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Dickens a Beirut

Cafarnao
(Capharnaüm)
di Nadine Labaki
Libano-USA, 2018
Con: Zain Alrafeea (Zain), Yordanos Shifera (Rahil), Boluwatife Treasure Bankole (Yonas), Kawsar Al Haddad (la madre), Fadi Youssef (il padre), Haita ‘Cedra’ Izzam (Sahar)
Trailer del film

Dopo due film con toni da commedia –Caramel (2007); E ora dove andiamo? (2011)- Nadine Labaki vira decisamente verso il dramma sociale. Il Libano dagli anni Dieci del XXI secolo somiglia molto all’Inghilterra del 1830 narrata in Oliver Twist, luogo infernale di un’infanzia che subisce ogni sorta di brutalità.
Le condizioni storiche e ambientali sono certo assai diverse ma anche Zain ha 12 anni e vive con coraggio la condizione di membro di una famiglia tanto numerosa quanto miserabile, nella quale i genitori sfruttano, insultano, vendono i loro figli. Nel suo peregrinare, il ragazzino diventa di fatto il tutore di un piccolo di un paio d’anni, figlio di un’immigrata clandestina; se lo porta appresso per la città, cerca di procurargli del cibo, scova tutti i possibili modi della sopravvivenza. Tornato a casa, scopre che la sorella undicenne -che molto amava e che è stata costretta a sposarsi- è morta per una gravidanza che non poteva sostenere. Zain accoltella l’uomo che di fatto l’ha uccisa, viene rinchiuso in galera ma da lì denuncia il padre e la madre «per avermi messo al mondo».
Oliver e Zain, Londra e Beirut sono metafore del mondo e della sua ferocia. Metafore entrambe molto sentimentali, piangenti e truci, ma vere. Mettere al mondo degli umani senza che poi si abbia la forza affettiva ed economica di accudirli è certamente criminale. L’impulso biologico e la costrizione sociale a riprodursi per essere detti e per sentirsi «persone complete» (anche il padre di Zain si giustifica in questo modo) costituiscono uno dei dispositivi più efficaci atti a moltiplicare la sofferenza del mondo. Né si può attribuire all’avere figli intenti altruistici. Non si genera un figlio per amore del figlio ma per ragioni che hanno a che fare con l’interesse del genitore su una varietà di livelli: gratificazione personale; impulso a compiere un dovere sociale; fornire allo Stato nuovi lavoratori, contribuenti, soldati; perpetuare la specie. Non bisogna neppure trascurare la quantità di persone che nascono a causa di errori nelle pratiche contraccettive.
Anche al di là dei casi di vite molto dolorose come quelle dei bambini protagonisti di Cafarnao, la sola e ‘normale’ vita quotidiana è intrisa di grandi difficoltà e sofferenze. Coloro che procreano giocano dunque «alla roulette russa con la pistola completamente carica -puntata, ovviamente, non alla propria testa, ma a quella dei loro futuri discendenti» (David Benatar, Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo,  Carbonio Editore 2018, p. 105). Si aggiunga il fatto -meritevole di una riflessione sui limiti dell’autopercezione umana- che «le brave persone fanno di tutto per risparmiare sofferenze ai propri figli, ma pochi di loro sembrano rendersi conto che l’unico modo sicuro per evitare ogni sofferenza ai loro bambini è non metterli al mondo» (Ivi, p. 16).
Bene ha fatto dunque Zain a denunciare chi lo ha posto in una condizione di inemendabile dolore. 

Libano

L’insulto
di Ziad Doueiri
Libano, 2017
Con: Kamel El Basha, Adel Karam, Rita Hayek,  Christine Choueiri, Camille Salame
Trailer del film

Un’elegante città mediorientale, Beirut, e un piccolo e ospitale Paese, il Libano, sono stati per quindici anni -dal 1975 al 1990- teatro di una guerra devastante e feroce come può esserlo una guerra civile. Lo scontro tra musulmani e cristiani fu implacabile, moltiplicato dall’orrore perpetrato con la complicità dell’esercito di Israele del generale e ministro Ariel Sharon. In Libano i segni di quell’odio non sono certo dissolti.
Riaffiorano infatti nella vicenda di Yasser, un ingegnere palestinese che fa il capo cantiere, e di Toni, un militante cristiano maronita. Il pretesto è un tubo rotto e un insulto qualsiasi, che si dilata poi all’etnia, alla religione, alla vita. Sino ad arrivare in tribunale e diventare un caso politico che coinvolge anche il presidente libanese.
I due personaggi testimoniano in modo profondo la dolorosa memoria che li pervade per essere stati vittime e carnefici da bambini e da adulti; esprimono l’orgoglio che rende impossibile il perdono quando a essere toccata è l’essenza stessa di una persona; mostrano la violenza dei monoteismi contrapposti tra di loro che rendono Allah e la Trinità cristiana delle entità di sterminio.
I tribunali daranno la loro sentenza ma nel frattempo qualcosa è accaduto nelle azioni e nell’interiorità di Yasser e di Toni, un bisogno di conciliazione che va anch’esso al di là delle esplicite volontà di ciascuno. Perché, come afferma uno dei personaggi, «nessuno ha il monopolio della sofferenza» dentro la specie composta da «miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, altra volta cadono privi di vita» (Iliade, XXI, 464-466, trad. di Giovanni Cerri).

