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Vita e salute

Vita e salute
Il paradigma Don Abbondio
in Krisis. Corpi, Confino e Conflitto
Catartica Edizioni, 2020, pp. 120
Pagine 27-54

Questo volume, a cura di Afshin Kaveh, raccoglie cinque saggi che costituiscono una prima analisi critica di quanto è avvenuto e ancora accade in relazione al Covid19. Da prospettive diverse e interagenti abbiamo cercato di individuare le scaturigini dell’epidemia, il manifestarsi in essa di qualcosa che maturava da molto tempo, la miseria della sua gestione da parte delle autorità e dell’informazione, il nesso tra natura, politica, malattia, i possibili sviluppi, la crisi che il morbo ha generato in ogni anfratto del corpo collettivo.
È il testo nel quale ho cercato di esprimere con la maggiore chiarezza e completezza possibili ciò che penso dell’attuale momento storico. Anche se indirettamente, ho cercato di far emergere la forza psicosociale del virus come manifestazione di una potenza ancestrale, del bisogno di dogmi in una società del disincanto, dell’intimidazione moralistica come rito collettivo che dà forza a chi lo pratica in contrapposizione agli “egoisti, malvagi e indifferenti”. Il Covid19 come religione, insomma.

Il saggio è articolato in sette paragrafi:
-La vita di Don Abbondio
-La vita
-Il potere
-Panico televisivo
-Il corpo cancellato di Socrate
-I luoghi
-Infine, l’Intero, la Φύσις

[Una versione più sintetica e liberamente leggibile di questo saggio si trova qui: Epidemie]

 

Sul determinismo

La sensazione del libero arbitrio
il manifesto

20 agosto 2020
pagina 11

L’illusione della volontà cosciente dello psicologo Daniel Wegner è un libro fecondo anche perché sostiene e conferma sul piano empirico una verità logico-teoretica evidente, quella per la quale il libero arbitrio è una sensazione assai potente e certamente funzionale ma non per questo relativa a qualcosa di reale. Come scrive Wegner, «il libero arbitrio è una sensazione, mentre il determinismo è un processo. Sono incommensurabili».
A un tema come questo, che ritengo fondamentale sia in chiave antropologica sia metafisica, ho dedicato alcuni anni fa un intero corso e un saggio dal titolo Il libero arbitrio tra neuroscienze e filosofia.
Nell’articolo è saltata un’affermazione di Einstein, che recupero qui: «un Essere, dotato di una capacità di intuizione superiore e della più perfetta intelligenza, osservando l’uomo e le sue azioni, sorriderebbe di fronte all’umana illusione di agire in base al proprio libero arbitrio». Esattamente ciò che pensava Spinoza.

Sul limite

Le società umane abitano spesso nel paradosso. Paradossi a volte innocui ma altre, invece, assai pericolosi. Un caso che rientra nella seconda fattispecie è quello dell’odio. Si emanano leggi e si istituiscono persino commissioni contro l’odio ma esse stesse, leggi e commissioni, sono e diventano strumenti d’odio contro i presunti odiatori. Si scatenano così vere e proprie campagne di propaganda rivolte a calunniare e a criminalizzare chi non la pensa allo stesso modo degli autodefinitisi nemici dell’odio. Le vittime preferite di tale odio sono populisti, sovranisti, ‘ecologisti profondi’, e tutti coloro che richiamano il limite senza il rispetto del quale le società semplicemente si dissolvono.
Due esempi di ignoranza del limite riguardano entrambi la popolazione umana e il suo crescere a dismisura.

