Il numero 27 di Alfabeta2 (marzo 2013) dedica alcuni articoli alla lettura. In particolare ai rapporti del Libro con la Rete e alla questione tradizione/innovazione. Socrate criticava -nel Fedro- il nuovo strumento rappresentato allora dal testo scritto rispetto alla trasmissione orale. Il capovolgimento si esprime anche nel paradosso per il quale gli eBook reader rendono ora di nuovo possibile la lettura a scorrimento -dall’alto in basso- che era tipica del volumen antico, prima che fosse inventato il libro rilegato e diviso in pagine. E la continua distrazione che la Rete favorisce? E il forsennato multitasking al quale siamo indotti, visto che leggere un libro avendo davanti un computer acceso significa aprire continuamente pagine (della Rete), ricevere delle mail, chattare? Tutto questo descrive un mondo di rischi e di possibilità rispetto al quale il libro -il libro stampato- rimane un oggetto perfetto perché non ulteriormente migliorabile in vista del suo scopo, come una forchetta.
Ho letto di recente dei ponderosi volumi in pdf e l‘esperienza è nella sua sostanza assai simile a quella della lettura di un libro stampato. Solo che non potevo toccarlo, scriverci sopra, portarlo davvero con me. Rispetto a un pdf il libro vince. E pareggia invece nei confronti di un eBook, poiché quest’ultimo è altra cosa, rappresenta una modalità diversa di ricevere informazioni, apprendere concetti, elaborare idee.
Perché dunque vedere un aut aut dove si può scorgere un et et? Il reperimento immediato e veloce di notizie dalla Rete -che poi vanno filtrate in modo critico, naturalmente- è uno straordinario strumento di supporto alla lettura lenta, ripetuta, profonda. È questa lettura che ci rende umani.
Maryanne Wolf -che ha scritto un libro dal titolo Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge– osserva che «poche invenzioni hanno fatto più della lettura, in termini di progresso della nostra specie. Strutturalmente il nostro cervello non è molto diverso da quello degli uomini prealfabetizzati di milioni di anni fa. Tuttavia i diversi sistemi di scrittura e, di conseguenza, la lettura hanno creato uno spartiacque, comprovando che il nostro cervello ha un’attitudine innata a riorganizzarsi per svolgere nuove funzioni (la lettura, appunto)». E -andando al cuore della questione- continua affermando che «la lettura, già lo aveva capito Marcel Proust, apre un tempo oltre il tempo. La lettura è, precisamente, il tempo del pensare oltre. […] Per questo, anziché rivolgerci a quel surplus informativo che ci rende terribilmente soli nel cuore di una folla e finisce col soffocare ogni capacità di lettura, dovremmo con lo stesso Proust ricordare che leggere, forse, “nella sua essenza originaria” altro non è che il “fruttuoso miracolo di una comunicazione nel mezzo di una solitudine”» (Alfabeta2, 27, p. 22).
Leggere significa, come ancora Proust ci suggerisce, dialogare con noi stessi prima che con l’autore del libro; significa legare nel profondo il tempo che noi siamo con quello -non importa quanto distante- nel quale vennero pensate le parole che ora incontriamo; significa aver trovato la chiave universale che apre gli spazi sconfinati del sapere. «Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane» (Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo [1632], Einaudi, 1982, Dialogo I, p. 130).
Die Blendung [1935]
di Elias Canetti
Trad. di Luciano e Bianca Zagara
Adelphi, 1985
Pagine 521
Un masso isolato nello spazio del mondo e delle parole che tentano di descriverlo. Un mondo andato in pezzi e una scrittura icastica che ne restituisce la realtà frantumata. Un flusso di coscienza non soggettivo, non più interiore, come se la maligna assurdità delle cose avesse preso da sé voce e forma parossistiche e tuttavia geometriche. Un teorema espressionistico. Questo è Die Blendung, l’unico romanzo di Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981.
Peter Kien è un sinologo universalmente ammirato. Ma è «una testa senza mondo» (titolo della prima parte). Vive solitario nella sua grande casa-biblioteca, fin quando la sua governante Therese -una donna che «non aveva niente di sacro, era un essere molto crudele» (p. 344)- non lo raggira e lo induce a sposarla. Comincia allora l’avventura di Kien in un «mondo senza testa» (titolo della seconda parte), nel quale «la vita quotidiana era un superficiale groviglio di menzogne» (20). È un mondo composto da individui ipocriti, violenti, volgari, miserabili. Il mondo degli umani. Therese lo butta fuori di casa impadronendosi dell’appartamento e di tutti i suoi libri; un nano gli sottrae con pazienza e metodo buona parte del patrimonio; un portinaio omicida lo rinchiude al buio in uno stanzino maleodorante. Per una fortunata e fortuita circostanza arriva il fratello Georges, celebre psichiatra, a liberarlo dalla moglie-mostro e da ogni fastidio. Ma, partito Georges, «il mondo nella testa» (titolo della terza parte) comincia il suo moto vorticoso, incontenibile, corrusco.