La pace femminile

E ora dove andiamo?
di Nadine Labaki
(Et maintenant on va où?)
Francia, Libano, Egitto, Italia, 2011
Con: Nadine Labaki (Amale), Claude Msawbaa (Takla), Layla Hakim (Afaf), Antoinette El-Noufaily (Saydeh), Yvonne Maalouf (Yvonne)
Trailer del film

Un gruppo di donne vestite di nero avanza danzando e battendosi il petto con le fotografie dei propri morti. Vanno al cimitero, dove si divideranno tra le tombe cristiane e quelle musulmane. In un villaggio senza nome di un indeterminato Vicino Oriente l’imam e il prete cattolico tentano di mantenere un clima di pace tra le due comunità. Le tensioni però sono sempre pronte a emergere, sino a un evento che sembra spalancare le porte al reciproco massacro. Ma le donne -tutte, islamiche e cristiane- ricorrono a ogni stratagemma pur di evitare il conflitto: dalle presunte visioni della madonna all’ingaggio di alcune danzatrici ucraine per distrarre i maschi, dal seppellimento delle armi alla preparazione di dolci corretti all’hashish.

Divertimento e dramma si mescolano in questa parabola che va oltre il particolare contesto libanese e mostra con intelligenza e lievità la natura irrazionale di ogni conflitto, di ogni cedimento alle pulsioni che comportano anche la fine del pur di raggiungere la distruzione dell’altro. La guerra è un enigma evoluzionistico, politico, metafisico che millenni di riflessione hanno illustrato in tutti i modi, non riuscendo in alcun modo a debellarne la furia. Lo sguardo e il tocco femminili di questo film si pongono totalmente dalla parte della donna, vista come madre e amante pronta a tutto pur di proteggere i propri nati e i propri uomini dalla loro stessa furia, in una costruzione corale che è l’elemento più riuscito dell’opera. Il significato del titolo viene svelato nella scena finale e nella battuta conclusiva, ancora una volta capaci di mescolare le differenze e farne una ragione di ricchezza invece che di odio.

Lebanon

di Samuel Maoz
Con: Yoav Donat, Itay Tiran, Oshri Cohen, Michael Moshonov
Israele, 2009
Trailer del film

lebanon

«L’uomo è d’acciaio. Il carro è solo ferraglia». Questa la scritta che campeggia sul carro armato con dentro quattro soldati israeliani durante l’invasione del Libano nel 1982. Anche quando la ferraglia non funzionerà quasi più, colpita dal fuoco siriano, i quattro uomini attingeranno non al loro eroismo, del tutto assente, ma alla loro disperata voglia di vivere ancora. Vivere vedendo dal mirino del loro strumento di morte un venditore di polli smembrato, un asino col ventre squarciato ma che ancora respira, una famiglia sterminata e con la madre sopravvissuta che cerca piangendo la figlia, un cristiano falangista che minaccia un prigioniero siriano di cavargli un occhio, di tagliargli il pene, di squartarlo.

Ma non contano i particolari della vicenda. A sorprendere è la capacità espressiva di concepire un film tutto dentro un carro armato e in gran parte filtrato dal mirino attraverso il quale chi vi è rinchiuso vede il mondo, dal movimento a scatti con cui esso perlustra l’ambiente, con i primissimi piani dei protagonisti, con il nero delle pareti e le luci della strumentazione, con i deboli riflessi del mondo esterno. Opera claustrofobica, antimilitarista, ispirata in parte a Full Metal Jacket e soprattutto capace di trasmettere in modo straordinariamente efficace e dall’interno -alla lettera- l’insensatezza e la ferocia assoluta della guerra. Un esperimento formale e uno sguardo sull’orrore che hanno meritato il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia.

Valzer con Bashir

di Ari Folman
(Waltz with Bashir)
Germania, Francia, Israele, 2008
Disegni e animazioni: Yoni Goodman

valzerbashir

Ari Folman racconta la guerra nel Libano del 1982, vissuta da soldato diciannovenne dell’esercito israeliano. Racconta soprattutto il proprio non ricordare il massacro attuato dai falangisti cristiani con la complicità israeliana nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, dove vennero sterminati donne, bambini, vecchi, col motivo di vendicare l’assassinio del leader falangista Bashir Gemayel. Folman ricostruisce i fatti con l’aiuto dei commilitoni e di un giornalista inviato di guerra. Dopo venticinque anni la ferita è ancora aperta in alcuni di loro. C’è chi sogna i 26 cani che ha ucciso perché non rivelassero la presenza dei soldati, chi giustifica tutto in nome del principio gerarchico (la stessa autodifesa di numerosi militari a Norimberga), chi afferma che la guerra è sempre stata questo…

La bellezza del film sta nelle sua tecnica, nei colori cupi e sgargianti coi quali restituisce l’orrore, nell’animazione a volte un po’ meccanica ma più spesso capace di rendere la mescolanza tra la dimensione reale e quella onirica degli eventi, nella profondità dei disegni. Un po’ banale l’insistenza sulla lettura psicoanalitica, necessario appare invece il passaggio conclusivo dall’animazione alla documentazione video di uno degli episodi più orribili del Novecento. È una buona cosa che con questo film, come con Il giardino di limoni di Eran Riklis, una parte della società israeliana cominci a fare i conti con i propri crimini. Meglio ancora sarebbe se non ne perpetrasse altri.

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