Il primo caso concerne la questione fondamentale del presente, che però emerge di rado e viene pochissimo discussa, la questione demografica:
«Aujourd’hui, avec plus de 250.000 naissances par jour, on a dépassé les 7,7 milliards. Pour la fin du siècle, les estimations moyennes tournent autour de douze milliards, les estimations hautes autour de seize milliards. […] Pas plus qu’il ne peut y avoir de croissance matérielle infinie dans un espace fini, la population ne peut s’accroître indéfiniment sur une étendue limitée. Malheureusement, nous sommes à une époque qui ne supporte pas les limites. […] le laisser-faire nataliste est aujourd’hui irresponsable, et le ” respect de la vie ” ne saurait s’étendre à ceux qui ne sont pas encore conçus»
‘Con oltre 250.000 nascite al giorno, si sono superati i 7,7 miliardi [di umani]. Per fine secolo le stime medie ruotano sui 12 miliardi, le più alte sui 16 ma come non può esserci una crescita materiale infinita in uno spazio finito, la popolazione non può crescere indefinitamente su un’estensione limitata. Purtroppo siamo in un’epoca che non sopporta limiti. […] Oltre l’80% dell’intera biomassa prodotta annualmente nel mondo è già sfruttata. […] Il lasciar fare natalista è oggi irresponsabile e il ‘rispetto della vita’ non può essere esteso a chi non è stato ancora concepito’
(Alain de Benoist, Boulevard Voltaire, 25.1.2020 ; cfr. anche il mio Nascere?).
Il climatologo Luca Mercalli, intervistato da Carlotta Pedrazzini su A Rivista anarchica, conferma che «è più facile cambiare il sistema pensionistico piuttosto che le leggi della termodinamica, eppure questa cosa non riusciamo a capirla. Le leggi fisiche, a differenza dei sistemi pensionistici, sono invarianti, sono così da miliardi di anni e non cambiano secondo i desideri umani. […]
I tre indicatori a cui guardare quando si affronta questo tema sono: risorse disponibili, numero di esseri umani e livello di vita di questi esseri umani. È giusto rendere il mondo più sostenibile con l’economia circolare, facendosi aiutare dalla tecnologia, ma dobbiamo tenere conto che se si vuole stare bene e assicurare a tutti un alto livello di benessere, dovremmo essere 2 miliardi. Invece siamo 8. Perché? Chi ci ordina di continuare a essere sempre di più? […]
Se non inizieremo a mettere in relazione l’aumento demografico e la crisi ambientale, le disposizioni autoritarie arriveranno sicuramente. Lo dimostra l’attuale emergenza sanitaria legata al coronavirus. Non si stanno forse prendendo misure autoritarie? Però le persone con la strizza stanno zitte e le accettano, accettano che si blindino paesi e che si metta la polizia alle porte, ma ci rendiamo conto che si tratta di un coprifuoco che non si vedeva dal 1945? Qualcuno, per caso, ha sollevato il problema della libertà? Quando i problemi ambientali diventeranno pari a quelli oggi percepiti per il coronavirus o peggio, verranno fatte scelte autoritarie. Al contrario, la riduzione della popolazione raggiunta attraverso l’educazione sessuale è una disposizione democratica» (Più siamo peggio è, A Rivista anarchica 442, aprile 2020, pp. 52-55).

Il secondo caso riguarda una delle più profonde cause di violenza e di conflitti, quello che nasce dall’ignorare e dal violare «una delle leggi fondamentali della politica, valida in ogni tempo e luogo e implicita nella parola, per la sua derivazione dal concetto di polis: la tendenza delle popolazioni insediate in un territorio a difenderne i confini fisici – e le consuetudini comunitarie stabilite all’interno di essi – da qualunque tipo di minaccia esterna o di invasione. E migliaia di anni di storia dimostrano che all’infrazione di questo limes (psicologico non meno che materiale) ha sempre corrisposto un insieme di vigorose reazioni» (Marco Tarchi, Diorama letterario, 352, novembre-dicembre 2019, p. 2).

Coloro i quali (dalla appartenenza ideologica e ideale più diversa) ignorano questi due limiti – il numero degli umani e l’identità dei gruppi –  sono destinati a scatenare le più feroci manifestazioni d’odio. Effetto tragico e, appunto, paradossale ma inevitabile poiché iscritto nelle strutture antropologiche collettive.

Un delirio collettivo

Fisiologiche e frequenti sono nelle collettività umane le ondate di delirio collettivo causate da diverse ragioni e circostanze: guerre e fanatismi bellici atti a mobilitare cittadini e sudditi verso la loro morte e quella altrui; millenarismi religiosi pronti ad assicurare che un qualche regno dei cieli è vicino e basta fare qualcosa – ad esempio recarsi a piedi a Gerusalemme e conquistarla nel nome di Cristo (1096)– per ottenere la garanzia della salvezza; epidemie e contagi che spargendo il terrore supremo giustificano ogni ordine e decreto delle autorità pro tempore, qualunque sia il loro segno politico.
In nome del contagio da Covid19 e della pandemia psichica da esso scatenata si proibiscono i matrimoni tra omosessuali; si lasciano in angosciosa solitudine i moribondi; si dà la caccia a solitari camminatori sulle spiagge; si sprangano scuole, università e biblioteche facendo precipitare il corpo sociale in quelle che una volta si chiamavano le «tenebre dell’ignoranza», sostituendo la relazione viva con un algido e sterile contatto digitale/telematico/virtuale tra insegnanti e allievi.

