta ma per come lo fa e per ciò che emerge dalla profondità della storia umana.
La vicenda è infatti ambientata a Leningrado nell’inverno successivo alla conclusione della Seconda guerra mondiale. Le ferite della città e quelle inferte alle vite dei suoi abitanti appaiono terribili. Tutti hanno subìto dei lutti, delle menomazioni, la miseria.
Iya prestava la sua opera al fronte ma è stata congedata perché un trauma di tanto in tanto la blocca, la incanta, non le fa percepire più nulla intorno a sé. Ora svolge mansioni di infermiera in un ospedale. La ragazza ha portato a Leningrado Pashka, figlio di Masha, una sua amica anch’essa al fronte. Ma quando a guerra finita Masha torna in città, il bambino non c’è più. La madre ne vuole a tutti i costi un altro. Da tale volontà emergono l’ambiguità delle relazioni, la costanza dell’ingiustizia, la tristezza profonda. E su tutto aleggia come un senso di rassegnazione rispetto al dolore.
Una rassegnazione atavica, certo, profondamente russa. Come russa è l’imprevedibilità delle azioni, delle volontà, delle passioni. «Ma una piena, assoluta tristezza è altrettanto impossibile come una piena, assoluta gioia»1.
«Sai tu che una donna è capace di tormentare un uomo con le sue crudeltà e le sue derisioni senza provare il più piccolo rimorso, perché ogni volta che lo guarda pensa tra sé: ‘Ecco, ora lo torturo a morte, ma in cambio, poi, lo ricompenserò col mio amore…’»; «Ma l’anima altrui è tenebra, e anche l’anima russa è tenebra, per molti è tenebra»2 .
Una storia così antica –la guerra, due madri, un futuro che sembra chiuso– viene narrata in modo ellittico, spostando di continuo sia la narrazione sia lo sguardo là dove lo spettatore non si aspetta che vada. I colori sono accesi, quasi fatti d’oro e di trionfo, persino il bianco della neve si trasfigura nella pienezza dell’iride. Ma sono colori che cadono sul divenire dolente dei corpi, che sembrano avere quasi nostalgia del morire e che quando sorridono mostrano lo struggente e insieme inquietante desiderio di ciò che non è stato e non sarà.
I corpi, infatti, sono qui tutto. A partire da quello altissimo di Iya, che per questo viene chiamata Дылда, ‘giraffa’ nel senso di spilungona. Ma non è l’altezza la prima caratteristica di questo corpo bensì la distanza, la lontananza, la stranezza, il gelo. Corpi che mostrano la propria desolazione quando fanno l’amore senza trarre alcun piacere. Corpi coperti da abiti troppo grandi, corpi abbaglianti di amarezza quando sono nudi.
Il film si chiude sull’abbraccio tra due di questi corpi. Uno stringersi sincero ma il cui sorriso è consapevole che quanto quei corpi si stanno dicendo non è auspicio ma è una condivisa illusione.

Note
1. L.N. Tolstòj, Guerra e pace, trad. di E. Carafa d’Andria, Einaudi 1990, p. 1259.
2 F.M. Dostoevskij, L’idiota, trad. di A. Polledro, Einaudi 1981, pp. 361 e 227.

[Photo by Daria Gorbacheva on Unsplash]

Myškin

L’idiota
(1869)
di Fëdor Dostoevskij
Trad. di Alfredo Polledro
Con un saggio introduttivo di Vittorio Strada
Einaudi 1981
Pagine XXXII-609

Una raffinata barbarie, una giovane decadenza, un segno e un’eco di antiche civiltà, una speranza. Nel principe Myškin e nei grandi e piccoli personaggi che lo circondano vive la Russia santa e tellurica. La presenza del Cristo si staglia come impossibile incarnazione dell’Ideale, nella consapevolezza che «la parola “cristianesimo” è un equivoco-, in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce. Il “Vangelo” morì sulla croce» (F. Nietzsche, L’anticristo, trad. di F. Masini, in «Opere», vol. VI, tomo 3, Adelphi 1975, § 39, p. 214). L’immagine che forse meglio descrive il Cristo è quella di un “idiota”, un essere felice e ignaro ma anche turbato e malato, dal grande cuore e di una altrettanto grande ingenuità.
Questo idiota diventa il catalizzatore dei sentimenti di chi lo incontra. Alla sua luce si fanno chiari l’odio, l’abiezione, la stravaganza, la generosità, l’orgoglio, la vigliaccheria, la rivolta, la stupidità, l’amore degli umani.
Questo principe ingenuo e bambino viene amato con passione dalla due più contorte e potenti figure femminili del romanzo. «Sai tu che una donna è capace di tormentare un uomo con le sue crudeltà e le sue derisioni senza provare il più piccolo rimorso, perché ogni volta che lo guarda pensa tra sé: “Ecco, ora lo torturo a morte, ma in cambio, poi, lo ricompenserò col mio amore…”?» (pag. 361); «La odierai per tutto l’amore che le porti oggi, per tutte queste torture che ora provi» (212).
E però Myškin non può amare come un uomo, il suo è un sentimento che proviene da un’altra regione dell’essere, da un altro universo di significati e di azioni. La sua vita è una vicenda sentimentale e barbarica, desiderante e dolorosa, sanguinosa e vitale, religiosa e nichilistica. Una vicenda profondamente orientale. L’Occidente è troppo consapevole o forse semplicemente vive in modo diverso la sua volontà di pienezza e di nulla.
Ma L’idiota non è soltanto la testimonianza di una civiltà nichilistica. Al di là del suo svolgersi, del suo esito e della miriade di eventi che racconta, questo libro contiene una matura fierezza: l’orgoglio di un’intelligenza che sa indagare nei meandri dell’umano, che sa trasformare la morte e il sacrificio nella luce della letteratura e della poesia. «Ma l’anima altrui è tenebra, e anche l’anima russa è tenebra, per molti è tenebra» (227).

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