Che cosa racconta questa storia?
Racconta la follia.
Racconta la scotomizzazione, che restringe la visuale dei personaggi fino a escludere dallo sguardo ciò da cui ciascuno si sente impaurito o infastidito.
Racconta la paura che il tempo suscita tra gli umani, il loro desiderio di cancellare il presente e rifugiarsi nell’immobilità del passato oppure nel futuro che avrà reso passato il presente: «Il futuro, il futuro, come fare per rifugiarsi nel futuro? Una volta passato il presente, lui non avrà più nulla da temere da esso. Ah, se fosse possibile cancellare il presente! L’infelicità del mondo dipende dal fatto che noi si vive troppo poco nel futuro. […] La colpa di tutti i dolori è nel presente. Lui non vede l’ora che giunga il futuro perché allora nel mondo vi sarà più passato», questo pensa Kien (172).
Racconta la massa, il provare «la felicità di volere tutti insieme la stessa cosa» (353). Massa che per Canetti è la forma naturale dell’umanità, la quale «esisteva, come massa, già molto prima di venire inventata -e annacquata- in sede concettuale. Essa ribolle, animale mostruoso, selvaggio, ardente e turgido di umori, nelle profondità del nostro essere, più profonda delle Madri» (447).
Racconta i libri, invenzione perfetta che però non può essere utilizzata come una corazza con la quale difendersi dal coacervo della vita e del suo orrore. Bisogna infatti che testa e mondo si incontrino in una comprensione profonda, disincantata e rigorosa dell’esistere. È in tale convergere che la cultura diventa «il salvagente dell’individuo contro la massa che è in lui» (446).
In ogni caso, «non c’è uomo che valga quanto i libri che possiede» (235) ed è vero che «diversi miliardi di uomini qualunque avevano vissuto assurdamente e altrettanto assurdamente erano morti. Mille uomini precisi, non più di mille, avevano edificato la scienza» (333).
Questo libro terrificante e terapeutico, ironico e catartico, insegna che alle tre principali forme della relazionalità umana -il gaudio inquieto, la prestazione e il possesso- bisogna aggiungerne una quarta: la ferocia.
Teatro Libero – Milano
Il sogno di Ipazia
di Massimo Vincenzi
Con Francesca Bianco
Voce fuori campo di Stefano Molinari
Musiche di Francesco Verdinelli
Regia di Carlo Emilio Lerici
Sino al 31 ottobre 2011
Una donna sola sulla scena. In mezzo ai libri. I libri che vorrebbe salvare dalla furia di coloro che parlano in nome di un dio ignorante, che riducono il divino a temere le parole degli umani e quindi a perseguitarle, ferirle, bruciarle. Ma «il pensiero non brucia» ripete Ipazia. E a distanza di sedici secoli la voce di questa donna è viva. Sono vive, certo, anche le parole dei discendenti di coloro che la linciarono con delle conchiglie affilate, che fecero scorrere il suo sangue e ridussero a brandelli la sua carne mentre risuonavano «le grida, le grida che mi investono. Le grida della loro sconfitta». E qui il climax della solitudine e della violenza subìta si capovolge nel disprezzo verso coloro, i cristiani, che hanno creato un dio a immagine e somiglianza del loro rancore, della loro miseria, delle loro paure.
Ipazia entra invece in scena con un sorriso di fiducia nella vita, di curiosità verso il suo enigma, di serenità per l’ordine nascosto del mondo. Le sue parole raccontano dell’ultimo giorno che visse, del suo sogno di proteggere i libri della grande biblioteca che i seguaci di Cristo invece bruceranno, della progressiva angoscia per il male che arrivava, della sua morte e della sua rinascita in quanti non hanno dimenticato l’intelligenza e la determinazione di questa donna antica.
Il racconto viene accompagnato dalle parole -del tutto reali- degli editti imperiali che in un crescendo di violenta intolleranza proibiscono ogni culto e azione ai pagani. E dalle parole di San Cirillo, il vescovo di Alessandria che fu il mandante del massacro. Devono essere ben miserabili questi cristiani se hanno avuto così tanta paura di una donna sola. Una donna che afferma sin dall’inizio «lo studio è tutto». Perché cercare di comprendere l’essere è il senso stesso dell’animale umano, come volare alla ricerca di cibo è il senso stesso dell’esserci di un’aquila.