E inoltre, a clamorosa negazione di anche recentissime campagne ecologiche, si suggerisce l’utilizzo dell’automobile privata come ‘mezzo più sicuro’ rispetto a quelli pubblici; si impongono mascherine/museruole e guanti di plastica il cui casuale smaltimento sta producendo danni enormi all’ambiente, come testimonia anche il noto geologo Mario Tozzi sulla rivista del Touring Club Italiano:

«Arrivano già le segnalazioni di quantitativi crescenti di mascherine e guanti in mare, dove diventano letali per tartarughe e pesci che li scambiano per cibo. […] Se anche solo l’1% delle mascherine venisse smaltito non correttamente (e alla fine disperso in natura), ciò significherebbe dieci milioni di mascherine al mese disperse nell’ambiente. […] Questa roba finirà nel Mediterraneo, dove ogni anno si riversano già 570 mila tonnellate di plastica. […] E c’è una contraddizione ambientale ancora più pesante. Ovviamente soffriamo per le 320mila vittime che Covid19 ha mietuto in tutto il mondo, ma non ci impressionano tanto i 4 milioni di morti in più , rispetto alle medie ‘normali’ che l’Oms segnala da tempo a proposito dell’inquinamento atmosferico; 80 mila solo in Italia, quando per il virus ne piangiamo, per ora, meno della metà. Il virus fa paura, l’inquinamento e la plastica inutile no»
(La rivincita della plastica, «Touring», luglio-agosto 2020, p. 22).

Le ondate di panico collettivo sono sempre molto pericolose e quella legata al Covid19 è particolarmente insidiosa anche per la sua dimensione planetaria, globale, dalle conseguenze ambientali assai gravi e intrisa di un asfissiante conformismo.

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Questo testo è stato pubblicato il 22.6.2020 su corpi e politica  e su girodivite.it.
Dal 28 giugno anche corpi e politica è entrato in una nuova fase, come si può leggere nel testo collettivo Corpi e corpi. In presenza, nel quale scriviamo – tra l’altro – che «oggi, nel tempo oscurantista della paura, […] liberare i corpi significa puntare sull’incontro fisico, rilanciare la potenza del contatto e la necessità – umana ovvero politica – della relazione.
Tenere una lezione ai propri studenti senza mediazioni telematiche, in presenza fisica; lavorare in gruppo ‘dal vero’; spostarsi fisicamente in un’altra città o nazione; fare una festa; fare un’assemblea – potrebbero sembrare le più ovvie delle rivendicazioni, il ritorno a una normalità da recuperare dopo un periodo di obbligata astinenza. Ma invece proprio il tempo della deprivazione ha dimostrato quanto quelle pratiche siano preziose, funzionali alla vita activa senza la quale, per l’uomo, non si dà vita contemplativa ma neppure la mera sopravvivenza biologica.
Per questo corpi e politica si apre da oggi non solo alle riflessioni sul nostro tempo, ma anche al racconto di esperienze concrete di liberazione dei corpi, che possono prefigurare nuove forme di resistenza all’invadenza – di sistema e di dettaglio – di uno Stato etico che mina alla radice la libertà della vita» .

Servi

Étienne de La Boétie
Discorso sulla servitù volontaria
(Discours de la servitude volontaire o Contr’un)
Trad. di Fabio Ciaramelli
Chiarelettere,  2011
Pagine XXIII – 71

Ai pochi che amano davvero la libertà

La questione fu posta con chiarezza e ironia da d’Holbach: se «quella di strisciare è la più difficile delle arti» (Saggio sull’arte di strisciare a uso dei cortigiani, qui in Appendice, p. 65) perché un numero sterminato di esseri umani vi si sottomette? La risposta di questo classico libriccino di Étienne de La Boétie è molto chiara sin dal titolo: si tratta di volontà. Sta qui, in questa struttura psicosociale, la forza e la debolezza della riflessione di La Boétie (1530-1563), il quale è convinto che «per avere la libertà occorre solo desiderarla, è necessario un semplice atto di volontà» e che dunque sono «gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che col solo smettere di servire, sarebbero liberi. […] È il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca» (10). La posizione è talmente radicale da indurre l’autore alla seguente limpida formula: «Potete liberarvi senza neanche provare a farlo, ma solo provando a volerlo. Siate risoluti a non servire più ed eccovi liberi» (14).
Bisogna tuttavia chiedersi perché gli umani siano così facilmente spinti a rinunciare alla libertà e a sottomettersi. Il valore del testo consiste nel cercare di articolare alcune risposte a questa domanda.
Innanzitutto l’abitudine, la quale se «in ogni campo esercita un enorme potere su di noi, non ha in nessun altro campo una forza così grande come nell’insegnarci la servitù» (22). L’abitudine è a sua volta in gran parte fondata sull’educazione, che per La Boétie è in realtà «la prima ragione per cui gli uomini servono volontariamente» (32), educazione alla sudditanza che viene praticata sin dalla nascita. A tali elementi psicologici, familiari e ambientali si aggiungono quelli sociali, che consistono nelle strategie stesse del potere, prima delle quali è la distrazione, i ludi, i circenses, l’«aprire bordelli, taverne e sale da gioco» (35), oggi diremmo lo Spettacolo.
La Boétie accenna anche alla promessa e alla minaccia di paradisi e inferni nell’al di là e ai vantaggi, ai favori, al carrierismo e alle ricchezze che il servire comunque garantisce a chi ubbidisce con slancio e radicale sottomissione.

Il quadro fornito dal Discours è molto efficace nel disegnare i pericoli, gli svantaggi, l’incertezza e la sciagura del servire i potenti, la cui azione è sempre caratterizzata da imprevedibilità e arbitrio, proprio perché al potere è essenziale far vivere nell’insicurezza i sottomessi: «È un’estrema disgrazia esser soggetti a un padrone della cui bontà non si può mai esser sicuri poiché ha sempre il potere d’incattivirsi a proprio piacimento» (4). Se nonostante questo i singoli e le collettività si pongono al servizio di persone quasi sempre tanto rozze quanto feroci, sino a rinunciare più o meno integralmente alla libertà, che è un bene «così grande e piacevole, tanto che quando viene perduta si produce ogni male, e gli stessi beni che dopo la sua scomparsa permangono perdono interamente il loro gusto e sapore, corrotti come sono dalla servitù» (12), le ragioni debbono essere altrettanto radicali e non limitarsi al piano superficiale della volontà. Una tra le cause più importanti è la catena del comando, che così viene efficacemente descritta dall’autore:

Sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno […] come complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi piaceri, ruffiani delle sue dissolutezze e soci delle sue ruberie. […] Quei sei hanno poi sotto di loro altri seicento approfittatori, che si comportano nei loro riguardi così come essi stessi fanno col tiranno. Quei seicento ne hanno sotto di loro seimila, cui fanno fare carriera. […] Dopo costoro, ne viene una lunga schiera, e chi vorrà divertirsi a sbrogliare questa rete vedrà che non sono seimila, ma centomila, ma milioni che grazie a questa corda sono attaccati al tiranno, e si mantengono a essa. […] Insomma, grazie a favori o vantaggi, a guadagni o imbrogli che si realizzano con i tiranni, alla fin fine quelli cui la tirannide sembra vantaggiosa quasi equivalgono a quelli che preferirebbero la libertà (44-46).

Il riferimento storico costante di La Boétie è naturalmente la monarchia, il potere monocratico la cui volontà è legge, lo Stato in cui non si dà divisione e bilanciamento dei poteri, dove i corpi sociali non godono di autonomia, almeno formalmente. Non a caso vi si parla sempre del tiranno. Questo non vuol dire che il discorso non sia e non rimanga di costante attualità anche per le democrazie contemporanee, la cui fragilità si mostra evidente nell’attuale frangente di sospensione dei diritti elementari, come quello di muoversi nello spazio urbano, di incontrare i propri affetti, di piangere i morti. Neppure i regimi totalitari del Novecento si erano spinti a tanto.
Il modello di La Boétie è invece la storia greca, con la sua passione per la libertà durata secoli: «In quei giorni gloriosi non ebbe luogo la battaglia dei Greci contro i Persiani, quanto piuttosto la vittoria della libertà sul dominio, dell’indipendenza sulla cupidigia» (9).
Il dramma del potere, la sua forza, sta anche nella complessità della natura umana e delle relazioni che individui e società intessono tra di loro. Per abbattere “il Tiranno”, i cui esemplari la storia umana sforna di continuo, bisogna prima di tutto comprendere il labirinto dell’autorità, senza illudersi di percorrere  scorciatoie psicologiche come quelle fondate sul primato cristiano della volontà, alla quale La Boétie concede troppo spazio.