Francesca Bianco dà voce e corpo a questo sogno che diventa incubo di sangue per tornare a essere il calmo profilo di Ipazia che alla fine si staglia sulla scena. Lei viva, i suoi massacratori morti ancor prima d’essere nati.
L’unico -magnifico e terribile- romanzo di Elias Canetti è dedicato ai libri: Auto da fé è il titolo italiano voluto dall’autore; in tedesco Die Blendung, vale a dire “luce accecante”, “abbagliamento”, “luminanza”, una sorta di shining. Di libri parla anche un racconto che si intitola, semplicemente, Die Bücher, «I libri». Ne traduco qui una pagina che esprime con efficacia che cosa essi siano per chi li ama: «Li passò in rassegna, i suoi begli amici sempre in piedi. Tutti uguali e tutti diversi. I libri. Guardarli, toccarli, pensarli gli dava una sensazione di definitività. Come se da quel raggrumo di scoperte, di concetti e di parole venisse finalmente alle cose un senso. Silenzioso. Questo era meraviglioso in loro. Stanno zitti e quieti sino a che non li fai parlare. E quando aprono pagina dicono dicono, inventano, spiegano, mentono, registrano, scherzano, annoiano, descrivono, piangono e spremono dalla carta il succo. Quel succo lo aveva sempre inebriato. L’avrebbe salvato pure questa volta».
(E. Canetti, Die Bücher, Fischer Verlag, Frankfurt a. M. 1970, p. 3)
«La medicina, data la complessità e le variabili del corpo umano, non può essere una scienza esatta» (P. Garzia, p. 32). È questa, probabilmente, la chiave più plausibile per ragionare sul miracoloso. Che cosa c’entra? Molto.
di Anonimo Anonymous
Tbook, Milano 2009
Pagine 171
Questo libro va descritto e commentato su due piani. Uno è quello dei suoi contenuti, l’altro è la forma in cui appare. Partiamo dal primo.
Milano – Biblioteca di via Senato
Sino al 3 maggio 2009
L’immaginazione (grafica) al potere! Questa interessantissima mostra documenta, infatti, l’evoluzione della forma libro e della miriade di pubblicazioni che costellarono il Sessantotto e gli anni immediatamente successivi.
Il fondo utilizzato è quello della Biblioteca di via Senato a Milano: circa 2.500 materiali tra libri, giornali, riviste, documenti, manifesti, volantini, ciclostilati…Tra i pochi oggetti non librari si possono ammirare dei veri e propri reperti: un megafono, un ciclostile, una macchina da scrivere marca “Contessa” di colore arancione.
Dalla grafica essenziale ed elegante dei primi testi si passa col tempo a una maggiore varietà e ricchezza cromatica, si passa alla riproduzione sulle copertine dei ritratti dei santi protettori -Marx, Lenin, Mao, Che Guevara-, a soluzioni formali spesso di grande livello e originalità.
I periodici, poi, creano un vero e proprio linguaggio dall’impatto molto forte nel quale slogan e immagini si fondono a profetizzare la rivoluzione inevitabile e imminente. Ma insieme ai classici del marxismo-leninismo-maoismo e alle pubblicazioni dei vari gruppi rivoluzionari (indimenticabile Servire il popolo, organo di stampa dell’«Unione dei marxisti-leninisti italiani», il cui leader indiscusso era Aldo Brandirali, poi finito a far l’assessore nelle giunte berlusconiane del comune di Milano) si possono vedere anche alcuni testi di Julius Evola, i primi libri di Comunione e Liberazione, persino un numero della Voce della fogna, periodico semiclandestino che con umorismo rivendicava l’identità di Destra anche attraverso l’uso del fumetto.
Ed è l’ironia anarchica che rimane ancora viva. Il situazionista Vaneigem nel suo Brindisi alla salute dei lavoratori rivoluzionari scriveva -con evidente parodia del Manifesto– «Abbiamo da guadagnare un mondo di piacere. Non abbiamo pertanto altro da perdere che la nostra noia» e Gianfranco Sanguinetti consigliava al capitalismo, per salvarsi, di aderire al PCI. È finita col PCI che ovviamente ha aderito al capitalismo. E non solo il PCI…
La mostra fa un effetto particolare, una mescolanza di nostalgia, sconfitta delle idee, vittoria delle forme narcisistiche delle quali il Sessantotto fu intessuto.