Se la servitù appare così spesso “volontaria” è anche perché essa si radica nella necessità della salvaguardia dei corpi individuali e collettivi. Salvaguardia certo apparente, visto che il potere è per sua natura una macchina stritolatrice, il cui obiettivo non è la salute del corpo sociale ma la perpetuazione degli organi di dominio.
Gli umani sono dunque pronti alla «servitù volontaria», anche quando possiedono consapevolezze e competenze culturali. A che cosa è valso indagare e mostrare significato e necessità dei riti funerari in antiche culture se poi si accetta la negazione di tale significato e di tale necessità nel presente? A che cosa è valso conoscere la relatività dei paradigmi scientifici se poi si obbedisce all’ipse dixit di ‘esperti’ tra di loro in perenne e totale conflitto? A che cosa è valso dedicarsi agli studi su Marx, Nietzsche, Foucault, Canetti, Deleuze se poi si obbedisce in modo convinto e completo alle ingiunzioni di un’autorità confusa e contraddittoria, che nasconde i nomi dei propri ‘consulenti’ e manipola numeri, scenari, terrori? Tanto valeva leggere Sorrisi e Canzoni TV.
È la paura del morire che sta a fondamento della pervasività del potere. Quando l’autorità prospetta il rischio della morte se si disattendono i suoi comandi, la probabilità di essere obbediti cresce esponenzialmente. È per questo che ogni epidemia diventa un dono per chi comanda, una vera e propria manna, che sia discesa dal cielo, fuggita da laboratori, germinata dalla terra e dalla sua potenza. Un’epidemia infatti dissolve con il suo stesso nome i corpi collettivi nei quali la socialità si organizza, cancellando la serie di elementi ricchi, complessi, plurali nei quali il vivere consiste. 

Virus e dispotismo 

Il testo di questa brachilogia non è mio ma esprime compiutamente ciò che penso, ciò che ho pensato da subito e che lo svolgersi degli eventi va confermando. L’autore è Gianfranco Sanguinetti definito da Afshin Kaveh (nel suo recente Le ceneri di Guy Debord, Catartica 2020, p. 17) «l’amico e situazionista» che intrattenne un rapporto costante, per quanto come sempre travagliato, con Guy Debord sino allo scioglimento dell’Internazionale Situazionista e anche oltre.
È stato Kaveh a segnalarmi questo testo e gliene sono grato. Condivido infatti per intero quello che scrive Sanguinetti.
Il link (in nota n. 2) a un articolo di Jacques Attali del 2009 è impressionante: Attali descriveva e auspicava ciò che sta avvenendo oggi: «On devra, pour cela, mettre en place une police mondiale, un stockage mondial et donc une fiscalité mondiale. On en viendra alors, beaucoup plus vite que ne l’aurait permis la seule raison économique, à mettre en place les bases d’un véritable gouvernement mondial», così tradotto da Franco Senia: «Dovrà essere, pertanto, istituita una polizia mondiale, un sistema di scorte a livello mondiale e, di conseguenza, una fiscalità mondiale. In questo modo, arriveremo in breve, assai prima di quanto lo avrebbe consentito la sola ragione economica, a porre le basi di un vero e proprio governo mondiale». Tutto molto chiaro.
Le analisi di Elias Canetti vengono ogni giorno confermate: non c’è bisogno di alcun complotto -ma di interessi finanziari sì- poiché la paranoia del potere si alimenta da sola, fa di sé il proprio combustibile.

Aggiungo solo, a questo proposito, due brani dell’articolato documento di un’associazione di medici -AMPAS– i quali si chiedono:
«se le informazioni provenienti dalle figure che operano come consulenti del Ministero della Salute siano diffuse con la comunicazione dei conflitti di interesse che essi possano avere con aziende del settore. Non sarebbe etico né lecito avere consiglieri che collaborano con grandi aziende farmaceutiche. 
Sempre in tema di conflitto di interessi: è stato il Parlamento a stabilire i componenti della Task force costituita recentemente per affrontare la cosiddetta fase2? Sono presenti possibili conflitti di interesse? Tali soggetti pare abbiano chiesto l’immunità dalle conseguenze delle loro azioni. Ma non dovrebbero essere figure istituzionali a prendere “decisioni” sul futuro del nostro paese? Una cosa è la consulenza, altro è decidere “in nome e per conto”. Con quale autorità?
Il giornalismo dovrebbe essere confronto di idee, discussione, valutazione di punti di vista diversi. Ci chiediamo quanto sia garantita la libertà di espressione anche di professionisti che non la pensano come noi. Vediamo invece giornalisti che festeggiano la “cattura” di un povero runner sulla spiaggia da parte di un massiccio spiegamento di forze, e la sistematica cancellazione di ogni accenno a diversi sistemi di cura rispetto alla “narrazione ufficiale” del salvifico vaccino, si tratti di vitamina C o di eparina, in totale assenza di contraddittorio.
In questo quadro intossicato, le reti e i giornali maggiori mandano in onda continuamente uno spot, offensivo per l’intelligenza comune, in cui si ribadisce a chiare lettere che la loro è l’unica informazione seria e affidabile: il resto solo fake. Viene così creata l’atmosfera grazie alla quale si interviene su qualunque filmato, profilo social, sito internet che non si reputi in linea con la narrazione ufficiale. Nessuna dittatura può sopravvivere se non ha il supporto di una informazione asservita».

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Il Dispotismo Occidentale
di Gianfranco Sanguinetti
Versione originale francese: Mediapart – 15.4.2020
Traduzione italiana di Franco Senia, rivista dall’autore

La conversione, delle democrazie rappresentative occidentali, a seguito del virus, a un dispotismo del tutto nuovo ha assunto la forma giuridica della «forza maggiore» (in giurisprudenza, com’è noto, la forza maggiore è un caso di esonero dalla responsabilità). E dunque il nuovo virus è, allo stesso tempo, sia il catalizzatore dell’evento sia l’elemento di distrazione delle masse per mezzo della paura 1.
Per quante ipotesi io avessi formulato fin dal mio libro Del Terrorismo e dello Stato (1979) sul modo in cui sarebbe avvenuta una tale conversione, a mio parere ineluttabile, dalla democrazia formale al dispotismo reale, devo confessare che non avevo mai immaginato che sarebbe potuta avvenire col pretesto di un virus. Ma le vie del Signore sono davvero infinite. E lo sono anche quelle dell’astuzia della ragione hegeliana.
L’unico riferimento, se vogliamo, tanto profetico quanto inquietante, è quello che ho trovato in un articolo che Jacques Attali, ex presidente della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERD), scriveva su L’Express ai tempi dell’epidemia del 2009:

«Se l’epidemia si aggraverà un po’, cosa possibile, dal momento che è trasmissibile dall’uomo, potrebbe avere delle vere e proprie conseguenze planetarie: economiche (i modelli suggeriscono che potrebbe causare una perdita di 3.000 miliardi di dollari, ossia un crollo del 5% del PIL mondiale) e politiche (dovute ai rischi di contagio…) Dovrà essere, pertanto, istituita una polizia mondiale, un sistema di scorte a livello mondiale e, di conseguenza, una fiscalità mondiale. In questo modo, arriveremo in breve, assai prima di quanto lo avrebbe consentito la sola ragione economica, a porre le basi di un vero e proprio governo mondiale» 2

Quindi, la pandemia era già stata prospettata: quante simulazioni saranno state fatte dalle maggiori compagnie di assicurazioni! E dai servizi di protezione degli Stati. Pochi giorni fa l’ex primo ministro britannico, Gordon Brown, è ritornato sulla necessità di un governo mondiale: «Gordon Brown ha esortato i leader mondiali a creare una forma temporanea di governo mondiale per affrontare le due crisi, quella sanitaria e quella economica, causate dalla pandemia di Covid-19» 3.
Si può aggiungere che il fatto che una simile occasione possa essere o colta oppure creata, non cambia molto il risultato. Una volta che l’intenzione c’è, e che la strategia è stata delineata, basta avere il pretesto, e poi agire di conseguenza. Tra i capi di Stato, nessuno è stato preso alla sprovvista, se non proprio all’inizio, lasciandosi andare a questa o a quella stupidaggine. Subito dopo, da Giuseppe Conte a Orban, da Johnson a Trump, ecc., tutti questi politici, per quanto rozzi siano, hanno rapidamente capito che il virus li avrebbe autorizzati a fare carta straccia delle vecchie Costituzioni, regole e leggi. Lo Stato di necessità giustifica ogni illegalità.

Una volta che il terrorismo – del quale si converrà che se ne era un po’ troppo abusato – aveva esaurito la maggior parte delle sue potenzialità, così bene sperimentate dappertutto nei primi quindici anni del nuovo secolo, è arrivato il momento di passare alla fase successiva, come avevo annunciato, già nel 2011, nel mio testo Dal Terrorismo al Dispotismo.
Del resto, l’approccio contro-insurrezionale, adottato immediatamente e ovunque in quella che viene impropriamente chiamata la ‘guerra contro il virus’, conferma l’intenzione che sta alla base delle operazioni ‘umanitarie’ di questa guerra, la quale non è contro il virus, ma piuttosto contro tutte le regole, i diritti, le garanzie, le istituzioni e le popolazioni del vecchio mondo. Sto parlando del mondo e delle istituzioni che si erano formate a partire dalla Rivoluzione francese, e che ora stanno rapidamente scomparendo sotto i nostri occhi nel giro di qualche mese, come è sparita, in modo altrettanto repentino, l’Unione Sovietica. L’epidemia finirà, ma non altrettanto le misure, le possibilità e le conseguenze che ha scatenato e che stiamo ora vivendo. Ci troviamo in mezzo al doloroso parto di un nuovo mondo.

Noi assistiamo alla decomposizione e alla fine di un mondo e di una civiltà: quella della democrazia borghese con i suoi Parlamenti, i suoi diritti, i suoi poteri e contropoteri ormai perfettamente inutili, perché le leggi e le misure coercitive vengono dettate dall’esecutivo, senza essere ratificate immediatamente dai Parlamenti, e il potere giudiziario, così come quello della libera opinione, perdono perfino l’apparenza di ogni indipendenza, quindi la loro funzione di contrappeso.
Si abituano così bruscamente e traumaticamente i popoli (come aveva stabilito Machiavelli, «Le iniurie si debbono fare tutte insieme, acciò che, assaporandosi meno, offendino meno»): il cittadino, essendo oramai già da tempo scomparso a beneficio del consumatore, ecco che quest’ultimo si vede ora ridotto al ruolo di  semplice paziente, sul quale si ha diritto di vita e di morte, a cui può essere somministrata qualsiasi cura, oppure decidere di sopprimerlo, a seconda della sua età (se è produttivo o improduttivo), oppure secondo qualsiasi altro criterio deciso arbitrariamente e senza appello, a discrezione del sanitario, o di altri. Una volta che è stato imprigionato ai domiciliari, o in ospedale, cosa può fare contro la coercizione, l’abuso, l’arbitrio?

La Carta Costituzionale viene sospesa, ad esempio in Italia, senza che venga sollevata la benché minima obiezione, neppure da parte di chi è ‘garante’ delle istituzioni, il presidente Mattarella. I sudditi, divenuti delle semplici monadi anonime e isolate, non hanno più da far valere alcuna ‘uguaglianza’, né diritti da rivendicare. È il diritto stesso che smette di essere normativo, e diventa già discrezionale, come la vita e la morte. Abbiamo visto che, con il pretesto del coronavirus, in Italia si possono uccidere immediatamente ed impunemente 13 o 14 detenuti disarmati, dei quali non ci si preoccupa neppure di elencare i nomi, né i loro eventuali crimini, né le circostanze in cui sono stati uccisi, e senza che di questo importi niente a nessuno. Si fa anche meglio di quanto fecero i tedeschi nella prigione di Stammheim. Almeno per i nostri crimini, dovrebbero ammirarci!
Non si discute più di niente, se non di soldi. E uno Stato come quello italiano si vede ridotto ad andare a mendicare dal sinistro ed illegittimo Eurogruppo i capitali necessari alla trasformazione della forma democratica nella forma dispotica. Quello stesso Eurogruppo che nel 2015 ha voluto espropriare tutto il patrimonio pubblico greco, ivi compreso il Partenone, e cederlo a un fondo con sede in Lussemburgo, sotto controllo tedesco: perfino Der Spiegel definì allora i diktat dell’Eurogruppo come ‘un catalogo di atrocità’ per mortificare la Grecia, e sul Telegraph  Ambrose Evans-Pritchard scrisse che se si fosse voluto datare la fine del progetto europeo, la data avrebbe dovuto essere quella. Ecco che ora la cosa è fatta. Rimane solo l’Euro, ma molto provvisoriamente.
Il neoliberismo non ha avuto a che fare con la vecchia lotta di classe, non ne ha neppure memoria, ritiene anzi di averla cancellata perfino dal dizionario. Si crede ancora onnipotente; questo non significa che non ne abbia paura: dal momento che sa bene ciò che si prepara ad infliggere ai popoli. È evidente che ben presto la gente avrà fame; è ovvio che i disoccupati aumenteranno senza limite; è chiaro che le persone che lavorano in nero (4 milioni in Italia) non avranno alcun aiuto. E chi ha un lavoro precario, e non ha niente da perdere, comincerà a lottare e a sabotare. Ciò spiega perché la strategia di risposta alla pandemia è innanzitutto una strategia di contro-insurrezione preventiva. In America ne vedremo delle belle. I campi di concentramento della FEMA si riempiranno presto.

Il nuovo dispotismo ha quindi almeno due ragioni forti per imporsi in Occidente: una è quella di far fronte alla sovversione interna che esso stesso provoca e si aspetta; l’altra è quella di prepararsi alla guerra esterna contro il nemico designato, che è anche il dispotismo più antico della storia, al quale non c’è niente da insegnare dai tempi de Il Libro del Signore di Shang (IV secolo a.C.) – libro che tutti gli strateghi occidentali dovrebbero affrettarsi a leggere con la massima attenzione. Se si decide di attaccare il dispotismo cinese, bisogna cominciare a dimostrargli di essere migliori di lui sul suo stesso terreno: vale a dire capaci di edificare un dispotismo più efficiente, meno costoso e più efficace. In breve, un dispotismo superiore. Ma questo resta da dimostrare.
Grazie al virus, si è rivelata alla luce del sole la fragilità del nostro mondo. Il gioco attualmente in corso è infinitamente più pericoloso del virus, e farà anche più morti. Eppure i contemporanei sembrano temere solo il virus…

Sembra che l’epoca attuale si sia assegnata il compito di contraddire ciò che diceva Hegel, a proposito della filosofia della storia: «La storia del mondo è il progresso della coscienza della libertà». Ma la libertà esiste solo in quanto essa stessa lotta contro quello che è il suo opposto, aggiungeva. Dove si trova oggi? Quando in Italia e in Francia la gente denuncia chi non obbedisce?
Se è bastato un semplice microbo a far precipitare il nostro mondo nell’obbedienza al più ripugnante dei dispotismi, ciò significa che il nostro mondo era già così pronto a questo dispotismo che un semplice microbo è stato sufficiente.
Gli storici chiameranno il tempo che sta incominciando ora l’epoca del Dispotismo Occidentale.

Note
1. Vedo che nell’intervista, apparsa il 10 aprile, Edward Snowden arriva alle medesime conclusioni:   on the rise of authoritarianism during the COVID-19 pandemic
2. J. Attali, Avancer par peurL’Express, 6.5.2009
3. Gordon Brown calls for global government to tackle coronavirus The Guardian, 26.3.2020

L’odio dei buoni

Un odio politicamente corretto
in Diorama Letterario – numero 352 – novembre/dicembre 2019
pagine 26-29

Indice
(Introduzione)
Sovranismo e socialismo
Globalizzazione
Politicamente corretto, culturalmente barbarico
Linguaggi

L’abolizione del passato, l’annientamento della storia, il disprezzo verso ciò da cui siamo germinati, sono alcune caratteristiche proprie delle ideologie totalitarie. E sono elementi che si ritrovano anche nell’ideologia del politicamente corretto, la quale vede nel passato e nel suo linguaggio una preistoria intessuta di odio e discriminazioni.
Il Politically Correct è anche una modalità di trasformazione della politica da dispositivo mondano di gestione dei conflitti a struttura soteriologica tesa a salvare dai conflitti. È un tratto religioso che non soltanto disvela la maschera di “laicità” della storia contemporanea –il Novecento è stato un secolo di sostanziale religiosità politica– ma rappresenta anche un elemento che mette a rischio le effettive libertà individuali e collettive.
Una conferma del fatto che l’odio sia un sentimento pervasivo sta nel suo costituire la base psicologica di quanti in nome del politicamente corretto trasformano il loro odio in censura, insulto, esclusione, violenza nei confronti dell’altrui odio. Si tratta di una peculiare mescolanza di antropologia ottimistica e puritanesimo religioso, due dei fondamenti della civiltà statunitense le cui modalità hanno da tempo colonizzato la civiltà europea.
In questo articolo cerco di analizzare alcune delle radici e delle espressioni dell’odio politicamente corretto.

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